MUSSOLINI E RENZI ALLA PROVA (DECISIVA) DEL PETROLIO: DELITTO MATTEOTTI VS TEMPA ROSSA

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DI FEDERICO DEZZANI

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A più riprese abbiamo tessuto paragoni tra gli esordi di Benito Mussolini e quelli di Matteo Renzi. I due personaggi, fatte le dovute distinzioni dettate dal contesto storico, presentano significative analogie: l’idea del Partito della Nazione e la legge elettorale “Italicum” ricalcano poi il Partito-Stato teorizzato dalla dirigenza fascista e la celebre legge Acerbo. Sia Mussolini che Renzi conquistano la presidenza del Consiglio con l’avallo di Londra e Washington; entrambi, a distanza di due anni dal loro insediamento, mostrano evidenti velleità autonomiste; su entrambi si abbatte uno scandalo petrolifero che rischia di stroncare loro la carriera. Come l’inchiesta Tempa Rossa è infatti un chiaro tentativo angloamericano di defenestrare Renzi, così è altamente probabile che l’omicidio Matteotti, ruotante attorno alla compagnia petrolifera Sinclair Oil, fosse un’operazione inglese per eliminare un Mussolini “fuori controllo”.

Omicidio Matteotti: il petrolio fu centrale o solo un pretesto ?

Nota: per la stesura del paragrafo ci basiamo su “Mussolini il fascista”, Renzo De Felice, Einaudi, 1966; “Mussolini ed il petrolio iracheno”, Mauro Canali, Gli struzzi Einaudi, 2007; “Il golpe inglese”, Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Chiarelettere, 2011.

Nell’ultimo anno abbiamo tessuto più di un volta paragoni tra Benito Mussolini e Matteo Renzi: i tratti dei due personaggi, il contesto nazionale ed internazionale e le prime mosse dei due presidenti del consiglio ci hanno facilitato l’operazione, senza che dovessimo “forzare” l’analisi che, al contrario, si è dipanata con naturalezza.

Sotto il profilo delle due personalità si possono annoverare tra le similitudini la giovane età cui conquistano la presidenza del Consiglio (entrambi a 39 anni, con un lieve primato di Renzi), l’incarnazione del “nuovo” che si contrappone al vecchio (Mussolini è il “rottamatore” dei vecchi partiti elitari dell’Italia liberale ed il rappresentante del primo partito di massa), l’evidente volontà accentratrice e l’insofferenza verso le figure che facciano loro ombra, le indubbie capacità tattiche parallele all’assenza di qualsiasi strategia all’infuori del durare, così da poter consolidare progressivamente il loro potere.

Per quanto concerne il contesto nazionale, in entrambi i casi le due personalità “forti” emergono in un momento di estrema debolezza, per non dire di esaurimento, dell’Italia, attanagliata da problemi economici e finanziari: il primo dopoguerra ed il biennio rosso nel caso di Mussolini, l’eurocrisi e la drammatica politica di svalutazione interna nel caso di Renzi. Per quanto concerne il contesto internazionale, entrambi assumono la guida in un momento di forte perturbazione che rischia di avere serie ripercussioni sull’Italia: il consolidamento dell’URSS e gli assestamenti post-Versailles nel caso di Mussolini, la destabilizzazione del Mediterraneo e la montante tensione con la Russia nel caso di Renzi.

Le loro prime mosse presentano analogie ancora maggiori: l’idea di Matteo Renzi, risalente sin agli esordi del suo debutto politico e riaffiorante nell’attuale momento di grave di difficoltà, di fondare il Partito della Nazione1 coincide con quella nutrita da molti gerarchi fascisti dopo la marcia su Roma di sciogliere il partito con cui hanno conquistato il potere (PNF vs PD) e creare un partito-Stato o partito-Nazione che, superando le barriere ideologiche, si rivolga genericamente al bene nazionale nel senso più ampio possibile. Ancora più marcata è poi la somiglianza della legge elettorale Italicum (da abbinare all’abolizione del bicameralismo perfetto, non contemplato dallo Statuto Albertino vigente ai tempi di Mussolini) alla legge Acerbo, entrambe fortemente maggioritarie2: fatti i dovuti calcoli, una forza politica attorno al 25% delle preferenze conquisterebbe con le due norme rispettivamente il 55% ed il 66% dei seggi. Palese è poi la volontà, sin dell’uno che dell’altro, di rendere le istituzioni “stabili e funzionanti”, avocando ovviamente a sé la direzione dello Stato.

