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La Redazione

 

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MESSAGE IN A BOTTLE

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A cura di Davide
Il 11 Giugno 2008
66 Views

DI CARLO BERTANI

La domenica delle salme
gli addetti alla nostalgia
accompagnarono tra i flauti
il cadavere di Utopia…

la domenica delle salme
fu una domenica come tante
il giorno dopo c’erano i segni
di una pace terrificante…

Fabrizio de André – La domenica delle salme – dall’album “Le nuvole” – 1990

Cara Unione Europea, cara ONU, caro Dio,
non so se siete in grado d’ascoltarmi né se, in fin dei conti, voi tutti esistiate veramente per noi, poveri italiani.
In un bellissimo articolo, Marco Travaglio analizzava freddamente quelli che potranno essere gli effetti della proibizione delle intercettazioni telefoniche sul funzionamento della giustizia italiana. Praticamente: tolti i mafiosi – che, bontà loro, utilizzano da tempo i “pizzini” – di tutti gli altri reati non si potrà sapere più nulla.
E’ la solita tecnica del Cavaliere, vecchia come il cucco: siccome io ho bisogno di quel provvedimento, lo “allargo” a tutti così non potranno dire che serviva solo a me. Varare la legge sconquasserà quel poco di giustizia che rimane? Perché, a cosa serve la giustizia? Non sarete più sicuri a casa vostra? Sposate mia figlia, così verrete a vivere a Macherio!

Ma non di questo volevo parlare a voi, assisi nell’Empireo, perché avrete già letto l’articolo di Travaglio – voi che tutto sapete – ma per interrogarvi su un dubbio che m’assilla: il titolo.
Travaglio titolava l’articolo “Prove tecniche di fascismo”: certamente non vi sarà sfuggito che il termine “fascismo” non era usato in senso storico – ossia per compiere una mera sovrapposizione con il Ventennio – bensì per indicare un regime autoritario, antidemocratico, autocratico ed oligarchico. L’unico esempio storico vissuto dal popolo italiano: insomma, “stanno facendo le prove per mettercelo nello stoppino”.
Qui, mi verrebbe quasi da dissentire: prove tecniche? Forse il buon Marco era in vena d’ottimismo, quando ammetteva “prove” di fascismo. A mio parere siamo invece almeno alla prova generale, se non alla “prima”. Qualcuno, già afferma che si stia andando in replica.
Ho provato allora a scorrere, come in una moviola, le pagine dei quotidiani per osservare se siamo ancora alle “prove” oppure se vendano già i biglietti al botteghino.

La prima notizia – si parte sempre dal titolo principale – riguarda la vicenda della clinica (adesso, pare che siano una decina) milanese dove si facevano interventi chirurgici “un tanto a botta”, ossia: posto x il numero degli interventi che devo effettuare in un anno per ottenere tot soldi (y), dovrò semplicemente dividere x per il numero dei pazienti z (x/z) ed otterrò y senza faticare.
Se ti tocca un’appendicite vai via contento che t’è andata bene ma, se le esigenze della produttività aziendale richiedono più sacrifici, ti può capitare una serie sfigata, del tipo: due interventi al fegato, l’asportazione di tre unghie incarnite ed una cornea come bonus. D’altro canto, la produttività dell’azienda è il bene primario ed è il solo valore che si deve tenere in conto: il buon Berlusca ha promesso “lacrime e sangue” per rimettere in piedi l’Italia (ma, per una volta, non potrebbero lasciarci seduti?), e non è questo il momento di fare dei piagnistei.
Ci sarebbe da verificare il “Piano Industriale” di quella clinica, per osservare se le scansioni degli interventi erano rigorosamente correlate (una procedura desueta e troppo rigida), oppure se s’interveniva con le moderne tecniche “flessibili” – diremmo “a random” – con l’ausilio dell’informatica d’ultima generazione.
Siamo quasi certi che – nella Lombardia rampante – la seconda scelta era la preferita: ogni mattina, i solerti chirurghi, a turno, schiacciavano un tasto del computer e il programma – magicamente – svolgeva la sequenza degli interventi.

Camera 12: “un 27 al 52, un 24 al 53, ed un 12 al 52”.
Camera 13: “un 21 al 44, un 14 al 43 ed un 22 al 42”.

