LO TSUNAMI E LA VIRTUALIZZAZIONE DEL MONDO

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DI JACQUES MARLAUD

Tra Natale e Capodanno, in qualche zona sperduta nei mari del sud, una leggera scossa tellurica sottomarina ha sollevato un’onda gigantesca che ha travolto qualche centinaia di chilometri di costa spazzando via tutto ciò che trovava al suo passaggio: uomini, animali ed oggetti che il destino aveva posto sulla sua strada. Come conseguenza, una tempesta di altro genere ha travolto i media occidentali nella furia di riferire le notizie riguardanti la catastrofe. Il conto delle vittime cresceva di ora in ora per arrivare nel giro di qualche giorno da 17000 a quasi 150.000 morti.
I servizi trasmessi dai nostri schermi televisivi possono essere classificati in tre/quattro categorie: quelli effettuati da persone che si trovavano sul posto ed hanno quindi potuto filmare l’onda che si abbatteva su una delle tante stazioni balneari piene di turisti ammutoliti, e quelli che mostravano l’orrore delle conseguenze, con centinaia di cadaveri raccattati dalle spalatrici e gettati in fosse comuni, gli abitanti dei villaggi in lacrime e fuori di sé, il sorvolo di migliaia di palazzi ed infrastrutture sinistrati, turisti che scendevano dall’aereo ancora in stato di shock, reduci da vacanze interrotte in modo così brusco e tragico. Seguivano poi le stime molto approssimative delle ripercussioni economiche per l’industria locale e soprattutto per il turismo in Thailandia (il Paese meno colpito ma il più occidentalizzato). Poi, le telecamere occidentali hanno puntato l’obiettivo verso l’organizzazione dei soccorsi e dei meccanismi umanitari il cui effetto è di rassicurarci e di farci sentire a posto con la coscienza. Infine, ciliegina sulla torta, i primi piani dei politici, la loro compassione ufficiale superflua se non imbarazzante al cospetto delle vittime, ma molto più d’impatto sulle opinioni pubbliche interne, prese di mira dagli “opinion-maker”, rispetto ad un sobrio telegramma di condoglianza passato ad un ufficio stampa. Il presidente statunitense si dichiara pronto a mettersi a capo di una crociata umanitaria in favore delle vittime, promessa accompagnata da una spesa ridicola, se paragonata alle somme colossali investite ogni giorno nelle occupazioni sanguinarie dell’Iraq e della Palestina, sperando così di relegarle nel dimenticatoio dell’attualità, proprio nel momento in cui si avvicina inesorabilmente l’ora dei bilanci, deplorevoli per gli Stati Uniti, Il Presidente francese, di ritorno dalle vacanze in Marocco, ha dovuto anche lui affrontare l’argomento del giorno illustrando alla nazione i suoi buoni propositi. L’intero occidente coglie l’occasione al volo per sanare le recenti spaccature, attraverso una solidarietà simbolica con i paesi colpiti (minuti di silenzio e bandiere a mezz’asta un po’ ovunque). La catastrofe è sicuramente di enorme portata, ma diventa di medie dimensioni se paragonata ad altri disastri attuali, compresi quelli che in questo momento si stanno abbattendo sul medio oriente e l’Africa, ai quali gli interventi occidentali non sono estranei.

L’ONU, che ha perduto ogni credibilità a causa della sua impotenza a risolvere i conflitti e del suo servilismo nei confronti della super potenza mondiale, si è ritagliata un ruolo di circostanza, raccogliendo e distribuendo fondi in aiuto ai paesi colpiti. Colin Powell, uomo chiave della prima amministrazione Bush, rubava lo schermo a Kofi Annan e sciorinava banalità studiate appositamente per le telecamere, facendo tornare alla ribalta la sua fama di uomo che ha scoperto false armi di distruzione di massa e fiale di antrace.

DIETRO LE QUINTE DEL CONSENSO, ALCUNE QUESTIONI IMBARAZZANTI

Due o tre giorni dopo la catastrofe, si diffusero voci inquietanti: le vittime dello tsunami avrebbero potuto essere in gran parte salvate se fossero state allertate dalla National Oceanic Atmospheric Administration degli Stati Uniti il cui “tsunamometro” ha registrato la scossa originaria molto prima dell’arrivo dell’onda assassina sulle coste circostanti. Ora,questa base di vigilanza si è affrettata ad avvertire telefonicamente la base militare statunitense di Diego Garcia, ubicata in una zona non a rischio, mentre i paesi in pericolo avrebbero ricevuto soltanto una semplice e-mail. Quel che è peggio, si apprende che, essendo lo tsunami un fenomeno ricorrente in questa regione del mondo, i ricercatori avevano richiesto invano l’installazione di “tsunamometri” nei punti strategici, alla stregua degli Stati Uniti che, per proteggere le proprie coste, ne hanno installati addirittura sei. Ma tali apparecchi, ad un costo di 250.000 dollari – una minima parte del costo di una macchina da guerra moderna – sembra che siano stati giudicati troppo costosi. Ciò evidenzia, se mai ce ne fosse bisogno, che i poteri Occidentali si preoccupano molto di più di mantenere e sviluppare le proprie capacità di distruzione di massa che non di risparmiare delle vite umane.

