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L'UNITA' D'ITALIA E I CONTI CON LA STORIA

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A cura di Truman
Il 20 Febbraio 2011
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Ita DI TRUMAN BURBANK

comedonchisciotte.org

A 150 anni dall’unità, l’Italia sembra un giocattolo inceppato, che si agita in modo inconcludente.

Piuttosto che agitarsi furiosamente come fanno tanti è forse il caso di studiare il passato.

“Chi non conosce il proprio passato è condannato a ripeterlo” dice Santayana e la frase ha due possibili letture: la prima (la più comune) è che chi non conosce la propria storia ripeterà gli stessi errori a parità di condizioni; dopo un primo fascismo ne conoscerà una seconda versione (e magari anche una terza), senza che l’esperienza precedente consenta di resistere all’ascesa progressiva di ducetti, gerarchetti e galoppini.

Ma ancora peggiore è una seconda lettura della frase di Santayana, chi non conosce la propria storia non si rende conto di ciò che ha fatto di buono e lo distrugge senza neanche accorgersene. Allora, se si vuole crescere e diventare adulti, bisogna fare i conti con la propria storia.

Per fare i conti può convenire partire dalla favoletta con cui ci viene propinato il racconto tradizionale dell’unità d’Italia.

La storia provvidenziale (la favola del Risorgimento)

Per gli studiosi di antropologia potrebbe essere interessante analizzare il racconto convenzionale in senso provvidenziale del “Risorgimento”. La visione proposta è tesa a dimostrare quanto siano stati necessari gli avvenimenti riportati. Dopo secoli di sofferenze gli italiani erano pronti ad essere riunificati, questo era il loro destino manifesto. Per fare ciò servivano degli eroi: Garibaldi, Vittorio Emanuele, Mazzini, Cavour. Ma gli eroi presuppongono dei cattivi dall’altra parte: gli austriaci, i Borbone. Un po’ meno cattivo il Papa, ma certo non poteva avere il suo stato su quella che era destinata a ridiventare capitale d’Italia.

Tutte le fiabe raccontano la stessa storia all’interno di un numero di variabili limitato e la fiaba dell’unità d’Italia non fa eccezione.

Per i dettagli conviene fare riferimento alla “Morfologia della fiaba” di Vladimir Propp [1]. E’ opportuno notare che, rispetto alla fiaba standard, qui l’unità nazionale conseguita (la legittima unione tra il popolo e la patria) rimpiazza il matrimonio finale dell’eroe.

Chiaramente la storia provvidenziale che ci viene raccontata è in realtà un artefatto, realizzato per soddisfare degli interessi umani.

Ma come si fabbrica un tale artefatto?

Non è poi così difficile costruire un’interpretazione provvidenziale della storia. Prima di tutto vengono gli interessi: si fa quello che conviene fare con qualsiasi tecnica, per esempio è tradizione corrompere gli alti gradi dell’esercito nemico. Grazie alla corruzione ed altri trucchi sporchi si vince. In guerra normalmente vince il peggiore, non il migliore (a parità di forze in campo). Vince il più privo di scrupoli, il disonesto, chi trama nell’ombra.

Dopo la vittoria si scrivono libri che dimostrano come ciò che è successo fosse inevitabile, nel destino della nazione, come si stesse preparando da secoli. Si troveranno sempre con facilità intellettuali e giornalisti pronti a sostenere i vincitori.

Anche il vocabolario verrà riformato. Si introdurranno nuovi termini, come risorgimento, esportazione della democrazia e così via. In parallelo si provvederà ad emarginare e poi distruggere chi si ostina a mostrare il punto di vista dei vinti, dai giornali fino alle cattedre universitarie.

Alla lunga resterà solo il punto dei vista dei vincitori. Per questo è rarissimo nelle opere storiche trovare dei vincitori cattivi. Per questo gli antichi romani portavano la civiltà.

Il popolo pigro
Un importante corollario della favola standard, popolata da eroi, è il popolo pigro. Adatto il concetto da Wikipedia [2].