Nella camera 13 il software aveva “spalmato” bene gli interventi; non starò qui a spiegare dettagliatamente la matrice delle sigle: vi basti sapere che al 44 toglievano un rene, al 43 le tonsille ed al 42 il prepuzio. Il software, assicuriamo, è in grado di distinguere il sesso dei pazienti.
Nella camera 12, invece, al 53 toglievano le tonsille, mentre al povero 52 partivano in una sola “botta” la milza e mezzo polmone. Il 54 riposava: il computer non sbaglia mai.
Vorremmo chiedere all’arzillo Brunetta d’intervenire sul “Piano Industriale” della clinica, per verificare la bontà del sistema informatico: visto che vuole riformare tutta la Pubblica Amministrazione, inizi almeno dall’ABC.

Passiamo quindi all’articolo di terza pagina, quello di cultura.
Oggi, si parla di favole: Fedro? Esopo? Andersen?
No, si commenta un libro appena pubblicato da una giovane e promettente scrittrice – tale Mariastella Gelmini – che avvolge il lettore con un protettivo e caldo languore, narrando la triste saga della scuola italiana. Il finale, come sempre, è a lieto fine.
Si narra d’orchi ed orchesse, che da perfidi manieri lanciarono i loro malefici sulle candide anime, sui teneri virgulti dell’italico vigore, le giovani speranze dell’italica stirpe. Non vogliamo, in questa recensione, privarvi del piacere della scoperta e non andiamo quindi oltre: tanto per mettervi un poco la voglia di leggere, però, possiamo anticiparvi che si parte da una misteriosa formula della scuola detta “delle Quattro I”, laddove una delle quattro “I” è, allo stesso tempo, una e trina. Abbiamo cercato a lungo nella Kabbalah e nella Ghematria, ma non siamo riusciti a squarciare il velo dell’arcano: di vero esoterismo si tratta, altro che di Dan Brown.
Possiamo però anticiparvi che il finale accontenterà tutti: i giovani virgulti saranno amorosamente annaffiati di sapienza, liberati dalle male piante del relativismo ed infine elevati all’onore del vero sapere. I dotti, invece, riceveranno ampia mercede per questa missione: i loro compensi saliranno alle stelle, come avviene nelle terre dei Cimbri, dei Franchi e dei Germani. Dai 25.000 pezzo d’oro che oggi li compensano, saranno elevati a più…a più…30.000…ma che dico…40.000…forse ancora…
La magica fatina che opererà la trasmutazione ha anche un nome – Stella Maris – così è chiamata nel racconto: non sappiamo né riusciamo ad identificare la genesi e, soprattutto, l’originalità di tale scelta. Roba da “Premio Strega”. E vissero a lungo felici e contenti.

