DI MARCELLO VENEZIANI
Alle cinque della sera, spinto da curiosità, ricordi e amore della tradizione, sono andato a vedere la corrida nella plaza de toros monumental di Barcellona. Avevo ancora negli occhi la memoria mitica di una corrida vista da ragazzo e allora mi parve di assistere ad un rito antico e crudele ma autentico, partecipato e appassionato, intriso di simboli e liturgie.
Rito di morte ma anche di vita e di virilità, rito di sangue ma anche di luce, in cui era vestita a fiesta la tragedia del vivere in una foresta di atti epici, erotici, e picareschi che davano luogo ad una vera drammaturgia collettiva, che coinvolgeva gli spalti trasformandoli in coro.
Avevo poi nella mente le letture di Hemingway e di Jean Cau, di Leiris, di Ortega Y Gasset e di tanti altri tradizionalisti spagnoli che celebravano nella corrida un sacrificio rituale, un torneo metafisico tra la luce e l’oscurità. Avevo condiviso con loro la difesa della corrida per il suo significato eroico e tradizionale, dagli animalisti e da coloro che credono di eludere la morte sopprimendo le cerimonie sacrificali.
Ci sono andato con questo spirito, congiunto alla curiosità di vedere oggi, proprio in Catalogna, dove fervono le polemiche sulle corride e il governo regionale catalano le ha deplorate pur senza vietarle, che ne è della corrida.Credevo di imbattermi nelle immagini di Goya, Andrè Mason e Picasso, nei pensieri di de Maetzu e Unamuno, nelle poesie di Garcia Lorca e Machado, gustando “la musica silenziosa del toreare” su cui ha scritto Josè Bergamin e ha poetato Rafael Alberti.
Ho trovato spalti vuotati e molti dei pochi presenti erano turisti svagati, vittime del pacchetto folclore “tutto compreso”, portati sul posto dalla globalizzazione più che dalla tradizione.
E’ solo turismo, o se preferite, taurismo, ma non tauromachia. L’orchestra che ameniza lo spettacolo sottolineava inutilmente le tediose ripetizioni della corrida, con un enfasi pomposa e gratuita. Pacchiani parevano pure il torero e i picadores, quasi grotteschi nei loro abiti non condivisi dal genius loci e dal clima circostante.
Si è ripetuta per sei volte con un filo di macabra noia la mattanza dei tori.
Una parabola risaputa e ripetuta: dalle gagliarde sfuriate iniziali all’attacco contro i cavalli bardati e protetti, biasimato dalla folla, alle veroniche compiute con la muleta, e poi le prime sanguinose trafitture delle banderillas con i colori di Spagna, fino alla stoccata mortale con la spada. Prima una macchia rossa sul dorso, poi fiotti di sangue dalla bocca. Tremenda è l’agonia del toro e vederne poi altre cinque non la rende più mite e accettata. Come una pratica dura ma prevedibile da evadere: semmai l’ha resa più cupa, nella sua atroce irreversibilità, nella sua prevista crudeltà che appariva sempre più disadorna di rito e di olè, disabitata dal sacro e pure dalla profana passione degli uomini.
Quando comincia a perdere il senso dell’orientamento e si guarda attorno, il toro diventa un agnello sacrificale, e il suo sguardo vagante in un arcano altrove ha tratti teneramente umani, troppo umani. Lo vedi ferito e frastornato, che si volge ormai incerto ed estraneo aora all’uno ora all’altro picador, in attesa che il torero dia il colpo di grazia.
Accenna a muoversi, poi si ferma mentre sente colare il suo sangue.
Ha smesso di lottare, teme la fine ma in fondo la cerca; poi smette di volere, e appare concentrato sulla sua agonia, si abbandona allo stocco, mentre l’arena gira intorno come un sogno, si capovolge il sopra e il sotto, il vicino e il distante, svanisce il mondo, così i rumori e lo sguardo fissa il nulla colorato delle cose.
Gira intorno, vacilla in un ultimo accenno di maestosità, infine cade.
Il passaggio da vivente a cosa è compiuto.
E’ terribile assistere a quegli istanti e rivederli per ben sei volte, con una puntualità di tempi che evoca in versione taurina la banalità del male. Chi obbietta che avrei potuto andar via dopo la prima mattanza dice una ipocrita idiozia perché i tori non avrebbero smesso di morire e io avrei smesso di capire e raccontare.
La sequenza taurina è una catena di smontaggio con carro funebre finale trainato da due cavalli, sulle note di una marcia funebre che sembra la sigla di chiusura di un teatrino dei pupi. Il toro trascinato per la plaza assume sembianze di un enorme scarafaggio. Ho visto negli occhi della gente raccapriccio o indifferenza, come se asistessero a un videogame. Ed ho sentito in alcuni serpeggiare il tifo in favore del toro: metà per ragione cinica, per rendere più vivace lo spettacolo e ben speso il biglietto un po’ caro; metà per solidarietà con il perdente, per ribellarsi al destino prestabilito della sua morte.
Ed anche quel nascosto tifo per la vittoria del toro, che mi son sorpreso talvolta a condividere, mi faceva capire che in quell’arena eravamo come al Colosseo al tempo dei cristiani e dei leoni. Non contava fossero uomini, come noi; erano figuranti dello spettacolo, erano pedine del gioco.
La loro umanità non contava e prive d’anima parevano quelle vesti sfarzose. Non sembravano hidalgos ma prodi marionette. Anche un rito antico, che un tempo segnava la civiltà e l’eleganza, può diventare un atto barbaro quando nulla più lo giustifica, fuori che lo spettacolo e il business.
Uscii dalla plaza de toros al tramonto e mi restò negli occhi il tramonto di una passione. Quando è così, meglio spegnere le tradizioni piuttosto che tenerle in vita artificialmente, con le trasfusioni di sangue di una povera bestia costretta a pagare con la vita chi aveva pagato per la vista. Il toro nell’arena, simbolo dei vinti, la loro lotta vana, la loro sorte certa.
Marcello Veneziani
Tratto da “I Vinti. I perdenti della globalizzazione e loro elogio finale” Ed. Mondadori 2004
Pag.111/113