DI GIANLUCA FREDA
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Io adoro il Partito Democratico. Mi fa sentire sicuro. In un mondo in cui tutto si trasforma alla velocità della luce, in cui i parametri di riferimento di ieri mattina risultano obsoleti a mezzogiorno di oggi, è bello sapere che esistono cose che rimangono stabili nel tempo. Ad esempio le mazzate sonore che il PD busca ad ogni tornata elettorale. Ci sono momenti nella vita in cui si sente il bisogno di puntare il sestante verso una stella fissa mentre si è trascinati dai marosi dell’esistenza. E i dirigenti del PD, questo meraviglioso enigma del creato, sono sempre lì, con le loro ossa rotte, i loro occhi pesti, le loro fratture multiple scomposte dopo ogni consultazione nazionale, provinciale o regionale per rassicurarti, per garantirti che nel mondo tutto cambia, tranne ciò che dovrebbe cambiare.
Anche quando l’impresa sembra impossibile, non ti deludono mai. Prendete le elezioni regionali della scorsa settimana. Avevo detto tristemente a me stesso: stavolta devo rassegnarmi. La loro rimonta è inevitabile. Neanche un merluzzo salato e bollito riuscirebbe a perdere le elezioni contro un centrodestra così disunito, sgangherato, sfilacciato, screditato, preagonico. Mettiamoci l’animo in pace e arrendiamoci al fatto che anche il peggio può modificarsi in peggio.
Invece, anche stavolta sono riusciti a compiere la loro magia. Hanno tirato fuori candidati anonimi e insulsi, pescati a caso nel loro ampio database di prodotti vegetali, per assicurarsi che anche gli elettori più citrulli provassero disagio nell’avvicinarsi alle urne. Nel Lazio, dove per ottenere una batosta contro un centrodestra incapace perfino di presentare le liste elettorali occorreva un deterrente più forte della mera insussistenza politica, hanno intelligentemente schierato Emma Bonino, l’orrenda virago pannelliana, filosionista, antipalestinese ed ansiosa di annettere ad Israele anche l’Unione Europea insieme alle alture del Golan. Roba che neanche Barbablù e Darth Vader, facendosi coraggio a vicenda, sarebbero riusciti ad avvicinarsi al seggio. In Piemonte, dove Mercedes Bresso aveva già svolto cinque anni di ottimo lavoro per rendere evidente al mondo il disprezzo degli intrallazzieri del PD per i cittadini, facendo malmenare a più riprese i manifestanti che si opponevano al mostruoso progetto della TAV, non c’è stato bisogno di cambiare cavallo. E’ bastato suggerire all’attempata manganellatrice di sbeffeggiare ed insultare un gruppo di suoi ex elettori venuti a chiederle ragione del tradimento ed il miracolo è stato compiuto. Con grande modestia, i dirigenti del PD hanno poi attribuito a Beppe Grillo il merito della trombatura, rafforzando ulteriormente quella sensazione di immutabilità e sicurezza che il PD dona generosamente a chi lo ama. Se infatti è sufficiente un Beppe Grillo a levarci di torno uno dei più coriacei e blindati candidati del PD alla presidenza regionale, allora anche la speranza in un mondo senza Errani non è del tutto perduta.
E la cosa più bella è che i vulcanici intellettuali del PD sono incessantemente al lavoro: non hanno ancora finito di mandar giù con lo sciacquone i trombati alle regionali che già lavorano con alacrità alla catastrofe successiva. L’altro giorno ho sentito Lucia Annunziata annunziare ad Annozero che le cause della randellata presa dal PD sono da ricercarsi nello spavento che le posizioni del partito hanno suscitato negli elettori moderati. Non si può darle torto. Ricordo benissimo che, nel corso della campagna elettorale, Bersani è comparso una volta in TV ricoperto, come sempre, di colla di pesce, gel fissante e gesso a presa rapida per apparire il più imbalsamato possibile; ma ha mosso inavvertitamente un sopracciglio, suscitando con tale inconsulta alterazione della fisiognomica il panico e lo sconcerto più assoluto negli elettori moderati, i quali si sono precipitati a votare per la Lega. In vista delle comunali del 2012, Bersani verrà esposto in video solo dopo essere stato sottoposto ad un meticoloso intervento di mummificazione, eseguita con tecniche egizie: gli verrà estratto il cervello dalle narici con un ferro ad uncino appositamente forgiato per agganciare piccoli oggetti, verrà deposto per tre settimane in una vasca di natron, ricoperto di resine profumate ed infine issato dai facchini dinanzi alle telecamere di Annozero. Ciò dovrebbe rassicurare l’elettorato moderato, fatta salva l’eventualità di contrazioni nervose che spingano la salma ad allargare improvvisamente le braccia.
