DI VALERIO LO MONACO
ilribelle.com
Qualche giorno addietro abbiamo commentato, in radio, alcuni dati sulla fruizione dell’informazione da parte degli italiani provenienti da uno studio recente del Censis dal titolo roboante: “L’evoluzione digitale della specie”. Vale la pena tornarci sopra anche per iscritto.
Tanto per iniziare, come sarà più chiaro a breve, quella della specie, in concomitanza – e forse anche grazie – all’avvento del digitale, cioè di internet, tutto appare fuorché una evoluzione. Anzi si può tranquillamente parlare di una involuzione. Almeno per quanto attiene all’Italia.
Partiamo dalla fine: gli italiani oggi si informano ancora meno di prima, e lo fanno in larghissima maggioranza sempre attraverso il mezzo che più di ogni altro, almeno negli ultimi decenni, ha sprofondato il livello culturale del nostro Paese negli abissi sui quali è inutile insistere: la televisione. Non solo, la cosa che desta maggiore preoccupazione, e che poi fa derivare una serie di ragionamenti logici di portata generale, è il fatto che anche tra i giovani lo strumento di informazione preferito sia il piccolo schermo: parliamo della fascia compresa tra i 14 e 29 anni che per il 75% preferisce la Tv. Cioè il segmento generazionale di chi teoricamente sarebbe più portato, per motivi anagrafici, ad abbracciare maggiormente i mezzi digitali. Questi ultimi sono i mezzi teoricamente in grado di allargare molto non solo la quantità di notizie cui è possibile accedere rispetto al passato, ma anche la tipologia e soprattuto la provenienza: il digitale, internet, abbattendo i costi di ingresso per chi emette informazione, ha aperto le porte a tutta una serie di nuovi media anche del tutto svincolati da pressioni politiche e da quelle delle lobby commerciali che avvengono attraverso la concessione, o la revoca, degli ingenti investimenti pubblicitari, che rendono possibile il mantenimento delle strutture più grandi e influenti. E che, ovviamente, influiscono sulla tipologia dei contenuti e sui toni dell’agenda setting dominante.
In altre parole, chi vuole informarsi diversamente e scegliere in un paniere più ampio di possibilità tra gli attori dell’informazione cui concedere la propria attenzione e la propria fiducia, oggi attraverso il web può farlo. Ma, molto semplicemente, non lo fa.
Il rapporto del Censis conferma il calo vertiginoso della carta stampata, ma allo stesso tempo riporta un altro dato che è a nostro avviso ancora più interessante: a fronte di una prima crescita di internet, con oltre il 10% di incremento tra il 2011 e il 2012, adesso si assiste a un incremento estremamente ridotto: il 90% in meno rispetto all’anno precedente. Nell’ultimo anno vi è stato un aumento di persone connesse del solo 1%.
Ciò significa che il crollo della carta stampata non ha generato alcun nuovo spazio informativo. Molto semplicemente: con la scomparsa dei giornali cartacei sono scomparsi anche i lettori di notizie. La gente ha smesso di informarsi. Oppure, e questo è un secondo elemento, ha scelto di assorbire la propria informazione attraverso altri mezzi. Tra i quali, come detto, ancora la televisione in modo preponderante. Si torna dunque grossomodo ai primi anni Novanta, con la novità, però, che a fronte di una discesa complessiva in merito al numero di persone che si informa, queste sono sostituite via via da generazioni che oltre alla televisione fanno poco altro che “passare il tempo su internet”.
Riflette Marco Tarchi, giustamente, che «sebbene ogni generazione abbia la facoltà di scegliere come e dove informarsi e passare il proprio tempo», l’esplosione dei social network, e di Facebook in primo luogo, non comporta solo una fruizione di internet che a molto serve ma certo non a informarsi, quanto una cosa ancora più importante: si perde attitudine e voglia a impiegare il proprio tempo per arricchire la propria formazione e conoscenza. Letteralmente, specifica i propri dubbi proprio riguardo a Facebook:
«Non tanto per idiosincrasia verso lo strumento in sé – di cui peraltro detesto non pochi aspetti, le cui conseguenze vedo con dispiacere abbattersi su alcuni amici – quanto perché non lo reputo adatto allo scopo. (…) I “social networks”, è comprovato e risaputo, creano sinergie psicologiche ma non stimolano né la lettura né la riflessione. Anzi: inducono a passare il proprio tempo libero in un modo più “piacevole” rispetto a quello offerto dall’approfondimento culturale.»