Di fronte ad una simile constatazione, che importanza possono avere tutti i discorsi sui valori ed i diritti dell’uomo?

LA TSUNAMIZZAZIONE DELL’INFORMAZIONE

Ovviamente, queste voci, forse perché avrebbero messo in cattiva luce le innumerevoli campagne di solidarietà ostentate dai media (“inviate un SMS e destinerete un euro alle vittime, campagna sponsorizzata da Radio Francia) non sono state oggetto di indagini approfondite. Si preferisce crogiolarsi di fronte ad un fenomeno (eppure molto più frequente di quanto si voglia ammettere) che sembra abbia spostato delle isole di una ventina di metri e cambiato leggermente l’asse di rotazione dell’asse terrestre, oppure versare lacrime di coccodrillo sui dispersi mentre vengono provvisoriamente dimenticate le innumerevoli vittime causate ogni anno dai tanti disastri naturali o indotti dall’uomo (carestie,guerre,genocidi,deportazioni e migrazioni,inquinamenti massicci, pandemie…).

Con ogni probabilità, la tempesta mediatica che ha riguardato il cataclisma, innestatasi in modo artificiale e poi ampliatasi smisuratamente come tutto ciò che provenga dalla modernità occidentale, si dissolverà con la stessa velocità con cui è nata, ancora più velocemente della tempesta del ‘99, dell’esplosione dell’AZF del 2001, della canicola del 2003 e di diverse inondazioni che, con conseguenze molto meno gravi, ci hanno toccato più da vicino, sollevando polemiche violente e persistenti riguardanti eventuali responsabilità sulle cause e sulle ripercussioni della catastrofe in questione. Ma non siamo ancora arrivati a quel punto. Al contrario, se si volesse valutare l’impatto della catastrofe con il volume dei programmi di prima serata sui nostri schermi, si potrebbe parlare di una tsunamizzazione dell’informazione, fenomeno paragonabile al dopo 11 settembre, evento, anche questo, a cui ha fatto seguito un grande accanimento mediatico. Eppure, il buon senso popolare, sondato qua e là, vorrebbe che si parlasse d’altro, ma i media non sono delle stesso avviso, né lo sono gli insegnanti, gli psicologi, i politici e gli intellettuali della serie “mi hai visto in tv?”, che hanno trovato l’occasione per darsi importanza, cavalcando l’onda assassina, arrogandosi il monopolio del “bel parlare ” su un terreno in cui nessuno oserebbe contraddirli.

Al gesticolare ipocrita degli occidentali, si contrappone la dignità e la serenità degli asiatici. L’india, in particolare, ha organizzato interamente i soccorsi al proprio interno, rifiutando l’aiuto esterno, pronto a riversarsi su di essa tramite eserciti di intrusi.

La manipolazione mediatica degli avvenimenti è in questo caso particolarmente disdicevole perché li si mostra in modo volgare, impedendoci di pensarli e di viverli in modo personale.Tutto ciò che viene trasmesso sui canali PPDA, Claire Chazal, CNN o Fox News è spettacolarizzato alla maniera holliwoodiana: tutto scade in melodramma sentimentale con effetti da film dell’orrore: l’esibizione ripetuta di cadaveri in diverse fasi di decomposizione, la tristezza dei bambini rimasti orfani, l’ostentazione fino alla nausea di sentimenti di circostanza accompagnati da farneticazioni di un’ovvietà deprimente da parte dei cosiddetti psicologi, in pieno delirio. Si finisce con l’avere l’impressione di aver visto una pellicola di grande effetto, che ci farebbe sorridere se non si trattasse di realtà vera.

Eppure, dopo essere stati sballottati nella macchina per rimbecillire di “Padre Ubumedia”, tutto è finito troppo in fretta. A noi, i rimbecilliti, non resta che sederci in attesa del prossimo spettacolo, mentre una sfida di tale portata e l’accanimento mediatico al quale dà luogo, offrono un’appassionante materia di riflessione in grado di innalzare le menti al disopra del turbine di eventi con i quali si cerca di stordirci. Indicheremo qui di seguito soltanto alcune delle vie alternative ai programmi di prima serata che ci vengono propinati dai nostri schermi, dirette ad un giornalismo diverso, impregnato di alta filosofia, per esploratori post-moderni valorosi e leggiadri.