Entrambi, infine, devono la conquista del potere al determinante appoggio della massoneria (nel caso di Mussolini, con l’avallo della Gran Loggia d’Italia degli Alam e l’ostilità del Grande Oriente d’Italia, mentre nel caso di Renzi il GOI si è limitato ad affermare che il presidente del Consiglio non figura tra i suoi iscritti3), dietro cui si celano le potenze anglosassoni .

Le analogie finiscono qui?

No, proseguono e ci introducono così nel vivo del discorso: entrambi, entrati nel secondo anno di governo, mostrano evidenti velleità autonomistiche di fronte cui le potenze anglosassoni reagiscono con il tentativo di estrometterli dal potere. Sia chiaro: il contesto in cui si muove Mussolini, che segue di pochi anni la guerra, è molto più violento, acceso e vibrante di quello attuale, dove agli omicidi politici si sono sostituite le indagini dei pubblici ministeri. Però, le dinamiche sembrano essere le stesse e, ennesima analogia, in entrambi i casi i tentativi di cacciare il presidente del Consiglio ruotano attorno ad uno scandalo petrolifero.

A questo punto, separeremo le due analisi e, ovviamente, tratteremo prima le vicende di Benito Mussolini ed il correlato omicidio Matteotti.

Sull’omicidio del leader socialista Giacomo Matteotti, assassinato nel 1924, si sono svolte ben tre inchieste ufficiali, di cui l’ultima nell’immediato dopoguerra (1947), e la letteratura storica sull’argomento abbonda: tra gli ultimi ad aver riaperto il dossier figurano Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella che, con “il Golpe inglese” (Chiarelettere, 2011), hanno portato alla luce nuovo materiale consultando i documenti, appena desecretati, conservati negli archivi nazionali inglesi di Kew Gardens. Crediamo che Cereghino e Fasanella abbiano intuito quella che noi pensiamo essere la verità, ma ci abbiano girato attorno, facendovi qualche cenno ma evitando di esplicitarla. Proviamo quindi ad esporre succintamente la nostra tesi, riservandoci di trattarla più ampiamente in futuro .

Il “Listone” (fascisti, nazionali e liberali), guidato da Benito Mussolini, conquista alle elezioni del 6 aprile 1924 oltre il 65% delle preferenze, consento così, in virtù della legge Acerbo, di formare un esecutivo forte di 2/3 della Camera: Mussolini non ha rivali a destra ed il suo unico timore è che le opposizioni, allora divise, si coalizzino. Per spiazzare la sinistra, intraprende così un’ardita manovra per traghettare nell’area governativa qualche esponente della Confederazione Generale del Lavoro e del PSU: alla avancesmussoliniane si oppone strenuamente Giacomo Matteotti, preoccupato dei cedimenti che intravvede dentro il partito socialista.

L’ultima, dura, requisitoria contro il fascismo è pronunciata da Matteotti alla Camera il 30 maggio 1924. Circa un mese prima, tra il 22 ed il 26 aprile, il leader socialista si era recato in visita nel Regno Unito, dove incontra esponenti del governo laburista. I politici inglesi lo mettono al corrente di alcune tangenti che il fratello del premier, Arnaldo Mussolini, ed esponenti di casa Savoia avrebbero intascato per stipulare una convenzione con la compagnia petrolifera americana Sinclair Oil: in ballo c’è la ricerca del petrolio in Sicilia ed Emilia. Non solo, gli inglesi gli forniscono una serie di documenti per sostenere l’accusa: Matteotti torna quindi in Italia e si propone di denunciare tutto alla Camera, durante la seduta dell’11 giugno.

Nel pomeriggio del 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti è caricato a forza su un’automobile; verso il mezzogiorno del 12 giugno inizia a circolare la notizia della sua scomparsa; pochi giorni ancora e diventa chiaro che il politico è stata assassinato; il 16 agosto, infine, il suo corpo è rinvenuto in avanzato stato di decomposizione nel bosco della Quartarella, a 23 chilometri da Roma.