Approfondimento informativo e culturale del quale invece ci sarebbe bisogno. Ma la cosa costa “fatica”. Per questo, anche tra i più giovani, si preferisce la televisione. Che si subisce passivamente. Con tutto quello che ne consegue e che rileviamo costantemente nella cosiddetta società civile.
A questo punto il discorso si deve ampliare. Mentre il mondo si fa più complesso, le menti si semplicizzano. Oggi non ha alcun senso parlare di politica se non lo si fa in ottica geopolica. Inutile parlare di economia se non si apre lo sguardo sulla finanza, sulla globalizzazione e sulla geostrategia degli altri Paesi del mondo. Un solo esempio: chi parla di immigrazione senza parlare allo stesso tempo dei motivi che la causano sta nella migliore delle ipotesi perdendo tempo. Nelle peggiori non ha letteralmente idea di che cosa stia parlando né di ciò su cui sarebbe importante informarsi, conoscere e riflettere, per avere una opinione degna di questo nome. Figuriamoci per farsi portatore di istanze di tipo politico che poi, nel più classico (ma ormai del tutto desueto e ininfluente) dei meccanismi, dovrebbero sollecitare i partiti a farle proprie onde essere votati per legiferarle.
Brutalmente: la massa non ha idea di quello che succede, perché succede, e quali debbano essere i percorsi di ragionamento necessari e cercare delle soluzioni per risolvere i diversi problemi della nostra moderna complessità.
E allora, a questo punto: siccome questa massa è poi quella che sceglie, anche politicamente, non c’è alcuna possibilità che la selezione politica, mediante scelta dei cittadini, possa portare a ottenere delle formazioni e degli esponenti che siano poi in grado di prendere decisioni adatte allo scopo.
Voglio portare il ragionamento sino in fondo, senza infingimenti: a questa massa non dovrebbe essere permesso di esprimersi mediante il voto.
Ma attenzione, se è facile cogliere la più ovvia – e giusta – obiezione a una affermazione del genere, ovvero che il suffragio universale è una conquista e che non può essere tolto, è altrettanto facile, se la logica ha ancora un senso e non si è in conflitto con le parole, sostenere che esso, oltre che un diritto, deve essere anche un dovere. E per dovere, questo il punto, intendo il fatto di conoscere sul serio ciò su cui poi si andrà a esprimere il voto. In sintesi: hai pieno di diritto di votare a patto che tu conosca la materia sulla quale andrai a farlo.
Dare dunque una sorta di nulla osta a chi “dimostra di essere in grado” di votare? Esattamente. Perché a votare e a scegliere su temi tanto importanti non deve essere ammesso chi non ha la minima idea su cosa va poi a esprimersi.
Altra obiezione, facile tanto quanto quella precedente: “e chi dovrebbe darlo, questo nulla osta?”
Su questo si può discutere. Ed è giusto farlo. Ma prima una cosa: quest’ultima obiezione ammette implicitamente che sia giusto il merito dell’affermazione che la induce: chiunque si rende conto (anche quando non lo ammette pubblicamente) che sarebbe il caso che operazioni di un certo tipo vengano svolte solo da chi è in grado di farle. Su questo, se si è onesti, non c’è alcun dubbio. Nessuno di noi andrebbe sotto i ferri per un intervento chirurgico se a operarlo non fosse un medico chirurgo ma un arrotino, tanto per dirne una. Certo, anche un chirurgo può sbagliare. Ma ciò non significa che allora si conceda a chiunque di prendere il bisturi in mano.
