LORIS CAMPETTI: “IL MANIFESTO” STRAPPATO

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DI LUCA PAKAROV
rollingstonemagazine.it

Ogni anno la solita invocazione: aiutateci a non chiudere. Ma questa volta è diverso, profondamente diverso…Intervista a Loris Campetti, caporedattore de “Il Manifesto”

Immaginate di entrare in edicola, scavalcare la montagna di giocattoli che l’assediano ed arrivare miracolosamente con le caviglie intatte ai quotidiani. Bene. Fra la risma ben allineata dei giornali non scorgete la solita, lapidaria, foto di prima pagina de il manifesto. Dove cazzo sta? Spariti quei titoli sagaci o stronzi o inopportuni o destabilizzanti. Quindi? Vi pare normale? Lo domando anche a chi non lo compra: sarebbe la stessa cosa entrare in edicola? E per chi (in teoria – bugiardi) lo compra ogni giorno? Mea culpa, io da habitué sono divenuto un fottuto ipocrita del sabato (ad Alias non si può fare a meno) e della domenica perché, in quanto mai appropriati termini eucaristici, il giorno del Signore è anche quello in cui si può meditare alacremente, accettandone i rischi, e senza finire due pacchetti di cartine. Attenti perché la fine di un’epoca passa pure per certi dissesti emozionali, oltre che per i livelli di testosterone. Sia che lo amiate o l’odiate, comunque, se siete fra gli ultimi, sani, tossici dell’edicola non potrete ignorare la sua assenza.Tutto ‘sto preambolo per dire che il manifesto ha avviato una campagna a proprio sostegno, inviando i suoi più importanti giornalisti a fare discorsi (e cene) in giro per l’Italia. Non li invidio. In una di queste, un ruzzolone da casa mia (me lo conceda il possidente pure se ho due mesi di arretrato), al Terminal di Macerata, incontro Loris Campetti. È assediato Campetti da più o meno curiosi, pazzi, detronizzati, razzumaglie bovine, bancari (lo giuro!), etilicointellettuali e peggio, intellettuali veri e propri vogliosi di vertiginose elucubrazioni.

Le piccole e striscianti elite culturali, si sa, non si perderebbero mai un funerale. Campetti, ci vuole fegato, mica no. La rivoluzione figlioli è roba dell’altro secolo, mettiamocelo in testa, pure se qualcuno, con venti gradi, ha avuto il coraggio di presentarsi con la kefiah. Ma Campetti regge, sorride, la battaglia è lunga, partigiano della parola, risponde a tutti, è disponibile con tutti, con due palle così, nemmeno un vaffanculo quando una (ho nome e cognome che divulgherò dietro equo indennizzo), in un improbabile discorso sull’attendibilità del web, tramortita da qualche foglietta di rosso, gli chiede: “Conosce Wikipedia?”. Con più scrupoli mi sarei vergognato per lei ma, all’atto, me ne frego e come personale divina punizione mi scolo quello che le rimane sul bicchiere. Appare anche uno spilungone che si dichiara suo nipote. Forse si è troppo solidali. Da questo, inabissato, punto di partenza non posso fare peggio, almeno per ora, così, nel baccano, mi faccio avanti pure io.

Ogni anno c’è l’allarme manifesto, quest’anno che cambia?

“Cambia che la situazione è più grave, noi siamo abituati a vivere nel terremoto, ogni nostro allarme era semplicemente una richiesta ai nostri lettori di sostegno. Questa volta è successo che dentro una logica di dittatura del mercato, vivere come abbiamo vissuto per quarant’anni, non è più possibile. In una cooperativa in cui tutti prendono lo stesso stipendio, dal direttore al centralinista, non ce la facciamo con le copie che vendiamo. Il taglio del finanziamento pubblico per noi è stato mortale, perché era il 25 per cento delle entrate”.

La causa sono i tanti giornali (inutili) che sono nati?