Un filone di critica storiografica, elaborando le analisi che fece Antonio Gramsci nei suoi quaderni del carcere, che partì dalle considerazioni del meridionalista Gaetano Salvemini sulla mancata soluzione della questione contadina, legata alla irrisolta questione meridionale, ha sottolineato un’interpretazione che sostiene come nel Risorgimento italiano fosse stata assai limitata la partecipazione delle masse popolari, soprattutto contadine, agli eventi che hanno caratterizzato l’unità nazionale italiana e come il Risorgimento possa essere considerato come una rivoluzione mancata.

Per chi guardi gli avvenimenti in modo disincantato la realtà è diversa e il popolo c’è. Il popolo è quello che neutralizza la spedizione dei Pisacane, il popolo è a Bronte che reclama le terre, il popolo combatte a Pontelandolfo, il popolo partecipa al brigantaggio, riuscendo a contrastare un esercito di 140.000 soldati [3] in assetto da guerra, soldati che riusciranno a vincere solo grazie a tecniche di genocidio. Il popolo è quello costretto ad emigrare a causa della fame creata dai Savoia nel sud. Il popolo continuerà a celebrare i briganti contro gli invasori per decenni. Oltre un secolo dopo la spedizione dei mille c’erano ancora dei cantastorie che onoravano le gesta dei briganti. Il problema è che nell’interpretazione favolistica del Risorgimento, il popolo è quasi sempre dalla parte sbagliata e viene fatto diventare invisibile dai mass-media (inclusi i libri di storia).

Ma se abbandoniamo la favola è facile vedere come il risorgimento sia un’operazione fatta contro il popolo italiano, a cui il popolo si è opposto fortemente, a volte anche ferocemente.

Conviene prestare attenzione al concetto di storia dei vincitori, la storia così come viene raccontata da chi ha vinto. Dalla storia dei vincitori non c’è niente da imparare. Tutto viene giustificato in termini di provvidenza o destino manifesto.

Sul lato opposto, dalla storia dei perdenti si possono raccogliere molte utili informazioni. Solo che i perdenti quasi sempre sono stati azzittiti. Per questo solitamente bisogna cercare al di fuori dei libri di storia per trovare qualche verità, un grande esempio è Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, altro esempio è Noi credevamo di Anna Banti.

Per quanto riguarda la saggistica, per lungo tempo le poche cose decenti sul risorgimento sono stati i libri del grande Nicola Zitara [4] e qualcosa di Mack Smith, che non era italiano. Lo spiegava bene Carl Schmitt (in Ex captivitate salus) come i perdenti siano costretti a scrivere la storia con estremo rigore mentre i vincitori possano permettersi tutti gli abusi. Sono andato a riguardare la vita di Tucidide, forse il più grande storico mai vissuto, ed era uno sconfitto.

Vae victis diceva Brenno ai Romani. Non è cambiato molto da quell’epoca, anche se una mitigazione viene data dalla “storia sociale”, che studia la vita quotidiana delle persone nelle varie epoche.

I Mille

Episodio chiave del Risorgimento è la Spedizione dei Mille nel 1860. Qui conviene approfondire. La spedizione dei mille durò pochi mesi, con un migliaio di soldati iniziali e poche migliaia alla fine convenzionale della spedizione. Alla fine della spedizione buona parte dell’Italia era formalmente unificata sotto i Savoia. Restava in sostanza solo il Lazio e Roma, che avrebbe resistito una decina di anni. L’unità d’Italia era cosa fatta, toccava fare gli italiani (per terminare correttamente la fiaba).

Solo che si sviluppò il cosiddetto “brigantaggio”, il quale tenne impegnati fino a 140.000 soldati nella cosiddetta repressione, la quale durò almeno un decennio. Sotto l’aspetto degli interessi economici in gioco, la spedizione dei Mille puntava allo zolfo, che all’epoca valeva come il petrolio di oggi. Si voleva che lo zolfo siciliano rifornisse a buon prezzo le industrie inglesi. E così fu. Per fare ciò i generali borbonici furono comprati, il Regno delle due Sicilie fu depredato, il popolo fu massacrato.