UN GRANDE DISPERSO: IL SENTIMENTO TRAGICO DELLA VITA

La prima riflessione, che è anche la più scontata, di fronte ad un tale cataclisma ci riporta alla nostra piccolezza e fragilità davanti alla furia della natura. L’hubris della tecnoscienza, vera religione del presente che pretende di facilitarci l’esistenza risolvendo tutti i nostri problemi, esce umiliata da questa prova magistrale che svela la sua impotenza di fronte alla collera della terra che da troppo tempo maltratta ed inquina. Tsunami è l’altro nome del Leviatano sorto dal fondo dei nostri oceani mitologici che, stuzzicato da qualche sirena dispettosa, emerge a volte dal suo sonno marino e sbircia i nostri paradisi artificiali dove la nostra impudica civiltà post-industriale riversa le sue ondate di turisti in fuga dall’inverno che si rifugiano presso indigeni poveri, asserviti alla soddisfazione di ogni loro minimo desiderio. Questi ultimi sono una facile preda per le perversioni represse dei visitatori puritani del nord, che, in cambio dei loro servizi, li riempiono di mance, droghe e malattie. Il mostro, stordito da tale visione idilliaca, tira fuori la sua lingua acchiappa-uomini e lecca voluttuosamente le spiagge assopite sotto i palmeti, inghiottendo come fossero feti capanne e palazzi, strade e ferrovie, animali e uomini, senza distinzione né di razza né di religione.

Un’immagine questa che ci fa riflettere sul fatto che quando eravamo in grado di fare poesia sugli impeti della natura come facevano Omero e più di recente Leconte de Lisle o Giono, eravamo più disposti ad accettare la malasorte che poteva colpire chiunque in qualsiasi momento. Avevamo imparato, molto prima che lo dicesse Valéry, che le nostre civiltà non erano immortali ed interrogavamo il senso della storia che stavamo vivendo in quel momento. Il razionalismo arido di oggi, la fiducia nel progresso sterilizzano le immagini e privano l’uomo moderno di queste domande essenziali che davano un senso alla vita e ci facevano accettare il terrore come elemento essenziale della natura, l’angoscia come reazione umana. La soluzione a tutto la si trovava dentro ciascuno di noi (e non dallo psicologo), con il ricorso all’immaginario, collettivo ed individuale, quale terapia più affidabile.

Quante volte abbiamo sentito dire che è bastata l’irruzione della tragedia nel bel mezzo di un’esistenza calma per far capire al tale dei tali che tutti i suoi sforzi e desideri stavano andando nella direzione sbagliata, facendogli quindi cambiare radicalmente il suo modo di vedere la vita? Non è la scelta di uno stile di vita che è criticabile in sé, ma il fatto di subirlo passivamente per paura del cambiamento, per abitudine o per mancanza di immaginazione. Il sentimento tragico della vita non solo ci invita a restare sereni nella sfortuna inevitabile, ma ci insegna che l’irruzione del tragico può diventare una soluzione efficace al male di vivere, l’occasione per un nuovo inizio.

Così come succede agli individui, anche i popoli e le civiltà degenerano quando per molto tempo non si confrontano con prove spaventose che li costringono a rimettersi in gioco, a decidere del proprio destino. E’ ciò che sta succedendo all’Europa, in piena implosione, rosa dalla “grande depressione” (Elements, n. 114, autunno 2004: “perché questa società ci fa ammalare”) che tenta di rassicurarsi assistendo allo spettacolo della sfortuna altrui, in mancanza di grandi progetti, di lotte, di un destino esaltante che metterebbe i nostri popoli di nuovo in movimento. E’ con questo spirito consolatorio che si guarda con nostalgia agli episodi gloriosi (o percepiti come tali) della nostra storia: De Grulle, la Resistenza, Napoleone. La Francia langue in un’ Europa che a sua volta si nasconde meschinamente dietro gli Stati Uniti che…si sono impantanati nella missione iraco-palestinese e rifiutano di accettare che l’era della loro dominazione esclusiva sul mondo sta finendo. Il misero Occidente di oggi non ha più nemici alla sua portata dopo la caduta delle potenze comuniste; per cui maltratta piccoli tiranni un tempo al suo servizio (o a quello del nemico) che cerca di far apparire come pericolosi criminali: Noriega, Milosevic, Saddam Husein, Castro, Pinochet… Si inventa una guerra di civiltà (in cui le nostre ragazzine velate occuperebbero gli avamposti!) e scatena il brivido di un pericolo terrorista che miete un numero infinitamente minore di vittime rispetto alle aggressioni nei Balcani, in Afganistan, in Irak ed in Palestina. Tutto questo per rifiutare di accettare la nuova situazione internazionale in un mondo in piena mutazione. Eppure sarà necessario nostro malgrado, con o senza ONU, lasciare il giusto spazio alla Cina, all’India ed al Giappone senza il patrocinio statunitense nella gestione politica degli affari del mondo ed in particolari quelli che riguardano il loro grande spazio geopolitico. Sarà necessario far rientrare le pretese imperialiste dell’asse Washington-Tel-Aviv e far collaborare la media potenza iraniana con la Turchia ed i paesi arabi, verso un risanamento durevole e giusto della palude medio-orientale che minaccia di far saltare il pianeta. Noi Europei, da parte nostra, dovremo riconoscere il ruolo della Russia nell’Europa orientale e centrale in collaborazione con Parigi e Berlino e mettere fine alle manovre insidiose di Washington in Ucraina, nel Caucaso e nei Balcani. E’ necessario regolare con urgenza questi conti che si appesantiscono di anno in anno e più tardiamo più la nostra capacità di sopravvivere e di farci rispettare nella grande guerra civile internazionale, che ha sempre più le sembianze della terza guerra mondiale sarà minacciata.

