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DI HELENA NORBERG-HODGE

In un villaggio ho visto con i miei occhi un gruppo di viaggiatori, che, armati di macchine fotografiche, caramelle e penne biro, praticamente assalivano gli abitanti del villaggio. Vestiti di verde, rosso e blu fluorescenti, piantavano le loro macchine fotografiche contro visi ignari senza dire una parola, per passare poi alla prossima vittima.
Turista arrabbiato, 1990

Immaginate di vivere la vostra vita quotidiana come sempre e all’improvviso svegliarvi una mattina e trovare la vostra città invasa da creature di un altro pianeta. Questi extraterrestri, che parlano una lingua strana e hanno un aspetto ancora più strano, fanno una vita davvero straordinaria. Sembra che non sappiano cos’è il lavoro e si divertono costantemente. Per di più hanno poteri speciali e ricchezze inesauribili. Immaginate poi come potrebbero reagire i vostri figli a questa esperienza, quanto ne sarebbero affascinati. Pensate soltanto quanto sarebbe difficile impedire loro di seguire queste creature, convincerli che sia molto meglio per loro stare a casa con voi. Come potreste evitare che adolescenti facilmente impressionabili, alla ricerca di un’identità, vengano totalmente ammaliati? Mi trovavo in Ladakh quando la regione fu aperta al turismo e potei osservare il processo di cambiamento sin dall’inizio. Parlando correntemente la lingua, potei farmi un’idea approfondita delle intense pressioni psicologiche portate dalla modernità. Guardando il mondo moderno per così dire dalla prospettiva dei Ladaki, mi sono anche resa conto che la nostra cultura appare dall’esterno infinitamente meglio riuscita di quanto non risulti a noi dall’interno. Senza alcun preavviso, abitanti di un altro mondo invasero il Ladakh. Ogni giorno molti di loro spendevano fino a cento dollari, più o meno come qualcuno che in America spendesse 50mila dollari al giorno. Nella tradizionale economia di sussistenza, il danaro aveva un ruolo secondario, essendo utilizzato soprattutto per beni di lusso, come gioielli, argento e oro. I bisogni primari, quali cibo, vestiti e abitazione, erano soddisfatti senza la mediazione del danaro. Il lavoro necessario era gratuito, era parte di una complessa rete di relazioni umane. In un solo giorno, un turista spendeva quanto una famiglia ladaka poteva spendere in un anno. I Ladaki non si rendevano conto che il danaro aveva per gli stranieri un ruolo del tutto differente, che nel loro Paese ne avevano bisogno per sopravvivere; che il cibo, gli abiti e le case avevano un prezzo, spesso molto alto. In confronto a questi stranieri, essi si sentirono immediatamente molto poveri.

Nei miei primi anni in Ladakh, bambini che non avevo mai visto prima, mi venivano incontro di corsa e mi schiacciavano in mano le loro albicocche. Ora, delle figurette simili a trasandati personaggi dickensiani, in consunti abiti occidentali, salutano gli stranieri tendendo le manine vuote. Chiedono: «One pen, one pen»[1], una frase divenuta ormai il nuovo mantra dei bambini ladaki. I turisti, dal canto loro, pensano che i Ladaki siano arretrati. I pochi che hanno l’occasione di provare l’ospitalità di una casa in un villaggio, ne parlano immancabilmente come della parte migliore della vacanza, ma la maggior parte di loro riesce solo a vedere la cultura ladaka dall’esterno e la guardano attraverso l’esperienza della propria cultura e del proprio sistema economico. Partono dal presupposto che il danaro abbia qui lo stesso valore che ha nei loro Paesi. Se incontrano un ladako che guadagna solo due dollari al giorno, rimangono inorriditi e lo indicano a tutti. Più o meno esplicitamente gli dicono: «Oh, poverino! È meglio che ti dia una buona mancia». Agli occhi degli occidentali, i Ladaki sembrano poveri. I turisti vedono solo l’aspetto materiale della cultura: consunti abiti di lana, gli dzo che tirano l’aratro, la terra deserta. Non vedono la pace interiore né la qualità dei rapporti familiari o comunitari. Non vedono la ricchezza psicologica, sociale e spirituale dei Ladaki. Oltre ad alimentare la falsa illusione che tutti gli occidentali siano multimilionari, i turisti aiutano anche a perpetuare un’altra immagine erronea, cioè che noi non lavoriamo mai. Sembra che siano i nostri strumenti tecnologici a fare tutto il lavoro al posto nostro.