Qui ci sono molte analogie con l’invasione USA dell’Iraq (la Seconda guerra del golfo del 2003), fatta per rubare il petrolio agli iracheni. La guerra recitata durò tre mesi, dopo di che (a maggio 2003) Bush dichiarò la pace (non è colpa mia se suona male). E venne invece la guerra di sterminio contro il popolo iracheno, che dura da anni.

L’unità d’Italia realizzata dai Savoia nel 1860 ed anni successivi fu un capitolo di infamia e rapina, e nel suo complesso si configura come un vero e proprio genocidio. Il Sud depredato e rapinato, affamato fino all’inedia, deportato nel lager di Fenestrelle [5], sottoposto alla pulizia etnica gestita dai militari piemontesi ed ideologicamente organizzata da Cesare Lombroso, si riduceva in stato miserevole. Solo una mitigazione molto parziale proveniva dall’emigrazione.

Per dirla in altre parole c’erano tre scelte per chi abitava nel sud dopo la conquista dei Savoia:

  • cercare di sopravvivere in condizioni che non lo consentivano
  • morire combattendo
  • emigrare.

Si arriva così alla fine dell’800. Dopo parecchi anni e parecchi massacri di genti inermi qualche forma di unità politica era stata raggiunta, ma essa era un’unità formale che poggiava su un paese spezzato e su un meridione distrutto (destrutturato, demoralizzato). Anche se gradualmente ci fu qualche uniformazione amministrativa (va ricordata almeno la legge Casati, che introdusse la scuola pubblica in tutto il regno), l’Italia rimase un paese diviso. Il sud, terra di conquista, perse molto della sua tradizione, ma non acquistò senso dello stato. In seguito la mitologia fascista ebbe però qualche presa in tutta Italia con i suoi simbolismi, i richiami all’antica Roma imperiale, la sua voglia di apparire.

Ma il fascismo era anche una recita tragica e mal riuscita ed in particolare fu un errore il modo in cui fece entrare l’Italia nella Seconda Guerra mondiale. A un certo punto fu chiaro a quasi tutta la popolazione che la guerra era persa e lo show fascista stava terminando.

Ma la caduta del fascismo si portava dietro la sudditanza agli USA. Con gli accordi di Yalta l’Italia prendeva il ruolo di stato-cuscinetto, ruolo che avrebbe mantenuto per lungo tempo.

Gli USA avevano ripreso concetto di stato-cuscinetto dall’Impero Romano. Gli stati cuscinetto stavano ai bordi dell’Impero e difendevano dagli imperi confinanti, godendo di una discreta autonomia rispetto al centro, purché non venisse messa in dubbio la sottomissione all’impero.[6] Diciamo che era una libertà presidiata.

In parallelo alla storia ufficiale si svolgono quindi le strategie per tenere divisi gli italiani.
Tali strategie (il “Divide et impera”) nella versione USA si esplicano solitamente nell’organizzazione di guerre civili, esplicite o latenti. Se guardiamo in prospettiva la storia recente italiana, il “Divide et impera” nel secondo dopoguerra si è basato in Italia sul pericolo comunista, contrapposto a seconda dei casi ad una destra eversiva o ad una Chiesa reazionaria.

Con la caduta della monarchia nel 1948 l’Italia gradualmente si riprese. La caduta del Fascismo ebbe degli aspetti rivoluzionari: tutta una tipologia di classe politica servile (ruffiani e yes-men) fu messa da parte e rimpiazzata da una classe politica dotata di contenuti morali. La nuova classe dirigente si era temprata nel disastro ed ebbe la statura politica e morale di fare scelte coraggiose, nell’interesse comune della popolazione prima che nell’interesse della classe politica.

