DI CLAUDIO CELANI
Movisol
Sul nuovo governo gravano le ipoteche dell’oligarchia finanziaria. In seconda fila, nella compagine governativa, c’è una componente favorevole alla Nuova Bretton Woods
Il secondo governo Prodi è una specie di Giano bifronte. Per usare una metafora, potremmo dire che sul pennone del bastimento governativo sono issate due bandiere: da una parte il tricolore, dall’altra quella nera col teschio e le ossa, la classica bandiera dei pirati. I pirati, in questo caso, sono gli “azionisti esteri” del governo, il cui massimo rappresentante è Tommaso Padoa. (vedi: Padoa-Schioppa, ministro dell’Impero) Schioppa, ex vicedirettore della Banca d’Italia ed ex membro del Consiglio della Banca Centrale Europea. Padoa Schioppa è stato fortemente voluto da Prodi, che così conferma la sua “doppia lealtà”: da una parte verso l’azionista di maggioranza dell’Unione, i DS, a cui deve le sue fortune politiche; ma dall’altra verso quel mondo della tecnocrazia sopranazionale e globalizzante di cui ha fatto sempre parte.Il mandato di Padoa Schioppa è semplice: raddrizzare il timone della nave verso il fondamentalismo di bilancio dal quale il paese, per effetto della crisi economica, si era allontanato negli ultimi anni. Questo compito si inserisce nel quadro di un disegno per cui, secondo la “divisione internazionale del lavoro” predicata dai corifei della globalizzazione, l’Italia dovrà rassegnarsi a perdere il ruolo di paese industriale, trasferendo le produzioni all’estero e inventandosi nuove attività nei servizi, nel turismo, nel lusso e nella “bellezza”.
Il rientro del “partito del no”, guidato da Alfonso Pecoraio Scanio al ministero dell’Ambiente, promette un forte sostegno al disegno di deindustrializzazione.
Come contropolo al partito tecnocratico-ambientalista (i pirati), nelle seconde linee (viceministri e sottosegretari) c’è una folta rappresentanza di sostenitori della proposta di Nuova Bretton Woods di Lyndon LaRouche, tra cui Antonio Lettieri (Finanze), che presentò la mozione approvata il 6 Aprile 2005, Alfonso Gianni (Industria) che fu determinante perché la stessa venisse approvata nella versione originale, e altri.
Sarebbe stato meglio se questo personale fosse stato schierato in prima fila. Registriamo comunque positivamente la nomina di Massimo D’Alema agli Esteri come uno schiaffo al partito neo-con, che aveva posto il veto sul nome dell’ex Presidente del Consiglio. Nel discorso di inaugurazione Prodi ha chiaramente respinto l’atteggiamento di Berlusconi sull’Iraq e più in generale la sua politica estera a rimorchio dell’avventurismo di Bush-Cheney ribadendo il rifiuto della guerra e dello scontro di civiltà.
Questo distacco dalla linea neo-con potrà acquistare ulteriore importanza nel contesto dell’attuale crisi economica e finanziaria globale; infatti sta crescendo il numero di paesi disposti a smarcarsi dalla linea strategica della globalizzazione, ed instaurare nuovi rapporti di cooperazione economica con paesi quali Russia, Cina e India. E questa tendenza, soprattutto se guidata da una svolta rooseveltiana dentro gli stessi Stati Uniti, potrà cambiare le prospettive dei governi europei attualmente sotto il ricatto del “rigore” del Patto di Stabilità.
Nell’insieme, la compagine governativa esprime un potenziale conflittuale, nel senso che può andare in una direzione o nell’altra, a seconda di quale dei due partiti prevarrà, quello nazionale o quello dei predatori.
Il ritorno dei ‘piratizzatori’
In verità, la bandiera dei pirati era già tornata a sventolare sotto il governo Berlusconi, in vetta a quella che è ancora l’istituzione più potente d’Italia, la banca centrale (chi obietta che con l’istituzione della BCE la Banca d’Italia non conta più niente è pregato di prendere atto del ruolo, addirittura accresciuto, di oracolo finanziario che essa ha rivestito in occasione delle considerazioni finali del Governatore il 31 maggio). Ciò a riprova che le due coalizioni di centro-destra e centro-sinistra si scontrano su molte questioni, ma su quella decisiva c’è qualcuno che decide per entrambe.
Come epilogo dello scontro sulle OPA bancarie, infatti, ha fatto il suo rientro trionfale in Italia il partito delle privatizzazioni (appunto, i “piratizzatori”), o del “Britannia”, nella persona di Mario Draghi. Quello scontro ha lasciato morti e feriti illustri sul campo, e ha dato l’abbrivio ad una nuova fase di transizione della storia italiana, in cui si inseriscono la scelta del governo Prodi e altre pedine collocate nella scacchiera politico-economica.
