MEGA CITY SHOCK

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blankDI JEREMY RIFKIN
L’Espresso

Ci sono 414 città con una popolazione superiore a un milione di abitanti. Che con i loro grattacieli e con il consumo di energia stanno distruggendo il Pianeta. L’allarme di un ambientalista

L’anno prossimo segnerà una pietra miliare nella storia dell’epopea umana, simile per importanza all’era dell’agricoltura e della rivoluzione industriale. Per la prima volta, secondo le previsioni delle Nazioni Unite, la maggior parte degli abitanti del Pianeta vivrà in vaste aree urbane, prevalentemente in megacittà e in grandi sobborghi, con popolazioni di 10 milioni o più. È l’avvento dell'”Homo Urbanus”. Milioni di persone ammassate e stipate una sopra l’altra in gigantesche metropoli costituiscono un fenomeno nuovo. Ricordiamoci che due secoli fa, un uomo medio, su tutta la faccia della Terra, poteva incontrare al massimo 200 o 300 suoi simili nel corso di un’intera vita. Oggi, invece, un abitante di New York può vivere e operare fra 220 mila persone in un raggio di dieci minuti da casa o dal proprio ufficio nel centro di Manhattan. Soltanto una città in tutta la storia, l’antica Roma, vantava una popolazione di oltre un milione di abitanti prima del XIX secolo. Londra divenne la prima metropoli moderna con più di un milione di abitanti solo nel 1820. Nel 1900 esistevano 11 città con una popolazione superiore al milione; nel 1950, salirono a 75; nel 1976, a 191. Oggi, sono 414 le città che vanno oltre il milione e non s’intravede la fine del processo di urbanizzazione poiché la nostra specie sta crescendo a un ritmo allarmante. Ogni giorno, nel mondo, nascono 376 mila persone e si prevede che l’intera popolazione umana salirà a 9 miliardi nel 2042, concentrata per lo più in aree urbane ad alta densità demografica. Fino a quando la nostra specie ha dovuto basarse la propria esistenza sul sole, i venti e le correnti, sull’energia animale e umana, il numero degli abitanti del pianeta è rimasto relativamente basso, in modo da adattarsi alle possibilità di sostegno della natura, ovvero alla capacità della biosfera di riciclare i rifiuti e rinnovare le risorse. La svolta avvenne con l’esumazione di grandi quantità di sole immagazzinato, dapprima nella forma di giacimenti di carbone, poi di petrolio e gas naturale sotto la superficie della Terra. Sfruttati grazie alla macchina a vapore e in seguito al motore a combustione interna e convertiti in elettricità e distribuiti attraverso reti apposite, i carburanti fossili permisero all’umanità di escogitare nuove tecnologie che accrebbero sensibilmente la produzione di cibo e di beni e servizi industriali.

Quest’incremento senza precedenti di produttività portò alla massiccia crescita della popolazione e all’urbanizzazione su scala mondiale. Non stupisce perciò se nessuno sa dire con certezza se questo nuovo sistema di vita debba essere esaltato, deprecato o riconosciuto semplicemente come un dato di fatto, dal momento in cui il nostro boom demografico e il nostro stile di vita urbano sono stati pagati al prezzo dell’esaurimento di vasti habitat ed ecosistemi terrestri. Uno storico della cultura come Elias Canetti ha osservato una volta che ciascuno di noi è un re assiso su un campo di cadaveri. Se ci fermassimo un attimo a riflettere su quante creature, risorse e materie prime abbiamo sfruttato e distrutto nel corso della nostra vita, rimarremmo sgomenti di fronte alla carneficina e alle devastazioni richieste per garantire la nostra sopravvivenza. Il fatto è che vaste popolazioni concentrate in grandi metropoli consumano massicce quantità di energia terrestre per mantenere le loro infrastrutture e assicurare il flusso quotidiano delle loro attività. Per avere un’idea più concreta, basti pensare che la sola Sears Tower a Chicago, uno dei più alti grattacieli del mondo, consuma in un giorno più elettricità della città di Rockford, nell’Illinois, con i suoi 152 mila abitanti. Ancor più stupefacente è che la nostra specie consuma attualmente il 40 per cento circa della produzione primaria netta della Terra – la quantità netta di energia solare convertita in materia organica vegetale attraverso la fotosintesi – sebbene noi costituiamo soltanto lo 0,50 per cento della biomassa animale del Pianeta. Ciò significa lasciare meno risorse a disposizione delle altre specie.

L’altra faccia dell’urbanizzazione è rappresentata da quel che ci lasciamo dietro nel nostro cammino verso un mondo fatto di uffici e abitazioni in palazzi altissimi e di paesaggi di vetro, cemento, luci artificiali e reti telematiche. Non è un caso se mentre celebriamo l’urbanizzazione del mondo, ci stiamo avvicinando a un altro spartiacque storico: la scomparsa della natura selvaggia continuamente invasa, fino al rischio di estinzione, dalla popolazione in aumento, dal consumo crescente di cibo, acqua e materiali da costruzione, dall’espansione delle reti stradali e ferroviarie e dalla crescita incontrollata delle città. Gli scienziati ci dicono che nell’arco di vita dei nostri figli, le regioni selvagge saranno cancellate dalla faccia della Terra dopo milioni di anni. L’autostrada transamazzonica, che attraversa l’intero territorio della grande foresta tropicale, sta accelerando la scomparsa di quest’ultimo vasto habitat naturale. Altre regioni simili sopravvissute, dal Borneo al Bacino del Congo, si restringono sempre più rapidamente di giorno in giorno, lasciando il passo a popolazioni umane crescenti alla ricerca di spazi e risorse vitali. Non sorprende perciò se, come sostiene il famoso biologo E. O. Wilson, dell’Università di Harvard, stiamo sperimentando la più grande ondata di estinzione in massa di specie animali da 65 milioni di anni a questa parte. Ogni giorno scompaiono dalle 50 alle 150 specie, ovvero dalle 18 mila alle 55 mila all’anno. Entro il 2100, due terzi di quelle rimanenti subiranno probabilmente lo stesso destino. L’antica Roma fornisce una lezione istruttiva sulle potenziali conseguenze derivanti dal tentativo di mantenere popolazioni umane non sostenibili in ambienti urbani.

