DI ANTOINE FRATINI
psicoanimismo.bloog.it
Il titolo, così come il testo del noto antropologo Philippe Descola qui sotto riportato, mi sono stati suggeriti dall’amico e scrittore francese Yves Emery. Si tratta di un interrogativo che apre una riflessione su come situare e concepire il Sé junghiano alla luce dell’approccio psicoanimistico.
“In un mondo saturo di una prodigiosa quantità di esseri singolari, composti di una pluralità d’istanze in
equilibrio instabile, diventa problematico attribuire una identità continua a
qualunque oggetto: nulla è veramente quel che sembra e occorre molta
ingegnosità e attenzione al contesto per giungere a circoscrivere una
individualità affermata dietro alla foschia equivoca delle apparenze.Certamente gli umani possono pretendere a una singolarità meno indecisa per il
fatto di arrogarsi il privilegio dell’interpretazione, ponendosi come modelli
nel loro lavoro di ricerca di senso. Ma bisognerebbe ancora essere sicuri della
vera natura di colui al quale si ha a che fare. Come dice bene la madre di
Amadou Hampaté Ba, “vorrei sapere quale degli Amadou che lo abita è qui in
questo momento”. In effetti, chi è veramente Amadou? Quale delle sue multiple
personalità è in carica nel momento in cui ci si rivolge a lui? E cosa dire del
vecchio nahua posseduto dalla sua divinità dell’ebbrezza, dell’iniziato del
candomblé cavalcato dal suo orisha, della strega abitata dal suo demone?
Trattasi di soggetti autonomi, versatili e compositi, oppure le entità che li
alienano sono diventate così intrusive da lasciare in loro tracce costanti?
Cosa dire ancora del tona messicano, quel doppio animale che alberga un
frammento dell’interiorità di un uomo? Trattasi di un soggetto sdoppiato, un
fratello siamese della persona della quale condivide il destino? Oppure è un
essere indipendente che coesiste con un’altra soggettività in parte dislocata?
Insomma, i soggetti analogici si presentano come figure rovesciate del dio di
Pascal: la loro circonferenza è dappertutto e il loro centro è da nessuna
parte. Essi esistono solo per via dei loro effetti di superficie, propagandosi
come onde concentriche ad ampiezza variabile e in costante interferenza gli uni
con gli altri; ma è ben difficile fornire loro una residenza, anche
infinitamente multipla. Lungi dall’essere “uno e intero in ogni luogo”, la loro
frammentazione resta immensa e la loro integrazione rimane sempre incostante”.
In questo passaggio della sua
voluminosa opera Par delà nature et culture[1],
Philippe Descola descrive una condizione che giustamente lo scrittore Yves Emery
assimila al Sé junghiano. In Aion, Jung scrive appunto che il Sé a volte
“si comporta come una atmosfera che circonda l’io senza limiti spaziali e
temporali ben definiti”. Mi sembra di potere affermare, alla luce degli studi
antropologici più recenti, che quell’atmosfera è paragonabile, se non identica,
alla dimensione animistica dei popoli tribali. Una dimensione che appunto non
risiede interamente nell’uomo, ma si esplica in eguale misura nel mondo della
Natura. E’ in quella dimensione, ancorata alla Natura, che gli spiriti e le
divinità (le entità autonome dell’inconscio) trovano da sempre la loro dimora.
Per questo la geografia di questi popoli è piena di entità e di luoghi sacri
presso ai quali avvengono ricorrenze rituali ed eventi magici, guarigioni,
illuminazioni, purificazioni, trasformazioni… Questa condizione salutare, che
perdura in molti casi per decine di migliaia di anni e che ha permesso di
preservare sia la loro cultura e identità che il loro territorio, ci suggerisce
un altro modo di concepire il Sé. Non più come interiorizzazione di un
archetipo, come uni-totalità tutta interna al soggetto che al massimo si
riflette sul mondo esterno, ma come una condizione di armonia con le entità
spirituali della Natura, armonia basata su di un rapporto costante, dinamico,
positivo e costruttivo con quelle entità.
Chiedere consiglio e supporto ad
un albero secolare non è per niente un segno di infantilismo o di arretratezza
primitiva, come sembra suggerire l’allieva più famosa di Jung, M.L. Von Franz
in Sogni di ieri e di oggi[2],
ma piuttosto indizio di una ritrovata percezione animistica delle cose e quindi
di migliore integrazione dell’inconscio. In altri termini, quel che conta è
trovare un modo per capire l’inconscio, per ascoltarlo, considerare le sue
esigenze, e quel modo esiste ed è praticato da millenni da molti civiltà
tribali. La Natura, con la sua dimensione simbolica, suscita le proiezioni,
attira a sé l’inconscio, gli offre uno spazio privilegiato e permette all’Io di
rapportarsi efficacemente con esso. Così il Sé, inteso come condizione di
integrazione dinamica tra coscienza e inconscio, non può essere disgiunto da un
armonioso rapporto con una Natura che deve ridiventare sacra per l’uomo
moderno, così come sacro era, per esempio, l’albero inserito nella ruota della
medicina dei Pellerossa.
Antoine Fratini
07.09.2012