Deliziosamente rassicurante è anche il tradizionale rito dell’autocritica, con cui i giullari del PD, dopo ogni passata di bianco, interpellano aruspici, vati, sibille e pitonesse riguardo i motivi della sconfitta, traendone conclusioni così imbecilli da scoraggiare qualunque bookmaker che intenda risollevare le loro quotazioni per l’appuntamento elettorale successivo. Ad esempio, dalla consueta analisi del volo delle rondini e del fegato di pecora seguita alla batosta regionale, alcuni maggiorenti del partito hanno desunto, come fanno dopo ogni mazziata, la necessità di “aprirsi al confronto” con il centrodestra, di “mettersi in gioco”, di “avviare una riflessione politica seria”, di “abbassare i toni”. Una minoranza eretica dei loro elettori si è chiesta allibita in quale gioco costoro non si siano ancora infilati con tutti e due i piedi, quale tono possa essere più basso del silenzio cimiteriale e soprattutto quale nuova zona della loro già devastata anatomia dovranno ancora aprire al “confronto” con le verghe della maggioranza. Ciò non è chiaro. Ma D’Alema si è premurato di fornire alcune illuminanti indicazioni, del tipo: “Dobbiamo riflettere sul presidenzialismo, perché un partito come il nostro non può non avere una proposta per la riforma dello Stato”. Che tradotto significa: queste elezioni siamo riusciti a perderle, ma difficilmente riusciremo a far vomitare gli elettori più di così. Se vogliamo perdere anche le prossime, dobbiamo assolutamente diventare meri pappagalli del centrodestra e limitarci a ripetere le frasi che essi pronunciano, da “proposta per la riforma” a “Loreto mangia biscotto”. Gli ha fatto eco Walter Veltroni, dichiarando: “Non si possono dire solo dei no al presidenzialismo”. Veltroni è un esemplare raro, attualmente sottoposto allo studio di un’equipe di biologi e naturalisti, con l’intento di dimostrare che perfino i pappagalli possiedono i loro pappagalli.
Esistono in natura alcune rocce basaltiche, come ad esempio la tholeiite e la basanite, in grado di elaborare con una certa compiutezza il concetto in base al quale se si desidera essere dei basalti occorre differenziarsi in qualche maniera da altri reperti minerali, ad esempio dalle andesiti. Alcuni ortaggi comuni, come la bietola rossa e la patata quarantina, possiedono consapevolezza sufficiente per comprendere che se si desidera essere coltivati e graditi dai commensali, occorre essere gustosi e che non basta accusare la zucca di Castellazzo di essere molto più insipida. I platelminti, animali vermiformi appartenenti alla classe dei Turbellari, hanno coscienza del fatto che aprirsi al confronto con gli antiparassitari non è il sistema migliore per garantire la sopravvivenza della propria specie e rassicurare i membri della propria colonia.
Ora, io detesto gli insulti gratuiti e non mi permetterei mai di sostenere che l’intelligenza di D’Alema o quella di Veltroni sia inferiore a quella di un platelminta. Penso anzi che le loro intelligenze e quella di un animale vermiforme siano perfettamente compatibili (almeno a livello di elaborazione logica, ché sul piano della strategia e dell’organizzazione politica, i platelminti bisogna lasciarli stare). Ma allora chiediamoci: è davvero possibile che i dirigenti del PD non si rendano conto di ciò che un qualunque esponente del regno minerale, vegetale o animale in 16 anni di vita politica italiana sarebbe stato in grado di capire? E cioè che continuare a fondare schizofrenicamente la propria strategia sulla demonizzazione del nemico in campagna elettorale e poi, cinque minuti dopo la chiusura delle urne, sull’avallo servile alle sue richieste è il modo più sicuro per perdere credibilità ed elezioni? Che non possedere un proprio progetto di governo, limitandosi a boicottare o sostenere quello dell’avversario a seconda della convenienza, li rende indistinguibili da lui sul piano politico e molto più vili, agli occhi dell’elettorato, sul piano morale? Risposta: no, non è possibile che non sappiano questo. L’unica spiegazione possibile del loro autolesionismo ormai quasi ventennale è che in realtà di guadagnare voti e vincere le elezioni non gliene freghi assolutamente niente e che essi vedano anzi questa eventualità come una iattura. Se si adotta questo punto di vista si iniziano a capire molte cose della situazione politica dal 1993 ad oggi.