L’opinione diffusa è che Roma crollò a causa della decadenza della sua classe dirigente, della corruzione dei suoi imperatori, dello sfruttamento dei suoi servi e dei suoi schiavi e della superiore tattica militare delle orde barbariche che la invasero. Ma sebbene vi sia del vero in questo, la causa più profonda del suo declino sta nella fertilità sempre più ridotta delle sue campagne e nella diminuzione del prodotto agricolo. I raccolti non potevano più fornire energia sufficiente per mantenere le sue grandi infrastrutture e il livello di vita dei suoi cittadini. L’Italia era un paese denso di foreste all’inizio della civiltà romana. Ma verso la fine dell’Impero, era stata spogliata del suo manto boschivo, come gran parte dei territori che circondano il Mediterraneo. Il legname veniva venduto sul mercato libero e il suolo convertito in pascoli e in campi coltivati era ricco di minerali e sostanze nutrienti e, inizialmente, forniva abbondanti raccolti. Purtroppo, però, il disboscamento delle foreste lo lasciò esposto agli elementi: sferzato dai venti che soffiavano sulle terre aride e dilavato dalle acque che scendevano dalle cime e dai fianchi delle montagne. L’eccessivo sfruttamento dei pascoli finì per degradarlo ulteriormente. Il progressivo declino della sua fertilità era iniziato proprio quando la Roma imperiale cominciava a fare affidamento sull’agricoltura in alternativa agli insuccessi delle sue campagne di conquista. Nell’ultimo periodo dell’Impero, l’agricoltura forniva oltre il 90 per cento delle entrate pubbliche. I prodotti della terra erano diventati d’importanza vitale per la sua sopravvivenza. Il sostentamento di una popolazione urbana in aumento di non produttori comportò crescenti sforzi da parte dei piccoli coltivatori. La produzione agricola s’intensificò per far fronte alle richieste di derrate alimentari da parte dei cittadini e dell’esercito. Così, lo sfruttamento eccessivo del suolo ridusse la sua fertilità, il che a sua volta portò a un ulteriore sfruttamento di terre già esauste. La crescita della spesa pubblica per sostenere i livelli di vita dei ricchi, fornire aiuto ai poveri, finanziare le opere pubbliche e la burocrazia, la costruzione di monumenti, edifici e anfiteatri, insieme ai costi derivanti dalle sovvenzioni di sfarzi e svaghi per il popolo, sottopose un regime basato sull’agricoltura a tensioni che oltrepassavano i suoi limiti. Lo spopolamento delle campagne continuò per tutta la durata dell’Impero. In alcune province dell’Africa settentrionale e lungo l’intero bacino del Mediterraneo, quasi la metà delle terre coltivabili venne abbandonata entro il III secolo dell’era volgare. Indebolito dall’esaurirsi del suo sistema energetico, l’Impero finì così col crollare. I servizi fondamentali si ridussero. L’immensa infrastruttura su cui esso si reggeva andò in rovina. L’esercito non fu più in grado di tenere alla larga i predatori. Orde barbariche cominciarono a sgretolare l’Impero, dapprima nei suoi territori lontani. Verso la fine del VI secolo, gli invasori erano alle porte di Roma. La sua popolazione, che contava un tempo oltre un milione di abitanti, era scesa a meno di 30 mila. E la città fu ridotta quasi a un cumulo di macerie, a duro monito di quanto la terra possa reagire impietosamente.

A quali conclusioni ci porta tutto questo? Proviamo a immaginare mille città di quasi un milione o più di abitanti nei prossimi 35 anni. C’è da inorridire, tanto sarebbe insostenibile per il pianeta. Non voglio fare il guastafeste, ma forse la celebrazione dell’inurbamento dell’umanità nel 2007 potrebbe essere un’occasione per ripensare il nostro modo di vivere su questa Terra. L’urbanesimo ha certamente molti aspetti positivi, a cominciare dalla ricchezza della diversità culturale e degli scambi sociali e dall’intensa attività commerciale. Ma il problema è di grandezza e di scala. Dobbiamo riflettere su come ridurre la popolazione e sviluppare ambienti urbani sostenibili che usino energia e risorse in modo più efficiente, siano meno inquinanti e meglio concepiti per favorire sistemi di sussistenza a misura d’uomo. In sintesi, nella grande era dell’urbanizzazione è andata progressivamente aumentando la separazione fra l’umanità e il resto del mondo naturale nella convinzione che noi possiamo conquistare, colonizzare e sfruttare un ambiente ricco di risorse per garantirci una completa autonomia, senza spaventose conseguenze su noi stessi e le future generazioni. Se vogliamo conservare la nostra specie e il pianeta per i nostri simili, nella prossima fase della storia dell’umanità, dovremo cercare un modo di reintegrarci nel resto della vita terrestre.

Jeremy Rifkin è autore del libro “L’era dell’accesso” edito da Mondadori e presidente della Foundation on Economic Trends di Washington

Fonte: http://espresso.repubblica.it/
Novembre 2006

Traduzione di Mario Baccianini

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