JOHN HOPPER
guardian.co.uk/
I fiorenti stabilimenti cinesi di pronto moda di Prato
Basta incamminarsi per qualche centinaio di metri lungo Via Pistoiese, una stradina stretta di Prato, per provare la sensazione di aver viaggiato migliaia di chilometri. Oltre il panificio al numero 29, l’Italia si evapora.
Gli scaffali del supermercato espongono fiori di giglio essiccati, sacchetti di zampe di pollo surgelate e barattoli di meduse sotto sale. Troviamo un erborista cinese, un gioielliere cinese, bar e ristoranti cinesi e perfino una gelateria cinese.
Secondo il ministero degli esteri a Pechino, questa città tessile toscana e la sua provincia circostante presentano la più alta concentrazione di persone cinesi di tutti i distretti amministrativi all’esterno della Cina. Silvia Pieraccini, giornalista del luogo nonché autrice del libro “L’Assedio Cinese”, ritiene che a Prato vi siano 50.000 cinesi e che rappresentino circa il 30% della popolazione della città. Nessuno però sa di preciso, in quanto molti, oltre la metà secondo Pieraccini, rimangono in Italia illegalmente.Quasi tutti vengono dalla provincia di Wenzhou, un porto del sud est della Cina, e sono trascinati in Italia da un’industria creata dal nulla in meno di vent’anni. Il pronto moda implica di fatto l’importazione di tessuto a buon mercato, di solito dalla Cina, e la sua lavorazione, tutto ciò il più velocemente possibile, per avere capi di alta moda da rivendere con etichette ‘Made in Italy’ (‘Fabbricato in Italia’, ndt).
In un magazzino a Macrolotto Iolo, a sud di Prato, innumerevoli scatoloni pieni di top da donna sono pronti per una festa di vari uomini d’affari dall’Egitto (ndt: non si capisce se questi tizi siano in Egitto o in Italia).
“Abbiamo gente da ovunque: Spagna, Grecia, Francia, Gran Bretagna, persino USA e Giappone”, ha affermato il giovanotto responsabile degli scatoloni. I capi di fianco a lui costano tra 2,80€ e 4,20€.
Questi prezzi stracciati sono direttamente proporzionali a materiali e stipendi stracciati. Nei capannoni disseminati a Prato, i dipendenti cinesi lavorano tra 15 e 16 ore al giorno, in condizioni e con stipendi che nessun italiano si sognerebbe mai di accettare.
Yen Chow Chan, un missionario dell’organizzazione americana ‘Evangelical Mission and Seminary International’ (‘Missione e Seminario Evangelico Internazionale’, ndt), è stato all’interno di molti di questi capannoni.
“La maggior parte impiega circa 10 persone che non solo vi lavorano”, afferma. “Ci vivono: ci cucinano, mangiano e dormono dentro”. Per quanto questo possa essere considerato normale in Cina, in Italia è contrario alla legge.
“Siamo di fronte ad un sistema illegale organizzato”, dice Roberto Cenni, uomo d’affari e primo sindaco di destra di Prato dalla Seconda Guerra Mondiale. “Nei primi cinque mesi dell’anno, la polizia ha effettuato 152 ispezioni all’interno di stabili posseduti da cinesi, risolte con la messa sotto amministrazione giudiziaria di 152 aziende”. Le critiche di Cenni, appoggiate dal Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi e alleate della xenofoba Lega Nord, hanno avuto la meglio l’anno scorso, durante un’ondata di disagio legata alla presenza cinese. La situazione rimane tesa.
Nato in Olanda e di passaggio a Prato come turista, Yun Yin Lee riporta: “Qui la polizia mi guarda in un modo in cui nessuno mi ha mai guardato in Olanda”. Il mese scorso vi sono state proteste infiammate da parte di rappresentanti di immigrati, dopo che il sindaco si è rifiutato di dichiarare un giorno di lutto ufficiale per l’annegamento, durante un alluvione, di tre cinesi.
