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La Redazione

 

MEDIO ORIENTE, GIORNALISMO E VERITA'

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A cura di Vichi genio
Il 13 Gennaio 2006
47 Views

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DI ROBERT FISK

Mi sono accorto a quale enorme pressione sono sottoposti i giornalisti americani nel medio Oriente qualche anno fa, quando sono andato a salutare un collega del Boston Globe. Dopo avergli espresso il mio rincrescimento per la sua partenza da una regione che, ovviamente, gli stava a cuore egli mi rispose che potevo riservare il mio rincrescimento per qualcun altro. Infatti era ben contento di andarsene perché, ed era uno dei motivi principali, nei suoi articoli non doveva più forzare la verità per compiacere i lettori più esigenti del suo giornale.

“Per esempio quando ho definito il Likud un “partito di destra”, mi ha raccontato, “ subito l’editore mi ha chiesto di non usare più quell’espressione, perché molti lettori avevano protestato. E allora? Bastava non chiamarlo più ‘partito di destra.’”

Ahi, ahi.

Così imparai che questi ‘lettori’ erano considerati dalla redazione del giornale amici di Israele, però mi risultava anche che il Likud, con Benjamin Netanyau, era proprio un ‘partito di destra’ come lo è sempre stato.

Questo esempio rappresenta soltanto la punta dell’iceberg semantico che è precipitato sul giornalismo americano impegnato in Medio oriente. Gli insediamenti illegali di ebrei, e solo di ebrei, nel territorio arabo erano chiaramente delle “colonie”, e noi così li abbiamo sempre chiamati. Non ricordo il momento preciso in cui, invece, abbiamo cominciato a chiamarli ‘insediamenti’. Però mi ricordo bene il momento, circa due anni fa, quando la parola “insediamento” è stata sostituita da “periferia ebrea” o, in alcuni casi, ‘avamposti’.

Allo stesso modo i territori ‘occupati’ palestinesi sono stati sostituiti, in molti giornali americani, in territori palestinesi “contesi”, proprio dopo che l’allora segretario di stato Colin Powell, nel 2001, aveva dato istruzione alle ambasciate in Medio Oriente di fare riferimento alla “Riva occidentale” come territorio “conteso” invece che “occupato”.

Poi c’è il “muro”, la grossa costruzione di cemento il cui scopo, secondo le autorità di Israele, è quello di impedire agli attentatori suicidi palestinesi di mietere vittime innocenti fra la popolazione civile. Effettivamente sembra che a questo scopo il muro stia funzionando. Però il suo tracciato non segue i confini di Israele nel 1967 ma penetra profondamente nei territori arabi. E un po’ troppo spesso in questi giorni alcuni giornalisti non lo chiamano più ‘muro’ ma ‘recinto, steccato’, oppure ‘barriera di sicurezza’ come Israele preferisce che venga chiamato. In alcuni punti, ci hanno detto, il muro non c’è per niente, così non lo possiamo chiamare ‘muro’ anche se il grande serpente di cemento e acciaio che attraversa la parte est di Gerusalemme è più alto del vecchio muro di Berlino.

L’effetto semantico di questa operazione di depistaggio giornalistico è chiaro. Se il territorio palestinese non è più terra occupata ma oggetto solo di una disputa legale che può essere risolta nelle aule di un tribunale o in una discussione all’ora del tè, allora un ragazzo palestinese che lancia sassi contro i soldati israeliani in questi territori è uno che, chiaramente, non si sta comportando in modo corretto.

Se una colonia ebrea costruita illegalmente in territorio arabo viene definita amichevolmente ‘periferia’, allora i palestinesi che osano attaccarla stanno compiendo un atto terroristico senza senso.

E naturalmente non c’è motivo di protestare contro uno ‘steccato’ o ‘una barriera di sicurezza’, dal momento che si tratta di parole che evocano lo steccato di un giardino oppure l’entrata di un complesso residenziale privato recintato.
Così se i palestinesi protestano violentemente contro questi manufatti allora vengono automaticamente considerati delle persone generalmente malsane. E così, semplicemente con l’uso della nostra lingua, li condanniamo.

Queste sono regole non scritte che vengono seguite in tutta la regione. I giornalisti americani hanno usato spesso le stesse definizioni dei funzionari USA nei primi giorni di guerra in Irak, definendo coloro che attaccavano gli americani ‘ribelli’, ‘terroristi’ o ‘ultimi seguaci’ dell’ex regime. I giornalisti americani hanno adottato obbedientemente, e grottescamente, pari pari il linguaggio del secondo pro-console USA in Irak, Paul Bremer III.

La televisione americana, intanto, continua a presentare la guerra come una contesa senza spargimento di sangue in cui gli orrori del conflitto, corpi mutilati dai bombardamenti aerei, cadaveri strascinati nel deserto dai cani selvatici, non vengono minimamente rappresentati in TV. Gli editori di New York e Londra si preoccupano che la sensibilità dei telespettatori non venga ferita, che venga loro risparmiata la ‘pornografia’ della morte (ciò che è esattamente la guerra) e che i morti, che noi abbiamo appena ucciso, non vengano ‘disonorati’, facendoli vedere.

Il modo schizzinoso con cui vengono trattati gli atti di guerra la rendono più facile da sopportare e i giornalisti da lungo tempo sono ormai diventati i complici del governo nel far accettare dai telespettatori la morte e il conflitto. I giornalisti televisivi sono così diventati una arma letale in più della guerra.

In passato, ai vecchi tempi, credevamo, o no?, che i giornalisti dovessero “dire le cose come stanno”. Basta rileggersi le corrispondenze di guerra della seconda guerra mondiale e si capisce subito che cosa intendo. Ed Murrows e Richard Dimblebys, Howard K. Smiths e Alan Moorheads non usavano eufemismi nè cambiavano le loro descrizioni o nascondevano la verità dietro parole mielate solo perchè i loro ascoltatori o lettori non le gradivano o avrebbero preferito una versione diversa.

Così dovremmo ricominciare a chiamare una colonia una colonia, una occupazione quello che è, un muro un muro. E diciamo qual è la realtà della guerra che non è, principalmente, vittoria o sconfitta, ma soprattutto il fallimento totale dello spirito umano.

Robert Fisk
Los Angeles Times
Fonte: www.informationcleringhouse.info
27.12.05

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