Accade spessissimo, come suppongo a chiunque, di trovarmi in occasioni e circostanze di colloqui informali con persone che discettano su tutto. Alcuni si infervorano su politica, economia, governi…
Sentendoli parlare ci si accorge che non hanno la benché minima idea del tema del quale pensano di poter parlare. E non lo dico per una presunzione di superiorità nella materia, ma semplicemente perché è materia della quale, professionalmente, mi occupo e che studio ogni giorno da decenni. Ancora di più, si scorge immediatamente chi non fa che riportare fedelmente quello che ha ascoltato in televisione o ha letto, nella migliore delle ipotesi, sui vari giornali di partito e di corrente. Ma i peggio sono quelli che per il semplice motivo di non guardare la televisione e non comperare i giornali, “informandosi su internet” e “condividendo sui social network” (come se fosse una cosa migliore in sé) sono convinti di saperla lunga: per questi non ci sono dubbi, su nulla. E vanno dritti per la propria strada.
Ora, suppongo che tra chi legge in questo momento ci siano persone con vari interessi e con varie culture specifiche: musicisti, esperti d’arte, biochimici, programmatori software e via dicendo. Tutte materie, queste che ho preso solo come esempio, delle quali io ho nella migliore delle ipotesi una conoscenza superficiale. Di musica “credo” di conoscere più della media, sia per averla studiata, sia per il fatto di avere una curiosità innata all’argomento della musica classica e sinfonica: niente di che, sono anni che mi ci dedico, la ascolto e la studio, e avrò letto una cinquantina di libri in materia. Ma nulla di più. Qualcosa di simile per la storia dell’arte. E qualche infarinatura di programmazione software. Di biochimica, viceversa, non so assolutamente nulla.
Ebbene, che effetto sortirei se iniziassi a discettare qui di musica, arte, software o addirittura di biochimica? Chi legge, eventualmente reale conoscitore delle materie, penserebbe che sono un cialtrone. E a ragione. Figuriamoci se pretendessi di avere il diritto, e avessi la facoltà, di votare per scegliere il programma stagionale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Oppure i dipinti di una mostra d’arte o, peggio, i componenti di un nuovo farmaco anti-tumorale. Nutrirei il mio ego rivendicando un diritto (che per fortuna in questo caso non ho) ma creerei un danno a tutta la comunità.
Il senso è chiaro, ma voglio ribadirlo: è necessario, oggi più che mai in questo mondo complesso, che a prendere decisioni, fosse anche esprimersi mediante il voto democratico per eleggere i propri “rappresentanti in Parlamento”, sia ammesso solo chi è in grado di farlo. Ovvero chi conosce la materia. Caso per caso. Beninteso, non sto parlando solo di professori universitari di scienze politiche, economiche, geografiche, sociologiche (in molti casi, che dio ce ne scampi) ma di tutti: a patto che si abbia doverosamente raggiunto – mediante informazione e cultura – un livello almeno accettabile di conoscenza sull’argomento per il quale pretende di esercitare il diritto di esprimersi.
Si può discutere su quale debba essere questo livello. Si può discutere – e si deve farlo – su quale debba essere il mezzo per accertarsene. Ma non sul principio in sé. Abbozziamo una proposta: un questionario da riempire, con domande attinenti al tema, o ai temi, sui quali si è chiamati alle urne, potrebbe andare?
Oggi l’Italia è al ventiquattresimo posto, cioè l’ultimo, in uno studio recente dell’Ocse, sulla capacità dei cittadini di 24 paesi occidentali di comprendere un semplice testo nella propria lingua: ma a tutti i suoi cittadini è permesso di prendere decisioni su argomenti che ignora completamente. Basterebbe un questionario, alle elezioni Politiche, ad esempio, con qualche domanda generale se non altro sui contenuti dei programmi dei vari partiti. Che i più, anche in occasione del voto, non conoscono affatto.
Sono gli stessi che poi non si tirano indietro dal condividere la propria ignoranza su Facebook, ma che sulle sorti di tutti incidono eccome. Purtroppo.
Che dite, saranno maturi i tempi se non altro per poter discutere, senza essere tacciati di nulla, di un argomento così importante come questo?
Valerio Lo Monaco
Fonte: www.ilribelle.com
Link: http://www.ilribelle.com/la-voce-del-ribelle/2013/10/24/litalia-che-si-esprime-tra-diritti-e-doveri-e-una-provocazio.html
24.10.2013