“Noi, nel senso di noi cinesi, stiamo causando un sacco di problemi”, ammette Chan. Aggiunge però che la maggior parte di questi problemi nasce da incomprensioni reciproche.
“Gli italiani sono amichevoli, se parli un po’ di italiano. La maggior parte di questi cinesi viene da zone di campagna. Già hanno difficoltà con la loro lingua, figuriamoci con quella di qualcun’altro. In ogni caso, quasi nessuno ha tempo per studiare”.
“Tanti mi dicono ‘Perché dovrei integrarmi? Sono qui per forse dieci anni per risparmiare e mandare indietro i soldi, tornare in Cina e godermeli.’”.
Il sogno sarebbe questo ma, come nota Chan, la realtà è spesso diversa. Nell’ospedale principale di Prato, 32% dei neonati ha madri cinesi.
Qualunque sia il loro stato giuridico, questi bambini cresceranno come italiani. In giro per la città si vedono già adolescenti cinesi italianizzati; si notano in particolare le ragazze, pesantemente truccate, con i loro vestiti chic e spesso provocatori.
“Coloro che sono nati qui si vestono come italiani, mangiano come italiani e parlano poco il cinese”, dice Hu Qui Lin.
Hu è famoso a Prato per essere l’unico titolare d’azienda cinese (sono in tutto tra 4000 e 5000) ad avere aderito a Confindustria, la federazione italiana dei capi d’azienda. Il suo amministratore delegato, come molti suoi altri dipendenti, è italiano. Giancarlo Maffei è anche consulente del governo provinciale di centrosinistra.
“Il sindaco si è concentrato sul rispetto delle regole. Ma farebbe meglio ad aprirsi al dialogo con i cinesi e cercare di convincerli del bisogno di legalità”, afferma Maffei.
“Il problema è il seguente: con chi parlo in un contesto di illegalità sistematica?” dice Cenni. “Molti vogliono essere considerati [rappresentanti della comunità cinese]. Ma non abbiamo garanzie che queste persone siano ‘pulite’”.
Maffei indica che il governo della provincia ha formato un ‘joint working party’ (‘partito che lavora congiuntamente’, ndt) “e sta cercando di dialogare, anche se con difficoltà”. Pieraccini afferma che di quelle difficoltà hanno fatto parte anche gli arresti di alcuni rappresentanti cinesi.
Ironicamente, quello che le due comunità fanno è pienamente compatibile. Le industrie tradizionali di Prato, in brusco declino, sono quelle della manifattura del filato e della stoffa. Il pronto moda non compete con nessuna delle due, ma potrebbe anzi utilizzare entrambi gli output (cioè filo e stoffa, ndt).
Il fatto che le aziende italiane stiano chiudendo, in gran parte a causa della competizione di origine cinese, non aiuta di certo le relazioni tra comunità, ma perfino Cenni asserisce: “Se potessimo mettere insieme l’abilità dei cinesi in materia di lavorazione dei capi e l’abilità degli italiani nel produrre tessuto, qui potremmo creare un centro di moda.”
Maffei sostiene che ciò si stia già verificando. Afferma che “I cinesi hanno ormai comperato decine di milioni di metri di tessuto da aziende italiane”.
Ad ottobre, una delegazione da Wenzhou ha firmato un accordo con le autorità provinciali per incoraggiare le aziende situate in Cina ad acquistare tessuti di alta qualità da Prato e vino dalla vicina zona di Carmignano. Alla cerimonia era presente anche il sindaco Cenni, ma ha rifiutato l’invito a firmare il documento.
John Hooper
Fonte: www.guardian.co.uk/
Link: http://www.guardian.co.uk/world/2010/nov/17/made-in-little-wenzhou-italy
http://www.nazioneindiana.com/2010/11/26/cinesi-in-italia-cittadinanza-e-illegalita/
17.11.2010
Traduzione per www.comedoncghisciotte.org a cuar di LUXKILLER65