I pirati vorrebbero guidare, in questa fase di transizione, l’Italia verso quello che chiamano “il posto del paese nella divisione internazionale del lavoro”, che suona bene e addirittura accattivante perfino per i marxisti, ma che in realtà significa niente altro che la spoliazione delle ricchezze nazionali. Secondo il disegno imperiale al servizio del quale si muovono i pirati, le attività produttive vanno trasferite dalle nazioni industrializzate alle regioni del mondo a basso costo del lavoro (Cina, India eccetera), in modo che i grandi potentati finanziari – e non i governi – che reggeranno le sorti del mondo globalizzato potranno continuare ad accumulare profitti finanziari. In sostituzione delle attività produttive perse, i pirati assicurano che il futuro dell’Italia sarà quello di produttrice di servizi. E siccome a vendere quelli finanziari e di altra sorta saranno gli altri, inglesi in prima fila, gli Italiani dovrebbero esprimersi là dove hanno una vocazione naturale, e cioè nella produzione di servizi “estetici” tipo turismo, lusso e bellezze artistiche. Naturalmente, mantenere un’economia che non produce costa, e allora bisogna abbattere le spese a cominciare dalle pensioni, dai salari (flessibilità), dalla sanità pubblica, ecc. Infrastrutture? Si fanno quel tanto che basta a reggere un sistema di transito di merci destinate ad altri, ma non ad arricchire il territorio.
Il piano
Chi pensa che questa sia un’esagerazione, presti bene orecchio a quanto dichiara uno dei più noti appartenenti alla banda dei pirati, il finanziere Carlo De Benedetti (Carlo De Benedetti deve la sua carriera al cugino Camillo, oggi scomparso, che faceva parte del vertice delle Assicurazioni Generali all’epoca in cui il massimo tempio della finanza italiana era occupato ancora dalle stesse persone fisiche che avevano fatto il fascismo, i vari Volpi, Cini ecc.).
In una lunga intervista rilasciata ad un giornalista compiacente, Massimo Gaggi (che era sul Britannia il 2 giugno 1992) e andata in onda su RaiSat il 15 giugno 2005, De Benedetti espose il suo credo, preannunciando un ruolo da protagonista della politica che si apprestava a svolgere nel futuro.
De Benedetti esprime alcuni concetti chiave: 1. L’Italia come nazione manifatturiera non ha futuro; 2. Dobbiamo abituarci a pensare come consumatori e non più come produttori.
Parlando di Enrico Berlinguer, De Benedetti si rammarica che l’allora segretario del PCI “era ancora convinto che esistesse la classe operaia, e io gli dicevo: guardi, segretario, che la classe operaia non c’è più”. “L’operaio oggi è un consumatore, un percettore di salario e un pagatore di imposte. Se voi pensate di proteggerlo solo dal punto di vista di percettore di salario quello lo fregate sui consumi e lo fregate sulle imposte”.
In risposta alla domanda “Lei ritiene che un Paese con una democrazia industriale avanzata, o almeno ex industriale avanzata, possa comunque vivere essenzialmente di servizi?”, De Benedetti risponde: “Ci credo in maniera assoluta”. E subito dopo prosegue: “La missione d’Italia oggi non è di rivolgersi verso il suo passato strappandosi le vesti, ma è guardare al futuro basandosi su quelli che gli americani chiamerebbero competitive advantages, cioè i vantaggi competitivi rispetto ad altri. E noi ne abbiamo di formidabili, che secondo me vanno sotto la grande etichetta di ‘estetica’. Estetica vuol dire mangiar bene, vestirsi bene, arte, cultura, paesaggio, saper vivere. Lei vive in America [si rivolge al giornalista], ma è invidiato, perché la gente le dice: ah! Ma tu sei un italiano, ah! Da voi si sta bene. E’ così o no? E’ così. Noi abbiamo una massa crescente di persone, in questa geografia economica che si è allargata, che vorrà fruire di qualità, di eccellenza, di specificità. L’Italia ha un’occasione più favorevole di questa? Dove la troviamo? Finalmente la gente scoprirà le cose che sono in qualche modo irripetibili. Le statue che ci stanno intorno qui in questo museo hanno caratteristiche di irripetibilità. Ce le portiamo dentro. Lei mi dice: ma un Paese può vivere su questo? Hai voglia! Tanto, guardi, la manifattura è chiusa, ma non è chiusa per l’Italia, è chiusa per l’Europa. Diamoci dieci anni di tempo, in Europa saranno rimaste le teste, io spero, i centri di ricerca, i centri di comando di grandi imprese che non avranno più nazionalità. La nazionalità delle imprese scompare”.