Fin dai primi giorni successivi alla scomparsa di Matteotti si diffonde la voce che il crimine sia riconducibile agli “affari all’ombra del regime” ed in particolare al sottosegretario Aldo Finzi, fondatore de il Corriere Italiano, nonché uomo della Banca Commerciale e della Sinclair Oil. Per l’esecutivo, e Benito Mussolini in particolare, è un colpo durissimo. Scrive Renzo De Felice, tra i massimi studiosi del fascismo:

“Nei giorni successivi la posizioni di Mussolini e del fascismo si fece difficilissima, pezzo a pezzo tutta la costruzione edificata in oltre un anno e mezzo cominciò a sgretolarsi e a minacciare di crollare. La notizia della scomparsa di Matteotti (passati i primissimi giorni fu chiaro che era stato ucciso) suscitò nel paese una enorme impressione e una reazione vastissima, pressoché unanime. Fosse o no Mussolini il responsabile diretto, per tutti era evidente che il crimine era nato dal fascismo e che i suoi mandanti si trovavano nell’entourage di Mussolini, un entourage che ben presto apparve molto simile a quello di una corte da basso impero (…).”

Da un momento si attende infatti la caduta del governo ed il ritorno di Giovanni Giolitti alla presidenza del Consiglio, se non un golpe militare tout cout; le opposizioni si preparano ad astenersi dai lavori della Camera, iniziando il celebre Aventino; il mercato azionario crolla.

È responsabile Benito Mussolini della morte di Matteotti, benché abbia sempre negato qualsiasi coinvolgimento diretto ed indiretto nell’omicidio? Il 13 giugno, a distanza di tre giorni dalla scomparsa di Matteotti, afferma alla Camera:

“Se c’è qualcuno in quest’aula che abbia diritto più di tutti di essere addolorato e, aggiungerei esasperato, sono io. Solo un nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione.”

Scrive De Felice:

“È però un fatto che l’uccisione di Matteotti o anche solo un suo rapimento per dargli una “lezione” che servisse a fargli moderare la sua opposizione non poteva giovare in alcun modo a Mussolini, sia che egli volesse portare a buon termine le sue avances verso i confederali sia che non pensasse per il momento ad un mutamento così radicale della situazione politica. Nell’uno e nell’altro caso anche solo una “lezione” non gli avrebbe portato alcun vantaggio, ma solo difficoltà. E Mussolini era troppo un buon tempista, troppo buon politico per non rendersene conto.

In che ambienti nasce quindi l’omicidio e chi possono essere i mandanti?

Torniamo alla cronaca dei fatti. Responsabile del rapimento e dell’uccisione per accoltellamento di Matteotti è una squadra di quattro o cinque ex-arditi milanesi, nota come la ceka fascista, comandata da Amerigo Dumini ed agli ordini del quadrumviro Emilio De Bono, capo della polizia e della Milizia. È la ceka fascista che il pomeriggio del 10 giugno carica su un’automobile del Corriere Italiano (riconducibile quindi ad Aldo Finzi, “l’uomo della Sinclair Oil”) il leader del socialista, per poi ucciderlo e seppellirlo sommariamente nei boschi fuori Roma.

Amerigo Dumini, il responsabile dell’operazione, non è un fascista qualsiasi: nato nel 1894 negli Stati Uniti, figlio di un mercante d’arte fiorentino e di una nobildonna inglese, “diciannovista”, Dumini bazzica dopo la marcia su Roma il mondo dei servizi segreti. Arrestato a distanza di un mese dalla scomparsa di Matteotti, condannato a cinque anni per omicidio preterintenzionale, amnistiato, spedito in Libia, catturato dagli inglesi nel 1941, “sopravvissuto” ad una finta esecuzione, Dumini rispunta a Salò, dove con alta probabilità lavora per i servizi britannici e termina il conflitto come interprete delle truppe d’occupazione americane. Condannato del dopoguerra a 30 anni di reclusione per l’omicidio Matteotti, la sua pena è quasi annullata grazie ad una serie di indulti. Dumini, in sostanza, è un agente riconducibile agli inglesi già nel 1924, all’epoca del rapimento del leader socialista.

Poi c’è Emilio De Bono: medaglia d’argento al valore militare durante la guerra, noto massone, uomo di fiducia dei Savoia (a loro volta strettamente legati alla Corona d’Inghilterra), capo della polizia, della Milizia e della ceka fascista, è costretto a lasciare ogni carica dopo il rapimento di Matteotti e, sottoposto a processo, è poi assolto. È fucilato a Verona nel gennaio 1944 per il “tradimento” del 25 luglio, dopo aver cercato di salvarsi in extremis consegnando a Mussolini i famosi documenti passati dagli inglesi a Matteotti nel 1924. Anche De Bono, attraverso la massoneria e la famiglia Savoia, è riconducibile al Regno Unito.

