L’ISTRUZIONE E LA POLITICA; UN TRENTENNIO DI DISASTRI

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DI MASSIMO FINI
Il Gazzettino

Nello scontro fra il governo Berlusconi, i suoi ministri Gelmini e Tremonti e gli studenti, gli universitari, i ricercatori, gli “assegnisti” è impossibile prendere posizione per gli uni o per gli altri. Perché in questo scontro vengono al pettine trent’anni in cui le varie classi dirigenti succedutesi al potere si sono completamente disinteressate della scuola, utilizzandola come area di parcheggio per semidisoccupati eternamente precari e come occasione per elargire i soliti, costosissimi, benefici clientelari. Ho viaggiato un po’ per mestiere e non ho mai visto in nessun Paese del mondo, e nemmeno del Terzo Mondo, trattare la scuola in maniera così irresponsabile. Se non altro perché qualsiasi regime ha interesse a educare i giovani ai propri valori e alle esigenze del Paese. In Marocco o in Tunisia, poniamo, i giornali locali sono pieni di dibattiti sulla scuola, sul sistema educativo, sui suoi contenuti, sui tempi di attenzione dei ragazzi a seconda delle età e così via, e anche in pieno deserto a mezzogiorno voi vedete spuntare, come d’incanto, con si capisce da dove, gli scolaretti con le loro cartelle.
Da noi nel dopoguerra, e per decenni, il ministero della Pubblica Istruzione è stato affidato al politico più insignificante della compagnia (ai miei tempi c’era Dalle Fave, chi era costui?) il quale si preoccupava solo di scaldare la sedia e di fare i soliti giochetti clientelari. Negli ultimi anni, diciamo da Giovanni Berlinguer in poi, i ministri della Pubblica Istruzione si sono fatti più attivi. Ma è stato forse peggio. Poiché siamo arrivati, bene o male, a un’alternanza dei governi e ogni ministro che si siede su quella poltrona cambia radicalmente l’impostazione del suo predecessore. Ora, una riforma della scuola deve essere progettata in una prospettiva perlomeno ventennale. La riforma Gentile è durata, giustamente, ben oltre la caduta del fascismo. E il liceo classico di Gentile, prima che arrivasse il ’68 ad azzerare e distruggere tutto (si sono salvate solo le materne che da noi sono ottime grazie all’abnegazione delle maestre), è stata la miglior scuola italiana, e non solo italiana, perché oltre alle nozioni dava gli strumenti per capire (se uno aveva fatto il classico e poi si iscriveva a Ingegneria faticava i primi due anni ma poi superava i suoi compagni che venivano dallo scientifico).

Se c’è un settore quindi dove ci dovrebbe essere una politica bipartisan, a lunga gittata, è quello della scuola. Invece questi, destra e sinistra, litigano su tutto e qualsiasi cosa faccia una parte l’altra lo considera sistematicamente sbagliato (il che, per il calcolo delle probabilità, è matematicamente impossibile).

I tagli decisi dalla coppia Gelmini-Tremonti sono necessari. Ma poiché si incistano su una cancrena trentennale rischiano di recidere la parte buona invece che quella malata e comunque di creare delle grandi iniquità. Prendiamo per esempio la situazione di un “assegnista”. È un ragazzo che ha fatto il dottorato di ricerca e poi ha ottenuto un contratto a termine di quattro anni (due più due), pagato. Per sette anni ha insegnato in Università, tenuto esami, fino a ieri coadiuvato e spesso sostituito per mesi il docente di ruolo. A ieri, finito “l’assegno”, il suo “barone” aveva il modo di fargli proseguire il suo lavoro in attesa di un concorso. Con i tagli della Gelmini questo non sarà più possibile. E allora questo giovane, che ormai di trent’anni e passa, resta a lavorare in Università gratuitamente (ma se lo possono permettere solo quelli che sono mantenuti dai genitori) o deve cercarsi un posto da cameriere, se lo trova. Lui ha perso sette anni di lavoro, la società un piccolo patrimonio di esperienza. Ma c’è di più, qualora questo giovane rimanesse a lavorare nell’Università a gratis, non avrebbe lo stesso la garanzia di entrare, in un decente futuro, in ruolo. Perché nell’ansia e nella necessità di sfoltire gli organici di concorsi se ne fanno pochi, ma anche se costui, alla fine, ne vincesse uno non avrebbe affatto la certezza di avere una cattedra perché prima devono essersene andati via, nella sua Facoltà o nel suo Dipartimento, cinque docenti. Ecco perché i giovani che possono, che operano cioè in discipline scientifiche dove maggiore è la richiesta e conta meno lo sbarramento della lingua, se solo se ne presenta l’occasione accettano qualsiasi ingaggio all’estero anche in Paesi del Terzo Mondo. In Italia non c’è solo la fuga dei “grandi cervelli” ma anche dei “cervellini”. E Terzo Mondo lo stiamo diventando noi.

Massimo Fini
Fonte: www.ilgazzettino.it
24.10.08

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