Nella società industriale oggi trascorriamo in effetti al lavoro più ore rispetto a chi vive in economie rurali e agrarie. Non è questo però che i Ladaki vedono. Secondo loro, il lavoro è lavoro fisico, camminare, portare cose. Una persona seduta al volante di un’automobile o che spinga i tasti di una macchina da scrivere, non sembra che stia lavorando. Un giorno avevo trascorso dieci ore a scrivere lettere. Ero esausta, stressata e avevo mal di testa. La sera, quando mi lamentai di essere stanca per aver lavorato tanto, la famiglia presso la quale vivevo scoppiò a ridere; pensavano che stessi scherzando. Per loro, io non avevo lavorato; ero stata seduta a un tavolo, bella pulita, senza una goccia di sudore sulla fronte, a far scorrere una penna su un pezzo di carta. Questo non era lavoro. I Ladaki non hanno ancora provato quel genere di stress, noia e frustrazione che fa così parte delle nostre vite in Occidente. Una volta provai a spiegare il concetto di stress ad alcuni abitanti di un villaggio. «Vuoi dire che ti arrabbi perché devi lavorare?», fu il commento. Ogni giorno vedevo persone di culture distanti un mondo l’una dall’altra guardarsi a vicenda ricavandone immagini superficiali, unidimensionali. I turisti vedono persone che portano pesi sulle spalle e percorrono lunghe distanze su alti passi di montagna, e dicono: «Che cosa terribile; che vita di duro lavoro». Essi dimenticano di aver viaggiato migliaia di miglia e speso migliaia di dollari per il piacere di passeggiare sulle stesse montagne con pesanti zaini. Dimenticano anche quanto soffrano normalmente i loro corpi per carenza di moto. Durante le ore di lavoro non fanno alcun esercizio e trascorrono il tempo libero cercando di compensare. Alcuni di loro magari vanno in macchina in palestra, attraversando una città inquinata nell’ora di punta, solo per sedere in un seminterrato a pedalare su una bicicletta che non va da nessuna parte. E pagano anche per il privilegio. Lo sviluppo non ha portato solo turismo, ma anche film occidentali e indiani e, più di recente, la televisione. Insieme tutto ciò convoglia opprimenti immagini di lusso e potere. Si vedono innumerevoli oggettini magici e gadgets. E si vedono macchine: macchine per fare foto, macchine che dicono l’ora, macchine per accendere un fuoco, per andare da un posto all’altro, per parlare con qualcuno da lontano. Le macchine fanno tutto al posto nostro; non c’è da sorprendersi, se i turisti hanno un aspetto così pulito e mani così bianche e morbide. Nei film, gente ricca, bella e coraggiosa vive una vita piena di divertimento e di attrattive. Per i giovani ladaki, il quadro che offrono è irresistibile. Per contrasto, le loro esistenze appaiono primitive, ridicole e inefficienti. La visione così unidimensionale della vita moderna diventa per loro uno schiaffo in piena faccia. Si sentono stupidi e provano vergogna. I genitori chiedono loro di scegliere uno stile di vita, che comporta lavorare nei campi e sporcarsi le mani per pochissimo danaro o niente del tutto. La loro cultura appare assurda, se confrontata con il mondo dei turisti e degli eroi dei film. Per milioni di giovani delle aree rurali in tutto il mondo, la cultura occidentale moderna risulta di molto superiore alla loro. Ciò non ci deve sorprendere, poiché, guardando come loro dall’esterno, tutto quello che traspare è l’aspetto materiale del mondo moderno, quello cioè in cui la cultura occidentale eccelle. Non possono vedere subito le dimensioni sociale e psicologica, cioè lo stress, la solitudine, la paura di invecchiare. Né sono in grado di accorgersi del degrado ambientale, dell’inflazione, della disoccupazione. D’altro lato, conoscono la propria cultura in ogni aspetto, compresi i suoi limiti e le imperfezioni.

L’influsso improvviso dell’Occidente ha fatto in modo che alcuni Ladaki, i giovani maschi in particolare, sviluppassero un senso di inferiorità. Rifiutano in blocco la loro cultura e allo stesso modo abbracciano avidamente quella nuova. Rincorrono i simboli della modernità: occhiali da sole, Walkman e blue jeans, sempre troppo stretti, non perché trovino i jeans più belli o comodi, ma perché sono simboli della vita moderna. I simboli della modernità hanno anche contribuito ad un aumento dell’aggressività in Ladakh. Ora i ragazzi vedono sullo schermo una violenza resa affascinante. Dai film di tipo occidentale, facilmente ricevono l’impressione che, se vogliono essere moderni, devono fumare una sigaretta dietro l’altra, avere una macchina veloce e scorrazzare per tutta la campagna sparando alla gente a destra e a sinistra. È stato doloroso vedere come sono cambiati i miei giovani amici ladaki. Naturalmente non tutti diventano violenti, ma di certo sono collerici e più insicuri. Ho visto mutare una cultura mite, una cultura in cui gli uomini, anche giovani, erano felici di cullare un bambino o di essere affettuosi e teneri con le loro nonne.