Ricostruite le dramatis personae, proviamo anche a ricostruire la dinamica del delitto, “del cadavere gettato tra i piedi di Mussolini”.

Matteotti si reca Londra, riceve il materiale che prova i maneggi attorno alla convenzione firmata con la Sinclair Oil e torna in Italia pronto a denunciare tutto alla Camera l’11 giugno. In contemporanea Londra avverte De Bono e/o Dumini che Matteotti è in possesso di documenti esplosivi e li invita a “sistemare” la questione: la ceka fascista guidata da Dumini, forse eseguendo un ordine esplicito, assassina Matteotti, badando bene di utilizzare per il crimine l’auto del Corriere Italiano, così da inguaiare il sottosegretario Aldo Finzi (che si professerà sempre innocente) ed il governo. L’esecutivo italiano quindi entra in crisi, Benito Mussolini vacilla ed è ad un passo dal baratro: come vogliono gli inglesi.

Questa ricostruzione rende spiegabile l’enigmatico articolo apparso con lo pseudonimo de “lo Spettatore” sul Popolo d’Italia, il giornale di Mussolini:

“Non mi meraviglierei che dovesse risultare domani come la mano stessa che forniva a Londra all’on Matteotti i documenti mortali, contemporaneamente armasse i sicari che sul Matteotti dovevano compiere il delitto scellerato.”

Resta solo più un quesito: perché Londra, coll’omicidio Matteotti, tenta di rovesciare il governo Mussolini, cui ha dato il suo sostegno per la marcia su Roma nemmeno due anni prima?

Le risposte abbondano e proviamo a fornirle in ordine crescente d’importanza: la volontà di eliminare l’esecutivo che faceva affari con le compagnie petrolifere americane e conquistare così il mercato italiano, la stipulazione nel 1923 di un accordo tra Italia e Russia per l’importazione di petrolio (si ricordi che il ministro degli esteri tedesco Walther Rathenau è ucciso nel 1922 per l’apertura all’URSS), la crescente sicurezza di Benito Mussolini in politica estera, culminata con la crisi di Corfù del 1923 che vede Londra schierata a fianco di Atene, contro Roma. Significativo quanto scritto nel dicembre del 1923 dal Foreign Office:

“Gli italiani sono in preda a qualche strana allucinazione circa l’equilibrio di potere nel Mediterraneo, a cui Mussolini aveva fatto vagamente cenno a Losanna. Mussolini, e si presume anche l’esecutivo, è convinto che il governo di Sua Maestà ha una politica mediterranea e che questa politica sia diretta contro l’Italia.

La sollecitazioni cui è sottoposto l’esecutivo italiano, lo abbiamo detto, sono tremende e tra l’estate e e l’autunno del 1924 più di una volta Mussolini sembra vicino alla fine (il Grande Oriente d’Italia, il Corriere della Sera e la Confindustria lavorano per la sua caduta). Se alla fine il governo sopravvive all’omicidio Matteotti è dovuto ad una serie precisa di fattori:

  • non esiste un’alternativa a Mussolini, se non il vecchio Giolitti, e in ogni caso se estromesso Mussolini può scatenare i fascisti intransigenti, trascinando il Paese nella guerra civile;
  • le opposizioni sono frantumate e l’Aventino si dimostra sterile e controproducente;
  • il re, l’esercito non osano forzare la prassi costituzionale, né il Consiglio dei Ministri costringere Mussolini alle dimissioni, consapevoli che il premier è pronto a schierarsi contro qualsiasi suo successore e ad aizzare gli squadristi.

Il famoso, breve, violento, minaccioso ed allo stesso tempo ammiccante discorso del 3 gennaio 1925 alla Camera (“Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di quest’Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di quanto è avvenuto (…) Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo comprimevo, che fosse morto perché io lo castigavo e poi avevo anche la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a scatenarlo, voi vedreste allora. (…) L’Italia, o signori, vuole la pace, la tranquillità, vuole la calma laboriosa), seguito dalle leggi sulla restrizione alla stampa e sulla chiusura di tutti i circoli politici “sospetti”, getta le basi del regime fascista.

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