“Certo, noi da 10 anni chiediamo la riforma dell’editoria per evitare che i soldi vengano distribuiti in modo mafioso a soggetti finti. Siamo, insieme ad altri, un giornale senza fini di lucro, senza avere alle spalle né partiti né padroni che ci sostengono e, come in tutta Europa, troveremmo normale che ci fosse un contributo pubblico a garanzia del pluralismo. Dentro questa legge si sono infilati alcuni casi, L’Avanti lo conosciamo, ma ci sono Il riformista, Il foglio fino a qualche tempo fa, e i giornali di partito, siamo finiti tutti dentro lo stesso calderone. Per evitare il fallimento abbiamo avviato questa procedura di liquidazione coatta amministrativa, il che vuol dire che abbiamo una trojka di liquidatori che ci chiede di licenziare quaranta persone su settanta dipendenti”.

Non può essere che il manifesto non sappia fare il proprio lavoro: perché dobbiamo dare del denaro pubblico a chi non è capace di ricavare utili?

“Il mercato non è libero, è un mercato taroccato, dove i media sono in mano di pochissime persone e di pochissimi potentati che controllano tutto, dalla carta stampata alla televisione alla pubblicità, usando questi strumenti di potere per l’omologazione dell’informazione. Questa non è una corsa in cui tutti partono dagli stessi blocchi, tu ti devi rapportare col mercato che, se è truccato, diventa un gioco per niente facile”.

Però allora come si distingue un giornale “vero” da uno “falso”?

“Ci vuole molto poco. Invece di fare il finanziamento in base alle copie stampate farlo sulle copie vendute, così può essere che i giornali non vengono regalati al solo scopo di ottenere denaro pubblico. In proposito c’è già una proposta di legge fatta da Mediacoop (associazione cooperative giornalistiche, N.d.R.) a cui noi aderiamo”.

Quanto ha influito la crisi della sinistra in un giornale come il manifesto?

“Moltissimo. Ne siamo dentro. Faccio un esempio: visto che siamo nati criticando il socialismo reale, l’esperienza dell’Unione Sovietica o il centralismo democratico, quando sono caduti i muri immaginavamo che non ci dovessero cadere addosso, invece no. È una metafora per dire che la crisi della sinistra ci colpisce, quando ci fu la prima guerra del Golfo, il manifesto triplicò le vendite. Nella seconda guerra del Golfo le abbiamo aumentate del 5 per cento. Nelle guerre successive non sono cambiate, il che vuol dire che, persino dentro la sinistra, la guerra è entrata nella normalità delle cose, noi quindi paghiamo una crisi di valori e culturale”.

Non è solo una crisi di valori, con il Pd che appoggia Monti diventate totalmente anacronistici…

“È l’esempio di un governo che si presume neutrale e neutrale non è, che si presume tecnico e tecnico non è, riesce a fare quello che a Berlusconi veniva impedito per il fatto che non c’è più un’opposizione politica. E, un paese senza più una distinzione fra maggioranza e opposizione, è un paese malato”.

Come si difende il manifesto dall’idea che sia diventato, per alcuni, un giornale radical-chic?

“È un’idea sbagliata. Le copie che abbiamo perso sono proprio quelle degli intellettuali attratti da Il Fatto Quotidiano che urlava contro Berlusconi mentre, in cambio, abbiamo recuperato copie fra i lavoratori dipendenti. Fra i metalmeccanici il manifesto è il giornale più letto”.

Di metalmeccanici però ne sono rimasti pochi…

“Approfondire, intentare di fare analisi più serie non significa essere chic, significa non accontentarsi della banalità, poi a volte ci riusciamo a volte no”.

Campetti, gira tanto per questo tipo di promozione?

“Ogni tanto vorrei fermarmi…”.

C’è qualcosa che ci trascina giù, da qualche parte, a cui non facciamo nessuna opposizione. È una lotta contro il tempo. Amici de il manifesto, non è così irrazionale augurarvi “che Dio vi aiuti”.

Luka Pakarov
Fonte: www.rollingstonemagazine.it
Link: http://www.rollingstonemagazine.it/politica/notizie/loris-campetti-il-manifesto-strappato/50655
25.03.2012

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