Dawa aveva circa quindici anni quando lo conobbi e viveva ancora al villaggio. Quando i turisti cominciarono ad arrivare, iniziò a lavorare come guida. Per attraversare i passi usava i suoi asini e muli, come animali da soma. Non ebbi sue notizie per diversi anni, ma ero venuta a sapere che – uno dei pochi Ladaki a svolgere un’attività del genere – aveva messo in piedi un’agenzia turistica. Un giorno al bazar, mi imbattei in un giovane bardato all’ultima moda: occhiali a specchio, T-shirt di un gruppo rock americano, blue jeans aderentissimi e scarpe da basket. Era Dawa. «Quasi non ti riconoscevo», dissi in ladako. «Un po’ cambiato, eh?», rispose tutto orgoglioso in inglese. Andammo in un ristorante affollato di turisti provenienti da ogni capo del mondo. Dawa insisteva per parlare inglese. «Sai che adesso lavoro in proprio? Gli affari sono una gran cosa, Helena. Ho un sacco di clienti e sto facendo molti soldi. Ho una camera a Leh, ora» «Sono sorpresa di non averti visto molto in giro», dissi. «Beh, non sono quasi mai qui; raccolgo i gruppi da solo a Srinagar e trascorro la maggior parte del tempo facendo trekking e visitando monasteri» «Ti piace la tua nuova vita?» «Sì, mi piace. Molti turisti sono veri e propri VIP! Non come quei Ladaki che non fanno niente tutto il giorno»; sogghignò: «Un chirurgo di New York mi ha dato questo», disse, indicando uno zaino nuovo di zecca. «Torni spesso al villaggio?» «Ogni due o tre mesi, per portargli riso e zucchero. E vogliono sempre che torni per aiutare con il raccolto» «Che effetto ti fa, tornare a casa?» «È noioso. È tutto così arretrato! Non abbiamo ancora l’elettricità e Abi [la nonna] non la vuole nemmeno» «Forse preferisce le cose all’antica» «Beh, possono restarsene inchiodati alle cose all’antica, se vogliono, ma il Ladakh cambierà intorno a loro. Abbiamo lavorato abbastanza nei campi, Helena. Non vogliamo più faticare così duramente» «Credevo che avessi detto che i Ladaki non fanno niente tutto il giorno» «Voglio dire che non sanno andare avanti». Dawa tirò fuori dalla tasca un pacchetto di Marlboro con un gesto ostentato. Quando rifiutai la sigaretta, ne accese una per sé e si chinò verso di me con uno sguardo preoccupato. «Ho litigato con la mia ragazza, stamattina. La stavo cercando quando ho incontrato te» «Oh, e chi è la tua ragazza?» «Non sono sicuro di aver ancora una ragazza, ma è un’olandese. Era in uno dei miei gruppi di turisti ed è rimasta per stare con me. Ma non le piace più questo posto, vuole tornare nel suo Paese. E vuole che io vada con lei, che viva in Olanda» «E tu lo faresti?», chiesi. «Non posso lasciare la mia famiglia. Hanno bisogno dei soldi che guadagno. Ma lei non lo capisce».

Helena Norberg-Hodge
Futuro nel Passato

Tratto da Futuro nel passato – Una lezione di saggezza dal Ladakh: il piccolo Tibet, per gentile concessione di MACRO LIBRI

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Note:

1. «Una penna, una penna». (n.d.t.)

Helena Norberg-Hodge, è stata la prima occidentale, nei tempi moderni, a parlare correntemente la lingua ladaka. Negli ultimi 16 anni, ha trascorso sei mesi ogni anno in Ladakh, lavorando con la popolazione locale per proteggerne la cultura e l’ambiente naturale dai rapidi effetti della modernizzazione. Per il suo operato, ha ricevuto nel 1986 il Right to Livelihood Award, conosciuto anche come l’alternativa al premio Nobel. Attualmente è presidente dell’International Society for Ecology and Culture e del “Progetto Ladakh”, sua emanazione, ed è redattrice della più importante rivista ecologista europea: The Ecologist.

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