Dalla caduta del fascismo nacque la Costituzione repubblicana, che in qualche modo tentava di far tesoro dell’esperienza (e degli errori) del fascismo. Da qui cominciava uno dei periodi migliori: partiva la ricostruzione del paese, si sviluppavano industrie nel nord e partivano poderose migrazioni interne dal sud verso il nord per alimentare di manodopera a basso costo le industrie del nord.[7]

Avvenne anche un fatto nuovo, la povertà del sud diventava un problema. Al Nord era molto utile avere mano d’opera a basso prezzo proveniente dal Sud, ma ad un certo punto ci si rese conto che il sud sarebbe stato un paradiso per le industrie del nord se gli abitanti fossero stati dei bravi consumatori. In altre parole, si voleva una nazione di consumatori omogenea. Disgraziatamente gli abitanti del sud non potevano spendere abbastanza per gli appetiti delle aziende del Nord. Questo era un problema. A questo problema fu trovato il nome di questione meridionale.

L’unità degli italiani

L’Italia era ancora composta di genti molto diverse, ma esse cominciavano a capirsi, grazie agli scambi migratori. Negli anni ’60 arrivò in tutta Italia la RAI (intesa come TV). E qui tutti cominciarono a capire l’italiano della RAI, a vedere Carosello, Lascia o raddoppia, Canzonissima, Sanremo e le partite della nazionale di calcio. La RAI-TV cambiò la vita quotidiana delle persone e gradualmente assimilò al consumismo tutti gli italiani, fece sognare a tutti gli stessi simboli del cosiddetto benessere, li omologò sugli stessi miti e valori.

In una decina di anni l’Italia diventava una nazione e l’unità d’Italia, quella sostanziale, del popolo che condivide sentimenti, emozioni, valori, era cosa fatta. Gli italiani si sentivano “a casa propria” più o meno da tutte le parti.

Gli eroi di questa unità, coloro che avevano fatto l’Italia e anche gli italiani, erano molti.

Si chiamavano Claudio Villa, Raffaella Carrà, Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Gianni Morandi, e poi Burgnich, Facchetti, Zoff e tanti altri.[8] [9] L’operazione della RAI aveva formato un diffuso sentire nazionale. Tutti gli italiani si sentivano fratelli, almeno in occasione dei mondiali di calcio. Il paese era praticamente unificato, la RAI aveva fatto ciò che a Cavour non era riuscito (né gli interessava in realtà): creare un insieme di consumatori abbastanza omogeneo.

Nel frattempo il lavorio nascosto dell’Impero continuava. Il ’68 aveva sconvolto molti luoghi comuni. In quel periodo si erano creati degli strati sociali portatori di novità, che non da tutti erano visti favorevolmente.

L’economia italiana era cresciuta rapidamente ed il miglioramento del tenore di vita era percettibile. La mortalità infantile si era fortemente ridotta. La popolazione cresceva e all’interno di essa la classe media si era ampliata. L’analfabetismo era praticamente scomparso. Con circa un secolo di ritardo rispetto ai tempi ufficiali, l’Italia cominciava ad essere una nazione, con una lingua diffusamente parlata (o almeno capita) dalla Sicilia fino alle Alpi. La Rai TV era riuscita, oltre che a diffondere una lingua nazionale, a creare una certa attenzione verso i simboli nazionali, almeno in occasione di mondiali di calcio, olimpiadi e fenomeni analoghi.

In quegli anni si stava anche formando una crescita culturale, molto spesso egemonizzata dalla sinistra, con effetti ad essa favorevoli in occasione delle consultazioni elettorali.

La continua crescita del Partito Comunista Italiano sicuramente non era vista di buon occhio negli USA, che valutarono il passaggio a forme d’intervento più incisive, rispetto al precedente finanziamento della sinistra non comunista.[10]

Da qui nascevano gli opposti estremismi e la strategia della tensione.

Iniziava così il kolossal degli anni di piombo, quando interi settori della società si muovevano come gruppi ordinati di marionette pilotate dai burattinai.

