DI MASSIMO FINI
Tutti i media occidentali stanno celebrando la vittoria di Hamid Karzai (il 55,3% dei suffragi) “il primo presidente democraticamente eletto nella storia dell’Afghanistan”. E da questo evento democratico politici, politologi, analisti, esperti, sempre occidentali, traggono i migliori auspici per il futuro del popolo afghano.
Non è di questo parere Jooma Khan. Chi è costui e come si permette? Jooma Khan è un vecchio che vive in un villaggio della provincia di Laghman, nell’Afghanistan nord orientale. Ha detto Jooma: “Dopo che gli americani hanno distrutto i nostri villaggi e ucciso molti di noi, siamo rimasti senza le nostre case e non abbiamo niente per sfamarci. In ogni caso noi avremmo anche superato queste sofferenze e perfino le avremmo accettate, se gli americani non ci avessero tutti condannati a morte. Quando ho visto nascere mio nipote deforme mi sono reso conto che le mie speranze per il futuro erano scomparse. Ciò è differente dalla disperazione provata per le barbarie russe, anche se a quel tempo persi il mio figlio più grande, Shafiqullah. Questa volta sento invece che noi siamo parte dell’invisibile genocidio che l’America ci ha buttato addosso, una morte silenziosa da cui non potremo fuggire”. Quella di Jooma Khan è una delle tante testimonianze rese davanti al Tribunale Internazionale per l’Afghanistan.
Questo tribunale, un’iniziativa di cittadini giapponesi, ha concluso in questi giorni un’inchiesta durata due anni che riguarda le conseguenze dell’uso dell’uranio impoverito che gli americani hanno sparso senza risparmio negli spaventosi bombardamenti del 2001-2002 con i quali per prendere un uomo, Osama Bin Laden, che poi non hanno preso, hanno spianato quel paese.
L’uranio impoverito, dopo la sua esplosione, si trasforma in una polvere estremamente fine, le cui singole particelle sono più piccole di un batterio o di un virus. Si calcola che l’accumulo di un milionesimo di grammo di uranio impoverito in una persona sia sufficiente ad esserle fatale distruggendo il suo sistema immunitario (le leucemie che hanno colpito anche una trentina dei nostri soldati che hanno operato in Kosovo) e alterando il codice genetico. Dalle 500 alle 600 tonnellate di questo materiale micidiale sono oggi sparse su tutto il territorio afghano. E sono nati bambini senza occhi, senza braccia, con spaventosi tumori alla bocca, senza i genitali o con i genitali deformi. Per cui nel luminoso futuro di questa gente c’è certamente che fra breve potrà anch’essa, la sera, sedersi davanti alla Tv e vedere l'”Eredità” o qualcosa di analogo, ma molti lo faranno da storpi.
Avranno però il conforto di essere diventati democratici. Per la verità si tratta di una democrazia un po’ particolare quella che abbiamo installato a forza di bombe in Afghanistan. Se gli afghani sono andati a votare quasi in massa non è per un improvviso entusiasmo per un sistema di cui la stragrande maggioranza non percepisce l’utilità, essendo completamente estraneo alla storia e alle tradizioni di quel Paese, ma perché i capi guerrieri, gli Ismail Khan, i Dostum, i Karzai, vi hanno mandato a forza le loro tribù e i loro clan per porre le basi del proprio potere personale nel nuovo governo filoamericano. E se dopo le elezioni gli afghani non sono scesi nelle strade ad esultare, come gli osservatori occidentali si aspettavano dopo una così massiccia presenza alle urne, è perché sanno benissimo che per loro non cambia nulla. Se non in peggio.
Gli Ismail Khan, i Dostum, i Karzai rimarranno quei taglieggiatori, quei borsaioli, quegli stupratori, quegli assassini, che erano diventati dopo dieci anni di guerra contro l’Unione Sovietica che avevano impoverito il Paese e che li avevano trasformati da valenti guerrieri in tagliagole. L’avvento dei talebani si spiega così: avevano riportato l’ordine – sia pure un duro ordine – in un Paese che l’aveva completamente perduto. Rispetto all’Afghanistan pre invasione sovietica – una società ben equilibrata fra tradizione ed elementi delle modernità – i talebani rappresentavano una forzatura ideologica. Ma erano una soluzione afghana per un problema afghano. Non una soluzione americana per un problema o, per meglio dire, un’isteria americana e per soddisfare evidenti interessi economici e strategici degli Stati Uniti. I talebani avevano vinto la partita, con i Dostum, con gli Ismail Khan, con i Karzai, cacciandoli oltre confine, dai loro protettori iraniani o russi o americani, con armi tradizionali, secondo le consuetudini guerriere di quel popolo, perché erano da un punto di vista etico, maggiormente motivati e credibili (il loro leader spirituale, il mullah Omar viveva poveramente in una casa di sette stanze, Ismail Khan in una gigantesca villa) e si erano conquistati la fiducia di tutto l’Afghanistan rurale – cioè di quasi tutto l’Afghanistan – stufo dei soprusi e degli abusi di “signori della guerra” imbastarditi. La loro vittoria era comunque reversibile, se avessero perso questa fiducia. La democrazia all'”uranio impoverito”, oltre a consegnare il Paese alla dominazione straniera, appena mascherata dai Quisling di turno, toglie invece agli afghani, come dice il vecchio Jooma Khan, anche la speranza di un futuro per molte generazioni a venire.
Massimo Fini
Fonte:www.gazzettino.it
28.10.04