L’obiettivo che il PD e partitucoli di varia estrazione al seguito perseguono con pervicacia non è quello di governare il paese. Non hanno la più pallida idea di come si faccia, non gli interessano i problemi del paese, non hanno la minima intenzione di rimediare al declino dell’Italia e se anche lo volessero non distinguerebbero l’Italia dalla tapezzeria del proprio salone delle feste. Ciò che gli interessa è amministrare il potere, lucrare sugli appalti pubblici, favorire i potentati finanziari e industriali nazionali e internazionali che garantiscono le loro rendite, assicurare a se stessi e ai propri referenti clientelari il completo dominio su ogni aspetto della vita italiana. Tutto questo si può fare comodamente standosene alla cosiddetta opposizione, senza il fastidio di troppi riflettori, con accordi politici che garantiscano la spartizione dei poteri locali con la maggioranza, la quale tiene per se stessa ricca parte del bottino, prendendosi però anche le inutili maledizioni e gli impotenti improperi dei cittadini che sentono ogni giorno mancar loro il terreno sotto i piedi. Un accordo tra bande in piena regola, che garantisce ad entrambe le cosche la permanenza al potere, attraverso un sistema di sostegni reciproci occasionalmente mascherato da diafane conflittualità, recitate nelle vigilie elettorali con poco interesse e sempre minore professionalità.
Si potrà obiettare che questo potrebbe essere per il PD un gioco rischioso. Le due cosche infatti, seppur alleate, non sono certo amiche e l’eccessivo indebolimento dell’una potrebbe portare ad una sua prematura eliminazione dai traffici del racket da parte della cosca vincente. In realtà questo rischio non esiste ed è essenziale che gli elettori capiscano il perché.
Le due cosche sono in realtà piccole ramificazioni locali di una cosca molto più grande, che è quella del potere finanziario e industriale internazionale. Le loro sorti non dipendono che infinitesimalmente dal voto dei cittadini. Dipendono soprattutto dall’ottemperanza alle direttive fornite loro dalle banche e dagli organismi finanziari e industriali internazionali. Se un settore pubblico (ad es. l’acqua o la raccolta dei rifiuti) è lucrativo, esso va ridotto in frammenti e svenduto a chi fornisce alle cosche il supporto necessario per restare in sella. Se un altro settore (ad es. l’istruzione), non è lucrativo, ma può essere utile a perseguire certe finalità complementari (ad es. la formazione dei salariati e dei quadri dirigenti che dovranno servire a tenere in piedi l’apparato confindustrial-finanziario) lo si riduce all’osso e lo si destina agli scopi strettamente rispondenti alle necessità dei dominanti. In cambio di questi servigi, le cosche locali ricevono ciò di cui hanno bisogno per preservare il proprio potere e continuare a prestare la propria opera: organi d’informazione addomesticati che consentano loro di monopolizzare l’attenzione, togliendo ogni spazio ai problemi reali e alla nascita di eventuali altre formazioni; sostegno e riconoscimento da parte dei dominanti e delle cosche locali di altre nazioni; possibilità di carriera nell’organigramma predisposto all’uopo dagli ideatori del sistema; last but not least, sostegno militare da utilizzarsi nella remota eventualità che masse ragguardevoli di cittadini dovessero prendere coscienza del meccanismo e provare a contrastarlo.
Tutto questo sistema, per poter funzionare con tranquillità, ha bisogno della passività dei cittadini, che può essere di due tipi: imposta (ad esempio tramite un governo assolutista creato all’uopo) o indotta (che è il sistema più efficace e più utilizzato). La passività indotta richiede che i cittadini non si sentano schiavi, ma abbiano l’illusione di poter scegliere tra diverse proposte di governo. Occorre che si sentano attivi, che continuino a discutere e scontrarsi tra loro per la supremazia di formazioni politiche che differiscono tra loro solo per sfumature, oppure per i solenni princìpi esposti nei rispettivi statuti, benché puntualmente contraddetti alla prova dei fatti. E’ lo stesso principio elaborato negli anni ’20 dal Tavistock Center per la manipolazione delle masse attraverso i media: le vittime del lavaggio del cervello di massa non devono rendersi conto di trovarsi in un ambiente controllato; occorre dunque predisporre un ampio numero di scelte, i cui messaggi dovranno essere leggermente diversi, così da mascherare la sensazione di un controllo dall’esterno. Applicato alla politica, questo stratagemma viene comunemente definito democrazia.