Definirei quegli anni come gli anni del golpe, un colpo di stato progressivo con cui fu tolto agli italiani quel poco di sovranità che avevano. In un turbinoso spettacolo di massa, un sanguinoso kolossal recitato nelle strade e nei palazzi, si fece in modo che il potere restasse nelle mani di chi non aveva più titolo a detenere quel potere. Il risultato finale di un golpe al rallentatore durato dieci anni, fu che alla fine degli anni ‘70 chi stava al potere riuscì miracolosamente a mantenerlo.[11]

Non necessariamente un golpe deve essere rivoluzionario, anzi di solito è conservatore. Con tecniche analoghe a quelle di un prestigiatore si può dare la sensazione di un turbine di cambiamenti, mentre in realtà cambia ben poco, anzi il potere vero si rafforza.

Insomma, per la sinistra fu una sconfitta epocale, mentre la DC di Andreotti e Cossiga rimase in piedi.

La fase strategica della tensione “destra contro sinistra” durò per tutti gli anni ’70.

Negli anni ’80 però questa strategia era logora, non produceva più effetti. Probabilmente era la fine degli anni ’80 quando i padroni dell’Italia si resero conto che la strategia della tensione, il dividere gli italiani in destra e sinistra, sostenendo tutte e due le parti in modo che si combattessero come i capponi di Renzo, cominciava a fare acqua. Il divide et impera aveva bisogno di nuove strade.

Il tentativo di frammentare gli italiani su basi religiose non poteva funzionare, da millenni il papato unificava il popolo sotto la stessa religione. L’altra strada era lavorare sulle etnie, ma l’Italia, da secoli paese di bastardi, era un tale miscuglio etnico che identificare razze era impossibile.

Si poteva però lavorare sulla divisione nord-sud. Il paese era unificato da qualche decennio, l’operazione della RAI aveva formato un sentimento nazionale diffuso. Ma era qualcosa di recente. Si poteva disfare.

Nell’89 cadeva il Muro di Berlino e dalla caduta del comunismo e dalla frammentazione della Jugoslavia un’Italia unita, baluardo contro il comunismo, non era più necessaria. Il pericolo comunista ad est non c’era più. Adesso l’Impero USA si allargava ad est e l’Italia cuscinetto non serviva più.

L’avvio della dissoluzione dello stato italiano andava fatto a nord, dove c’erano già un certo numero di partitini razzisti e localisti che erano convinti di pagare troppe tasse verso il centro. Andavano aiutati. Quando il più grosso di questi partiti andò in fallimento per una gestione economica alquanto traballante, arrivarono aiuti a pioggia, praticamente incondizionati. Anche se qualcuno fece capire che gli articoli di Libero contro gli USA dovevano smettere. E così fu.

Come ben spiegava Theodore Shackley nel suo “The third option” (La terza opzione), bisognava però avere due parti in conflitto tra di loro per mantenere il potere e fare business sul conflitto. Il contrasto del nord contro “Roma ladrona” non era sufficiente, bisognava prepararne uno più sostanzioso.

A questo scopo bisognava lavorare anche al sud, per spingere l’orgoglio meridionale contro l’arroganza del nord. Furono acquisite un certo numero di piccole case editrici, le quali cominciarono a pubblicare libri di notevole qualità, ma sempre orientate a vedere il nemico nel nord e mai nelle banche, o nel mercato, o in paesi esteri. E si arriva così ai giorni nostri. Pian piano si è formata una “coscienza meridionale”. E’ costata molti soldi ma comincia a produrre effetti. Siamo quasi pronti per la frammentazione dell’Italia, sullo stile di quanto già fatto in Jugoslavia. Senza nemmeno scomodare la religione. ***

Ma adesso bisogna fare i conti con la nostra storia, la storia d’Italia. In questi giorni, che dovrebbero celebrare i 150 anni di unità nazionale, si susseguono polemiche sulle origini di tale unità, tra i suoi sostenitori, che ne parlano come di un evento storico realizzato da grandi uomini, e tra i suoi detrattori, che evidenziano la ricchezza delle culture preesistenti all’unità e la pochezza dei cosiddetti “eroi”.