Queste affermazioni ci danno la possibilità di documentare un vero e proprio pensiero strategico condiviso nei piani alti di certa oligarchia mondiale. De Benedetti non fa altro che esprimere quello che è il pensiero della sinarchia moderna, che sin dalla sua nascita, alla fine del secolo XIX, lanciò il progetto di un impero o un sistema di imperi governato da potentati finanziari e in cui gli stati nazionali sarebbero scomparsi. Gli assiomi fondamentali di questa dottrina vengono ripetuti dai membri della consorteria sinarchista quasi identici, come se fossero clonati: il sistema nato con la Pace di Westfalia nel 1648 è superato; gli stati nazionali sono all’origine delle guerre; l’abolizione delle frontiere e delle barriere economiche e la divisione internazionale del lavoro sono la forma più efficiente di organizzazione economica nel mondo, e così via (vedi articolo seguente).
Le due anime del centro-sinistra
Ci siamo dilungati sulle citazioni debenedettiane perché esse ci danno la chiave di lettura giusta degli sviluppi italiani degli ultimi mesi, fino alla nascita del governo Prodi. Abbiamo prima accennato alla battaglia sulle OPA bancarie, che ha portato all’avvicendamento ai vertici di Bankitalia e all’ingresso degli olandesi di ABN Amro e dei francesi di Paribas al comando di due importanti banche italiane. Quella battaglia ha visto anche l’accendersi di un feroce scontro all’interno dello schieramento di centrosinistra, uno scontro che non si è risolto definitivamente e che si riaprirà inevitabilmente alla prima occasione.
La fallita scalata Unipol alla BNL, infatti, non riflette solo uno scontro di potere tra il gruppo dirigente dei DS e le cooperative di cui sarebbero referenti da una parte, e la Margherita, il Monte dei Paschi di Siena (i comunisti toscani) e altri attorno e dentro il centro-sinistra. Dietro al tentativo Unipol, c’era bene o male un progetto antitetico alle strategie dei pirati, che è quello, come abbiamo visto, di deindustrializzare l’Italia e spostare le attività produttive all’estero. Questo non è esattamente consono agli orientamenti del mondo delle cooperative di produzione, quelle dietro al progetto Unipol, facilmente demonizzate dai media e dalla demagogia anticomunista di Berlusconi. In realtà, esse costituiscono una realtà produttiva radicata nel territorio e legata proprio alla sua valorizzazione, in termini di infrastrutture produttive, edilizia ecc. Quello delle cooperative di produzione è tra i pochi settori industriali che è cresciuto costantemente e ha creato occupazione negli ultimi anni, grazie anche alla vituperata legge che, in cambio di agevolazioni fiscali, le obbliga a reinvestire una consistente quota dei profitti nella produzione. In molti casi, ci sono realtà cooperative di eccellenza dal punto di vista tecnologico, come quella che dovrebbe perforare la galleria in Val di Susa o altre che costruiscono ponti, dighe e altre opere pubbliche in Sudamerica, in Asia e in Africa. Per ovvi motivi, e non solo quelli beceri del tornaconto personale o politico, questo settore – e la loro “cinghia di trasmissione” politica, i DS di D’Alema e Fassino – sono a favore delle infrastrutture, come la succitata TAV o, in qualche caso, anche del Ponte sullo Stretto. Per inciso, sarebbe stato molto meglio se il centrodestra non avesse perciò strumentalizzato la vicenda in chiave anticomunista, approfittandone per rafforzare il partito trasversale del “fare”, contro quello del “no”, ma questo è un altro discorso.
A quanto pare, il gruppo Unipol-cooperative-DS ha veramente creduto alla favola del libero mercato e ha cercato di favorire un’aggregazione finanziaria non dissimile da, sicuramente non peggiore di, quelle avvenute dopo le privatizzazioni e liberalizzazioni bancarie, solo per sbatterci il muso e imparare che la legge del mercato non è uguale per tutti. Sappiamo tutti com’è finita: l’Unipol ha dovuto ritirarsi dall’OPA su BNL; sono cadute alcune teste (più o meno arruffate), i DS hanno dovuto leccarsi le ferite e sono cambiati gli equilibri all’interno della Lega delle Cooperative; è cresciuto il peso delle Coop di consumo, contrarie all’OPA e alleate al Monte dei Paschi di Siena (notare: per loro esiste un ruolo nell’Italia “estetica”: quello di grande mercato fornitore di beni di consumo made in China. Chi abbia visitato il reparto abbigliamento, pellame e calzature di qualsiasi centro Unicoop può constatare che questa realtà è già cominciata).
Dimenticavamo: due banche italiane sono finite in mani straniere, il che in sé non sarebbe la fine del mondo, ma si tratta di mani molto aggressive nella speculazione finanziaria globale. I risparmiatori pagheranno sicuramente meno per accendere un conto corrente, ma accendano un cero a Sant’Antonio per i loro risparmi.