Voltiamo pagina e siamo in Economia…no…forse è la pagina storica…no, forse parlano di viaggi…
L’immagine è chiara, quel giovane col berretto verde e la penna è Robin Hood: che uno storico sia riuscito a squarciare l’alone della leggenda? Forse, si tratta solo di una pubblicità di viaggi…
No, non è il popolare Robin – leggiamo nella didascalia – si tratta di un misterioso eroe senza tempo – una specie di Highlander formato Cesano Maderno – che da poco è salito alla ribalta.
Julius Dreiberg, questo è il suo nome, ed è signore di Sondriekssen…ma, l’altro, chi è?
Trafitto da un nugolo di frecce, giace un povero San Sebastiano…no, non è il Santo della leggenda…dicono che è un certo Paul Mc Scarron, signore di ENIan, abbattuto dal potente immortale.
Sullo sfondo, si notano appena moltitudini d’esseri bruti – non gentili come i due attori della vicenda – che acclamano il loro eroe per la vittoria.
“Nobile Julius” – mi par d’avvertire, salire dalla bella riproduzione d’autore – “siamo ai tuoi piedi, baciamo le tue ginocchia in segno di riconoscenza e di sottomissione…sia sempre lode a te…”. Non capisco…meglio leggere…
Vengo così a sapere che il trafitto, signore di ENIan, dominava l’italico stivale grazie a migliaia di castelli gialli, ed aveva come insegna un cane con sei zampe e la lingua di fuoco. Qual nobile insegna, per scudi e stendardi.
Ogni volta che un cocchio, carrozza o vil carro di bruti s’avvicinava a un castello, gli armigeri del signore pretendevano gabelle. Anche il grano era tassato e sempre più caro, tanto che vecchi ed infanti li ghermiva la fame.
Per questo viene ricordato il nobile Julius – adesso lo so anch’io, che mi pensavo sapiente – e la storia non finisce qui. Senza soppesare titoli e blasoni, il nobile Julius aveva altresì abbattuto i due perfidi fratelli Mc Morralt’, signori di Maitland: milady Mc Morralt’ s’era dapprima adirata contro il nobile Julius, poi l’aveva scongiurato di risparmiare la vita allo sposo, ma a nulla era valso.
Incurante dei pianti e delle minacce di vendetta della potente nobildonna di Maitland, Julius aveva continuato la sua battaglia: troppo dolore gli recava ascoltare i pianti dei miseri, che chiedevano pane per i figli e biada per i loro striminziti ronzini.
Fino in fondo, aveva compiuto il suo dovere: restituire ai poveri il maltolto, asciugare le lacrime dello sconforto, placare i morsi della fame.
Oggi, lo ricordano in tante piazze italiane: ritto, con la mano tesa verso Oriente, indica alle moltitudini di diseredati la via maestra per riconquistare dignità e serenità d’animo. Lottare sempre, per togliere il maltolto dalle tasche dei potenti: sia gloria a te, nobile Julius!

Basta, per oggi non leggerò più: la vista si stanca.
Socchiudo le palpebre e ricordo i racconti di mia madre, delle nonne, attorno al fuoco del camino.
In un tempo lontano, gli italiani si rallegravano perché erano diventati padroni di un Impero: le moltitudini acclamavano il loro Capo, che li ammansiva con favole dal sapore austero ed accattivante.
Legioni d’italici scudieri erano pronti a difendere ogni lembo del grande impero, potenti navi corazzate col tricolore solcavano i mari, sciami d’aeroplani s’alzavano dai loro alveari di cemento per proteggere la nazione.
Poi, un brutto giorno, videro tornare quei poveri scudieri ridotti in cenci, con le bende ai piedi morsicati dal gelo. Le navi non le vide più nessuno: di latta erano, e non d’acciaio, e le loro maestose torri non erano in grado di colpire nulla, perché i colpi erano fatiscenti. Gli sciami sublimarono nelle sabbie, sui mari, disgregati da un male oscuro.
Provarono, i miseri, a ricostruire la loro terra – e con gran fatica ci riuscirono – ma non s’accorsero che c’era chi li attendeva al varco.

Appena ebbero accumulato qualche sacco di grano ed un po’ di legna, le ombre s’inventarono mille gabelle per sanare – raccontavano – un grande debito che loro stessi avevano creato, svendendo il tesoro dello stato a dei malfattori.
Furono così abili in quel furto, attuato con gran destrezza, che nessuno si rese conto di cosa stesse accadendo.
Per rabbonire i pochi che chiedevano giustizia ed innalzavano lamentazioni, s’impadronirono di tutti i banditori – dal misero imbonitore al gran maestro d’occultismo – per essere certi di scacciare nel clamore anche il più flebile sussulto.
Infine, privarono anche il popolo dei più semplici diritti: privati del battere moneta, del diritto di replica e di critica, finirono anche per negar loro il diritto d’assemblea.
Con una legge, una sola legge, consentirono soltanto alle ombre di salire al potere: da lì, emanavano decreti e non discutevano più leggi. Tanto, non cambiava nulla: erano sempre le ombre a scrivere le vite degli altri.
Infine, per non farli cadere in sempre più profonde depressioni, li affabulavano con canti sapienti, raccontavano saghe accattivanti, inventavano ogni giorno nuovi eroi.
Gran parte della popolazione li seguì nelle fredde terre delle Riserve, e pochi rimasero sulle colline, ma solo per praticare la Danza degli Spettri.
Altro che “prove tecniche”.

Carlo Bertani
Fonte: http://carlobertani.blogspot.com/
Link: http://carlobertani.blogspot.com/2008/06/message-in-bottle.html
11.06.08

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