UNA DROGA DEL NOSTRO TEMPO: LA VIRTUALIZZAZIONE DEL MONDO

La tsunamizzazione dell’informazione serve a farci dimenticare i problemi urgenti che ci aspettano, per privarci (noi europei) di volontà politica, per ridurci alla condizione di eterni satelliti della superpotenza. È un velo gettato dalla nostra coscienza sulla nostra civiltà terrorista (cfr. Jacques Marlaud, “La civiltà terrorista” in Interpellations, ed. Dualpha, Paris, 2004), che cerca di coprire i 100.000 morti causati dalla conquista statunitense dell’Iraq (cifra rivelata di recente dalla rivista scientifica britannica The Lancet), ai quali bisogna aggiungere le 500.000 vittime, soprattutto bambini, causate dall’embargo decretato da Washington contro questi Paese da diversi anni. Accanto a questi crimini, commessi in assoluta impunità e senza sollevare la minima compassione mediatica come successo per altri prima, da parte di coloro che pretendono di “portare la sicurezza e la democrazia nel mondo”, l’ondata che ha sommerso le coste del sud-est asiatico è ben poca cosa. Ma è arrivata a puntino per far dimenticare che i crimini contro l’umanità sono prima di tutto crimini dell’umanità e soprattutto, in questo momento, di quella piccola porzione occidentale, concentrata in America, che si autoproclama cittadella dei diritti dell’uomo.

La “tsunamizzazione” del mondo, cosi come la “binladenizzazione” (pretesto fondatore della politica internazionale attuale) allo stesso modo della “calcionizzazione” in occasione dei mondiali (e praticamente sempre sulle onde di France-info) come la “olimpiadizzazione” al momento dei giochi olimpionici (e molto prima con la selezione della città in cui si svolgeranno) serve alla sua virtualizzazione progressiva, vera droga intellettuale contemporanea, ancora più nociva di quella chimica, poiché intere popolazioni la ingurgitano a grandi dosi confondendola con la realtà del mondo. Essa spoliticizza, priva di senso e di un destino generazioni di giovani cittadini trasformandoli in consumatori passivi di eventi prefabbricati. Li incita a sentirsi sempre ed ovunque “tutti Americani”, come la Colombani e Sarkozy ed impedisce loro di riannodare con le tradizioni e gli ideali della “vecchia Europa”, i soli in grado di salvarci da questi venti di follia e di farci riscoprire uno stile di vita più sereno, atto a favorire un ricambio generazionale nelle nostre popolazioni, appesantite da un invecchiamento ed “infantilizzazione” programmati.

Di recente, Gilbert Comte diceva ai suoi studenti in scienze della comunicazione dell’Università Lyon 3 che non si può fare giornalismo come viene fatto oggi e restare uomini liberi. Non ci resta che un’alternativa: fare qualcos’altro o liberare il giornalismo dall’oppressione mediatica. In realtà le due scelte sono solo una. Si tratta di reimparare a vivere ed a pensare in modo autonomo, di non lasciare più che siano i mass-media a guardare il mondo al posto nostro, di diffondere la riflessione critica e di imporre una vera democrazia diretta contro l’onnipresenza del Big Brother.

Ci vorrà probabilmente del tempo ed assisteremo a tante infamie prima che i naufraghi della modernità possano approdare ad un’epoca abbastanza matura per una tale rivoluzione. Ma essere coscienti della sua necessità ce la rende già più vicina.

Jacques Marlaud
Fonte. http://www.grece-fr.net/textes/_txtWeb.php?idArt=438
Gennaio 2005

Traduzione per Comedonchisciotte.net a cura di Nicoletta Seccacini

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