Democratici di Soros o di Roosevelt?
Il conflitto però non è finito con la sconfitta Unipol, ma è destinato a riaprirsi proprio perché è strategico. Il nuovo terreno di scontro sarà il progetto del “Partito Democratico”, di cui l’ingegnere si è fatto grande sponsorizzatore con l’intenzione di plasmarlo secondo i suoi disegni. Per questo, nel settembre 2005 De Benedetti mandò Francesco Rutelli in America, dove gli combinò un incontro con lo speculatore e grande elemosiniere George Soros, dopodiché, in dicembre, partecipò in prima persona alla riunione del Partito Democratico e concesse un’altra intervista, al Corriere della Sera, in cui bocciò Prodi e lanciò Rutelli e Veltroni come gli uomini del futuro, in grado di agire liberi dai vincoli che hanno finora impedito quella che lui chiama la modernizzazione dell’Italia. Questa investitura dei due gemelli della Lupa avvenne a pochi giorni di distanza da un articolo dell’Economist che lo aveva preceduto nello stesso esercizio. Solo che l’Economist aggiunse due nomi, Fini e Pannella – per coprire anche l’area di destra.
In quell’occasione, l’ingegnere dettò il futuro programma di governo: “Sul mercato del lavoro c’è un’elasticità insufficiente… bisogna intervenire pesantemente sugli ammortizzatori sociali.” “Per restare all’economia”, aggiunse, “penso alla riduzione del cuneo fiscale. Non di un punto come ha fatto il governo [Berlusconi], con Luca di Montezemolo che si è dovuto accontentare. Una vera riforma significa dieci punti di cuneo fiscale, con un costo di 20 miliardi.” Se Prodi fallisse, “non ci rimarrebbe altro che un Cardinale o un Generale”.
Ammortizzatori sociali e riduzione pesante del cuneo fiscale: la ricetta liberista che poi abbiamo ritrovato puntuale sul voluminoso programma dell’Unione, con la differenza che i dieci punti sono diventati cinque e i corrispondenti miliardi dieci. Evidentemente ciò è il frutto di un compromesso con quelle forze politiche nella maggioranza che si sono impegnate a difendere lo stato sociale, ma dopo il voto ci ha pensato il neogovernatore Draghi a rilanciare pesantemente il ricatto liberista, con la richiesta di rimettere mano alle pensioni, abbattere le spese sanitarie e varare subito una manovra di bilancio di due punti di PIL, equivalente a 29 miliardi di euro. “Condivido ogni parola dall’inizio alla fine”, ha detto l’ingegnere alla fine della relazione del compagno di “Mr. Britannia”. Naturalmente l’ingegnere non era il solo, in quanto tutta la schiera dei banchieri e dei nuovi monopolisti privati si è profusa in lodi sperticate per il nuovo oracolo di via Nazionale. Solo i sindacati hanno fatto rilevare che dalla relazione mancava ogni accenno al fatto che il reddito delle famiglie sta crollando.
Romano Prodi si trova quindi diviso tra due lealtà: da una parte il mondo della finanza tecnocratica e della globalizzazione dal quale proviene e a cui lo legano i suoi cromosomi culturali, impiantati dagli studi alla London School of Economics e rafforzati dagli anni trascorsi come consigliere della Goldman Sachs e presidente della Commissione Europea; dall’altro, egli deve le sue fortune politiche al progetto dell’Ulivo, il cui azionista di maggioranza sono i DS, e non può non tenerne conto. Se i suoi impulsi “naturali” lo portano a condividere le scelte tecnocratiche, sa però che non può sputare sul piatto dove mangia, creando troppi dispiaceri alla politica che ha inventato il suo ruolo di leader del centrosinistra.
Come andrà a finire? Molto dipende da come la “seconda linea” del governo Prodi saprà capire le soluzioni indicate nel documento programmatico pubblicato dal presidente del Movimento Solidarietà, Paolo Raimondi, e organizzare una resistenza alle scorribande dei pirati La questione fondamentale posta è quella delle risorse: esse non si trovano con i tagli, come se avessimo a che fare con un bilancio familiare, ma si creano con il credito produttivo. La ricetta è quella che porta i nomi di due grandi punti di riferimento del Partito Democratico americano, uno storico, Alexander Hamilton, e uno odierno, Lyndon LaRouche; a loro, e non ai vari Adam Smith, George Soros o Felix Rohatyn, bisogna guardare se si vuole costruire il futuro dell’Italia – e dell’Europa.
Claudio Celani
Fonte: http://www.movisol.org/
Link: http://www.movisol.org/prodi.htm
Giugno 2006