Nel loro complesso, i discorsi di una parte e dell’altra mi appaiono costituire una trappola, un meccanismo che spinge a scegliere una delle due parti ed a sostenere le sue ragioni, a schierarsi con una fazione invece che a ragionare.

Perché chi si schiera trascura un fatto sostanziale, che circa un secolo dopo le date ufficiali, oltre all’Italia (fittizia) furono fatti gli italiani, sui valori della Costituzione e su quelli del consumismo della RAI (mantenendo sempre sul fondo i valori cattolici, o forse più correttamente la loro variante democristiana). Chi volesse criticare l’Unità d’Italia da qui dovrebbe partire, e non dai vari Garibaldi, Mazzini, Cavour.

Si potrebbe discutere se uno stato nazionale basato su Pippo Baudo e Mike Bongiorno sia qualcosa di tutto sommato apprezzabile o qualcosa da distruggere ad ogni costo. Io sarei per la prima.

Per l’Italia dei Savoia ho più che altro che disprezzo, eppure tocca riconoscere che, anche grazie all’unità politica realizzata dai Savoia, alla fine l’unità della nazione era stata raggiunta. Però, se insistiamo a discutere tra garibaldini ed antigaribaldini i conti con la nostra storia non li faremo mai e non diventeremo mai un popolo adulto.

Perché, oggi come ieri, qualcuno ha interesse a dividere gli italiani e li vuole frammentare per dominarli, anzi portarli al pascolo come un gregge di pecore.

Oggi probabilmente è peggio, perché la finzione dello Stato italiano non serve più all’Impero.

Truman Burbank (trumanb.blogspot.com/)

Fonte: www.comedonchisciotte.org
21.02.2011

***

NOTE

[1] http://it.wikipedia.org/wiki/Schema_di_Propp

[2] Dalla voce “Risorgimento”

[3] Qui, come nel seguito, ci sono analogie tra la spedizione dei Mille e la guerra degli USA contro l’Iraq iniziata nel 2003. Il numero di soldati nella fase di repressione è molto vicino.

[4] Fondamentale è di Zitara L’Unità d’Italia: nascita di una colonia, 1971, Jaca Book

[5] http://it.wikipedia.org/wiki/Forte_di_Fenestrelle

[6] Su questo punto mi segnalano “La grande Strategia dell’Impero Romano” di Luttwak, che però non ho letto.

[7] Cfr. “Il proletariato esterno” di Zitara e il film ” Trevico-Torino – Viaggio nel Fiat-Nam “.

[8] Ricordare Henri Pirenne per la sua analisi sociologica applicata alla storia (Maometto e Carlo Magno): invece che papi ed imperatori ci sono classi sociali, commerci, monete, cibi quotidiani. La data ufficiale dell’inizio del Medioevo o dell’unificazione d’Italia può essere una convenzione opinabile, ma l’approccio sociale alla storia fa scuola. I cambiamenti epocali nella vita delle persone sono ciò che fa la loro storia, non i potenti seduti su un trono.

[9] Sul contrasto stridente tra la storia ufficiale, la storia dei potenti, e la storia come vita quotidiana delle persone c’è chiaramente anche “La Storia” di Elsa Morante con il suo Useppe.

[10] Vedi Frances Stonor Saunders, La Guerra Fredda culturale. La Cia e il mondo delle lettere e delle arti, Fazi, Roma, 2004

[11] La chiave di lettura degli anni di piombo è il sequestro Dozier. Qui si vede che le Brigate Rosse erano effettivamente un’organizzazione militare capace di azioni clamorose, ma che tali azioni venivano rapidamente neutralizzate quando non erano funzionali al potere e le coperture all’interno di servizi segreti ed istituzioni saltavano.

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