E’ per questo che il PD non teme la propria estinzione, non si preoccupa minimamente di venire incontro alle aspettative dei suoi elettori (che non eleggono e non controllano niente, anche se non lo sanno). I suoi referenti gli hanno assegnato – nell’ormai lontana stagione di “mani pulite” – il compito fondamentale di tenere ben oliato il sistema bipolare, che garantisce l’apparenza di pluralismo e i lucrosi affari di chi realmente decide, dall’esterno, l’assetto economico e politico da impartire al paese. Il PD è una delle due pile che fanno funzionare questo orrendo giocattolo e non può essere eliminata senza essere sostituita da una batteria nuova. Deve solo occuparsi di equilibrare il sistema, evitando l’eccessivo rafforzamento altrui, ma anche il proprio; il che si ottiene efficacemente indicando nell’avversario il male assoluto (fase d’offesa) e poi, subito dopo, sconcertando i propri sostenitori con l’appoggio alle politiche degli stessi individui additati alla pubblica esecrazione pochi istanti prima (fase di difesa). I suoi avversari seguono ovviamente lo stesso copione, ma con alcune differenze su cui non starò a dilungarmi: essenzialmente consistono nel fatto di essere la parte “controllata” del sistema, non quella che controlla; e nel contare tra le proprie fila un personaggio (Berlusconi) che persegue i propri esclusivi interessi personali, spesso anche a scapito dei dominanti, il che crea la necessità di approntare un sistema dissuasivo (attuato di solito attraverso la magistratura e gli attacchi mediatici) per tenerlo sotto controllo.
Gli unici crucci del PD, in questa granitica struttura che sembra garantire la sua sopravvivenza ad aeternum, attengono alla possibilità di un’alterazione irreversibile del meccanismo, che potrebbe essere prodotta da vari fattori. Ad esempio la nascita di una nuova e più affidabile forza politica che si ponga a guardia del sistema, sostituendo i vecchi controllori. Tale eventualità è assai remota e potrebbe verificarsi solo se il nuovo soggetto di controllo fosse ideato e finanziato dagli stessi progettisti del sistema. Altra iattura sarebbe la trasfigurazione dei rapporti di forza internazionali, ad esempio provocata dalla genesi (già in corso) di un contesto globale multipolare che sostituisca il vecchio assetto monocentrico dominato dalla finanza e dall’economicismo statunitense. Tale prospettiva è realistica, perfino relativamente prossima, e richiederebbe che il PD, per poter sopravvivere, acquisisse la capacità di adeguare i propri compiti e le proprie strutture al nuovo corso di potere, cosa che al momento non sembra minimamente in grado di realizzare. Proprio per questo non se ne preoccupa granché. Si sa che a tutto c’è rimedio tranne alla morte, alla quale, finché si vive, è preferibile non pensare. Infine, l’evento più paventato ed esorcizzato, poiché prevedibile entro tempi umani e non storici, è la fine politica o biologica di Silvio Berlusconi, vero baricentro che garantisce stabilità a tutto il leviatanico marchingegno di gestione della pubblica passività. E’ noto che più basso è il baricentro, maggiore risulta la stabilità di un corpo. E un baricentro più basso del Silvio nazionale (in senso morale, più che fisico) sarà difficilmente reperibile in tempi brevi. La sua sfacciata strafottenza verso qualunque cosa non gli garantisca un immediato profitto personale, la sua rozzezza umana, la sua palpabile impreparazione politica, il fastidio che la sua prepotenza suscita in chiunque sia stato educato ai valori solidaristici, lo hanno reso una nemesi perfetta, il male che ogni catechista insegna ai suoi discepoli a contrapporre al bene, l’ideale secondo polo dell’apparato di rimbecillimento e passivazione delle masse predisposto con cura dagli ingegneri della democrazia. La sua dipartita rappresenterebbe per il PD una catastrofe difficilmente rimediabile: non perché sia complicato reperire personaggi di levatura così infima (nel PD e nei partiti ad esso affiliati ce ne sono in quantità industriali), ma perché non è facile che la bassezza morale in un individuo risulti così spontanea, naturale, immediatamente percepibile tanto dai sostenitori quanto dai detrattori. Un “cattivo” così appariscente non lo si trova neanche a crearlo a tavolino. L’unica speranza dei dirigenti democratici, dinanzi all’implacabalità dell’impermanenza politica e biologica degli esseri umani, è affidata alla fisica del karma o ai progressi della clonazione. Che il nume dei miserabili perdenti li aiuti in questo difficile momento.
Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.blog.dada.net/
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3.04.2010