DI MARIE-LAURE E ALEXIS LACROIX
Le Figaro
Intervista a Emmanuel Todd
Secondo il demografo, l’uragano Katrina ha rivelato lo stato di declino del sistema americano. Ingegnere ricercatore all’ Istituto Nazionale di Studi demografici, storico, autore di Après l’empire ( “Dopo L’impero” ), pubblicato da Gallimard nel 2002 – (Ed. italiana Tropea 2003) saggio in cui si predice il crollo del sistema americano – Emmanuel Todd esamina per Le Figaro le gravi falle messe in luce dall’uragano.
Le Figaro – Qual è la prima lezione morale e politica che possiamo apprendere dalla catastrofe provocata da Katrina? La necessità di un cambiamento globale nella nostra relazione con la natura?
Emmanuel Todd – Dobbiamo essere cauti ed evitare eccessi nell’interpretazione dei fatti. Non dobbiamo perdere di vista il fatto che stiamo parlando di un uragano di proporzioni eccezionali che avrebbe prodotto danni terribili ovunque. Un elemento che ha sorpreso una gran parte delle persone – l’emergere della popolazione di colore quale stragrande maggioranza tra coloro che sono stati colpiti dal disastro – personalmente non mi ha affatto stupito, avendo lavorato a lungo sui meccanismi di segregazione razziale negli Stati Uniti. So da tempo che la mappa della mortalità infantile negli USA corrisponde esattamente alla mappa della densità della popolazione nera. Quel che mi stupisce è piuttosto che gli spettatori di questa catastrofe abbiano improvvisamente scoperto che Condoleeza Rice e Colin Powell non siano icone particolarmente rappresentative della condizione dei neri d’America. La mia rappresentazione degli Stati Uniti – sviluppata in Aprés l’empire – trova un buon riscontro nel fatto che gli USA si siano rivelati incapaci e inefficienti. Il mito dell’efficienza e del super-dinamismo dell’economia americana è a rischio.
Abbiamo potuto osservare l’inadeguatezza delle risorse tecniche, degli ingegneri, delle forze militari messe in campo per fronteggiare la crisi. Il che ha sollevato il velo su un’economia americana globalmente percepita come assai dinamica, beneficiaria di un basso tasso di disoccupazione, accreditata da una forte crescita del PIL. A confronto con gli Stati Uniti, l’Europa appare piuttosto patetica, colpita da disoccupazione endemica e da una crescita anemica. Ma ciò che non si è voluto vedere è che il dinamismo degli Stati Uniti è essenzialmente un dinamismo dei consumi.
Il consumo domestico è stimolato artificialmente negli Stati Uniti?
L’economia americana è il cuore del sistema economico globalizzato e gli Stati Uniti fungono da considerevole pompa finanziaria, importando capitali per una ammontare compreso tra i 700 e gli 800 miliardi di dollari all’anno.
Questi fondi, dopo la ridistribuzione, finanziano il consumo dei beni importati – un settore davvero dinamico. Ciò che ha caratterizzato gli Stati Uniti per anni, è la tendenza a gonfiare il mostruoso debito commerciale, che si avvicina oggi a 700 miliardi di dollari. La grande debolezza di questo sistema economico risiede nel fatto che esso non poggia su una reale capacità industriale domestica.
L’industria americana è stata dissanguata e questo declino industriale costituisce la principale spiegazione della negligenza di una nazione di fronte ad una situazione di crisi: per gestire una catastrofe naturale, non c’è bisogno di sofisticate tecniche finanziarie, “opzioni call” che cadono in questa o quell’altra data, consulenti fiscali, o avvocati esperti nell’estorsione di fondi a livello globale, bensì di materiali, ingegneri e tecnici, così come di un senso di solidarietà collettiva.
Una catastrofe naturale sul territorio nazionale confronta un Paese con la sua identità più profonda, con le sue capacità di risposta sociale e tecnica .
Quindi, mentre il popolo americano ha dimostrato di essere concorde nel consumare insieme allegramente – essendo il risparmio domestico virtualmente pari a zero – in termini di produttività materiale, pianificazione e prevenzione a lungo termine, si è rivelato disastroso. L’uragano ha mostrato i limiti di un’economia virtuale che identifica il mondo con un gigantesco videogame.
E’ lecito collegare l’orientamento del sistema americano al profitto – quel “neo-liberismo” denunciato dai commentatori europei – e la catastrofe che ha colpito New Orleans?
