DI DAVIDE STASI
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Questa sta diventando ormai una domanda ossessiva ovunque ci siano persone che parlano della situazione economica o politica del paese. Per non dire della Rete, dove è diventata una specie di ossessione compulsiva postare foto delle manifestazioni greche, spagnole e portoghesi, e poi chiedersi, appunto: perché in Italia no? Con un regolare automatismo pavloviano, la risposta pressoché unanime fa riferimento, con toni sconfortati e indignati, all’ignavia che gli italiani portano con sé quasi a livello genetico, o al loro degrado talmente profondo da renderli “mobilitabili” solo toccandogli il superfluo, ad esempio il calcio.
Non che tutto ciò non abbia un qualche fondamento, sia chiaro. Ma nel gruppo dei PIIGS non siamo i soli, eventualmente, ad avere quel tipo di caratteristiche, nelle quali gli spagnoli, ad esempio, ci somigliano molto. Eppure loro scendono in piazza, e senza tante storie vanno allo scontro fisico. E allora, al netto dell’innata inerzia italiana e dello sconforto disarmante portato dal disagio economico e sociale, cosa tiene gli italiani, tranne poche eccezioni, chiusi in casa a rintontirsi davanti alle partite di calcio o ai talent show? Cosa abbiamo di troppo, e cosa ci manca rispetto a greci, spagnoli e portoghesi, che ci demotiva a tal punto da lasciarci immiserire e prendere in giro senza colpo ferire? Vale la pena provare a rispondere, e tentare di capire il motivo della paralisi civile, pur di fronte a una macelleria sociale, economica e istituzionale senza precedenti.
Divide et impera è la principale chiave di lettura. Furono i nostri avi latini ad inventare il concetto e il motto che l’esprime, declinato poi con precisione scientifica da quello che è forse il più sincero italiano mai esistito nell’affrontare la politica e i suoi meccanismi, Niccolò Machiavelli. E così, comunemente, il problema dei lavoratori FIAT non è un problema dei lavoratori sardi. La vertenza sull’ILVA di Taranto è affare di chi ne è coinvolto, quindi non è un problema dei precari della scuola o della sanità. Allo stesso modo, i tagli presso gli enti locali di tutte le risorse assistenziali riguarda chi ha un anziano non autosufficiente o un diversamente abile in casa, quindi non è il problema di chi si trova la linea del tram o del bus soppressa, causa tagli al bilancio. E così via.
L’Italia è la terra delle contrapposizioni e delle corporazioni, degli orticelli recintati e in costante e radicale concorrenza reciproca. È il paese dove le problematiche si mettono in classifica, e l’ordine decrescente è deciso dalla pressione (economica, ricattatoria, politica o tutte queste cose assieme) che il singolo raggruppamento è in grado di esercitare sui decisori. Uno scenario dove il denominatore comune non si trova mai, dove non è mai possibile che, ad una voce, si senta una riflessione finalmente unanime ed esatta sul fatto che è l’intero impianto, il sistema in sé ad essere sbagliato e a generare i diversi disagi circoscritti. Quando ci si avvicina a un punto del genere, c’è sempre qualcuno che alza la mano e solleva l’eccezione che divide, il cavillo che disgiunge e demotiva qualunque istinto allo sviluppo di un approccio trasversale e solidale ai problemi.
Si dice che questo alla contrapposizione sia un istinto innato, scritto nel nostro DNA e nella storia. Ma i cittadini di altri paesi vicini, che oggi sono insieme in piazza, non hanno storie diverse, quindi l’alibi non regge. La causa dunque risiede altrove, anzitutto nel fatto che lo sviluppo civico degli italiani è stato ed è scientemente represso. Quel processo di maturazione che altrove ha fatto ben digerire il tramonto delle ideologie, da noi è ancora lontanissimo. Il boccone è ancora in gola, dove è marcito infettando tutto. Per questo, ad esempio, attecchisce ancora da noi un Berlusconi che parla di “pericolo comunista”, formula che ormai dovrebbe essere buona al massimo per una battuta da cabaret.
Il processo di presa di coscienza naturale di una realtà globale che cambia e che coinvolge tutti è stato, con calcolo, soffocato nella culla dalla permanenza di retoriche post-ideologiche, certificate e perpetuate da mass-media, servi fedeli di un sistema che garantisce loro una ricca sopravvivenza, ma non solo. Complici di questo stato di cose sono le forze sindacali, distinte in Italia ancora da riferimenti ideologici inesistenti. Da noi il loro ruolo è fare la faccia truce, a fasi alterne, gettando acqua sul malcontento e la protesta, mentre altrove, come in Portogallo, accendono con intransigenza la miccia della ribellione, senza remora alcuna e con l’obiettivo dichiarato non di ottenere 30 euro lordi in più nella busta paga di questa o quella categoria, bensì di cambiare l’impianto generale con cui il popolo tutto viene governato.
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In Italia, insomma, non c’è nessuno, organizzazione o singolo, capace di suscitare nelle masse a disagio per ragioni apparentemente concorrenti l’idea che il problema è complessivo, sistemico, e che come tale va affrontato. In compenso, tutto è costruito perché attorno alla tavola riccamente imbandita degli interessi costituiti, i cittadini si scannino tra di loro per raccogliere le sempre più piccole briciole che da essa cadono. In quest’ottica, anche l’unica apparente luce che si intravvedeva, il Movimento 5 Stelle, finisce per mancare il colpo, chiuso com’è nel recinto della Rete, e annoverando tra le proprie fila schiere di attivisti che si dichiarano più puri degli altri, e quindi pronti ad epurare chiunque.
Quella luce, priva com’è di un impianto di idee dichiaratamente sistemico e trasversale, invece di incendiare e illuminare, rischia di incanalare e sterilizzare la protesta, recintandola in una comoda “riserva elettronica”. Ma soprattutto crea l’ennesima fazione inefficace e irriducibile. I promotori dell’unica iniziativa davvero avanzata (forse anche troppo), dell’unica opportunità concreta di cambiamento vista da anni, restano così a trastullarsi col PC e a scannarsi a vicenda, dichiarando alta la propria superiorità. Mentre altrove il ricco banchetto per pochi continua, avendo per sottofondo il clangore della nostra guerra tra corporazioni di poveri che pretendono ovviamente di essere più poveri degli altri.
Davide Stasi
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28.09.2012
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