La gestione della catastrofe sarebbe stata molto migliore nei vecchi Stati Uniti. Dopo la Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti assicuravano la metà dei beni prodotti sul pianeta. Oggi gli USA sembrano non saper che fare, impantanati in un Iraq devastato che non riescono a ricostruire. Gli Americani perdono un sacco di tempo a corazzare i loro veicoli, a proteggere le loro truppe. Devono anche importare munizioni leggere. Che differenza rispetto agli Stati Uniti della Seconda Guerra Mondiale, che, contemporaneamente, annientarono l’esercito giapponese con la loro flotta di portaerei, organizzarono lo sbarco in Normandia, riequipaggiarono l’esercito russo dell’armamento leggero, contribuirono magistralmente alla liberazione dell’Europa e riuscirono a tenere in vita le popolazioni tedesca ed europea liberate da Hitler. Gli Americani seppero come dominare l’uragano nazista con una padronanza di cui oggi essi si rivelano incapaci, di fronte a se stessi, in quella che è una singola area del loro stesso territorio. La spiegazione è semplice: il capitalismo americano di quell’epoca era un capitalismo industriale basato sulla produzione di beni, in breve, un mondo di tecnici e di ingegneri.
Non sarebbe più corretto riconoscere che non esistono più disastri puramente naturali, rigorosamente detti, per colpa della smodata attività umana? Non è forse il caso che l'”american way of life”, lo stile di vita americano, riformi se stesso? Ad esempio aderendo ai limiti imposti dal Protocollo di Kyoto?
Le società e gli ambienti naturali europeo ed americano differiscono in maniera radicale. L’Europa è parte di un’economia agricola antichissima, abituata a trarre la propria sussistenza dalla terra con difficoltà e con un clima relativamente temperato, al riparo da grandi catastrofi naturali. Gli Stati Uniti sono una società completamente nuova che ha avuto inizio con la coltivazione di fertilissime terre vergini nel mezzo di un ambiente naturale più minaccioso. Il suo clima continentale, molto più violento, non ha rappresentato un problema per gli Stati Uniti finché essi ne hanno tratto un concreto vantaggio economico, vale a dire, fin quando essi hanno avuto gli strumenti per tenere la natura sotto controllo. Allo stato attuale l’ipotesi di un ulteriore inasprimento della natura a causa dell’uomo non è neppure necessaria. Il semplice venir meno delle capacità tecnologiche di un’economia americana non più produttiva ha creato la minaccia di una Natura che non farà altro che riprendersi ciò che le spetta di diritto.
Gli Americani necessitano di maggior riscaldamento in inverno e di più aria condizionata d’estate.
Se un giorno dovessimo confrontarci con una miseria non più relativa ma assoluta, gli Europei si adatteranno meglio dato che il loro sistema di trasporti è molto più concentrato ed economico. Per quel che concerne spazio e consumo energetico, gli Stati Uniti sono stati concepiti in modo piuttosto approssimativo, quasi incosciente. E’ inutile puntare il dito contro il peggioramento delle condizioni naturali, ma piuttosto contro il deterioramento dell’economia di una società che deve confrontarsi con una natura più violenta. Europei e Giapponesi hanno dimostrato le loro eccellenti capacità di risparmio energetico durante le scorse crisi petrolifere. E c’era da aspettarselo: le società asiatiche ed europee si sono evolute confrontandosi con la scarsità e, in ultima analisi, le svariate decadi di abbondanza energetica appariranno forse, un giorno, come una parentesi nella loro storia. Gli Stati Uniti sono cresciuti nell’abbondanza e non sanno come gestire la penuria. Così ora si trovano a confrontarsi con l’ignoto. Ed i loro primi passi verso l’adattamento non sembrano molto promettenti: mentre gli Europei possiedono scorte di gasolio, le riserve americane sono costituite da petrolio grezzo – ed essi non costruiscono una raffineria dal 1971.
Quindi non se la prende solo con il sistema economico?
Non si tratta di un giudizio morale. La mia analisi è focalizzata sul crollo del sistema nella sua interezza. Après l’Empire sviluppa tesi che nel complesso erano piuttosto moderate e che oggi sono tentato di radicalizzare. Predissi il collasso del sistema sovietico sulla base dell’innalzamento del tasso di mortalità infantile nel periodo 1970-74. Oggi, i dati più recenti pubblicati in proposito dagli Stati Uniti – quelli del 2002 – mostrano un capovolgimento dei tassi di mortalità infantile per quel che riguarda tutte le cosiddette “razze” americane. Cosa dobbiamo dedurre da ciò? Innanzitutto, che dobbiamo evitare di esagerare il peso di un’interpretazione “razziale” della catastrofe Katrina e ricondurre ogni cosa alla “questione nera”, in particolare alla disintegrazione delle società locali e dei saccheggi. Il che significherebbe nascondersi dietro una facciata ideologica. Il saccheggio dei supermercati rappresenta solo la ripetizione, ai livelli più bassi della scala sociale, di uno schema predatorio che si colloca al cuore della società americana attuale.
Schema predatorio?
Il sistema sociale non si basa più sull’etica del lavoro e del risparmio calvinista dei Padri Fondatori bensì, al contrario, su un nuovo ideale (non oso parlare di etica o morale): la ricerca del compenso più alto con il minimo sforzo. Denaro acquisito rapidamente, tramite la speculazione e, perché no, il furto. Le gang di disoccupati neri che saccheggiano il supermercato e il gruppo di oligarchi che organizzano il “colpo del secolo” a danno delle riserve di combustibile iracheno condividono un principio d’azione comune: la rapina.
I malfunzionamenti di New Orleans riflettono alcuni elementi centrali dell’attuale cultura americana.
Lei postula che la gestione di Katrina riveli una preoccupante frammentazione territoriale unita al disinteresse dell’apparato militare. Che cosa dobbiamo temere per il futuro?
L’ipotesi di declino sviluppata in Après l’empire prospetta un semplice ritorno alla normalità negli USA, di sicuro non senza un calo del 15-20% nello stile di vita, ma garantendo alla popolazione un livello di consumi in linea con le nazioni più sviluppate. Quello che attaccavo era semplicemente il mito della super-potenza. Ma oggi temo di essere stato troppo ottimista. L’incapacità degli Stati Uniti di rispondere alla competizione industriale, il loro grave deficit nel settore dell’alta-tecnologia, il rovesciamento degli indici di mortalità infantile, l’invecchiamento dell’apparato militare e la sua inefficacia pratica, la persistente negligenza delle èlites mi porta a considerare la possibilità, a medio termine, di una crisi in stile sovietico degli Stati Uniti.
Una simile crisi sarebbe conseguenza della politica dell’amministrazione Bush, da lei stigmatizzata per i suoi tratti paternalistici e il suo darwinismo sociale? O le cause sono più strutturali?
Il neo-conservatorismo americano non è l’unico da biasimare. Quel che mi colpisce di più è il fatto che questa America, che incarna l’assoluto opposto dell’Unione Sovietica, è sul punto di produrre la medesima catastrofe per vie opposte. Il comunismo, nella sua follia, supponeva che la società fosse tutto e l’individuo nulla, una base ideologica che ha costituito la sua rovina. Oggi gli Stati Uniti ci assicurano, con la fede altrettanto cieca di uno Stalin, che l’individuo è tutto, il mercato è abbastanza e che lo Stato è odioso. L’intensità di tale fissazione ideologica è comparabile in tutto al delirio comunista. L’atteggiamento individualista e sperequatorio scardina la capacità di agire dell’America.
Per conto mio, il vero mistero risiede in questo: come può una società rinunciare al buon senso e al pragmatismo al punto tale da gettarsi in un processo di auto-distruzione ideologica di simili proporzioni? E’ un’aporia di ordine storico per la quale non ho spiegazioni, un problema che non si può far risalire soltanto alle politiche della presente amministrazione. Riguarda la società americana nel complesso, che pare lanciata in una politica “dello scorpione”, un sistema malato che finisce per iniettarsi il suo stesso veleno. Tale comportamento è sì irrazionale, ma non contraddice la logica storica. Le generazioni post-belliche hanno perso familiarità con la tragedia e con lo spettacolo di sistemi che si auto-distruggono. Ma la realtà empirica della storia umana è che essa non è razionale.
Marie-Laure Germon e Alexis Lacroix
Fonte: http://portland.indymedia.org
Link: http://portland.indymedia.org/en/2005/09/324921.shtml
12.10.05
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di WATU
Vedi anche:
Il crollo degli Stati Uniti: uno scenario