L'INFLUENZA CON LE ALI

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“La stampa britannica ha rivelato che il paese viene setacciato da funzionari in cerca di siti adatti per sepolture di massa, sulla base di timori ufficiali, secondo cui l’influenza dei polli potrebbe uccidere fino a settecentomila cittadini britannici.”

DI MIKE DAVIS

L’influenza aviaria ha spiccato il suo volo letale. Le prime oche a testa barrata sono già arrivate nella zona dove sverneranno, vicino al fiume Cauvery nello stato indiano meridionale di Karnataka. Nelle prossime dieci settimane altri centomila volatili, fra oche, gabbiani e cormorani, lasceranno la loro dimora estiva sul lago Qinghai nella Cina occidentale, diretti verso l’India, il Bangladesh, Myanmar, e infine l’Australia. Un numero ancora ignoto di questi stupendi uccelli migratori porterà con sé lo H5N1, il sottotipo di influenza aviaria che ha già ucciso sessantuno persone nell’Asia sudorientale e che, secondo i timori dell’Organizzazione mondiale della sanità, sarebbe sul punto di trasformarsi in una forma pandemica analoga a quella che ha ucciso fra cinquanta e cento milioni di persone nell’autunno del 1918.

Quando gli uccelli arriveranno nelle zone umide dell’Asia sudorientale, attraverso i loro escrementi il virus passerà nell’acqua, dove rischia di trasmettersi sia agli uccelli migratori acquatici provenienti dall’Europa sia al pollame domestico. Nello scenario peggiore, l’influenza aviaria giungerà fino alla soglia delle brulicanti bidonville di Dhaka, Kolkata, Karachi, e Mumbai.
I primi episodi della malattia sono stati individuati sul lago Qinghai alla fine di aprile da funzionari cinesi addetti al controllo faunistico.

All’inizio i casi erano confinati a un piccolo isolotto sullo smisurato lago salato, dove d’improvviso le oche hanno cominciato a muoversi spasmodicamente, crollando poi a terra, morte. A metà maggio, però, l’influenza si era già diffusa presso l’intera popolazione aviaria del lago, e aveva ucciso migliaia di uccelli. Un ornitologo ha definito la situazione come «il caso più grande e più estensivamente mortale di influenza mai riscontrato fra gli uccelli selvatici». In luglio, Yi Guan, responsabile di un ben noto team di ricercatori, all’opera fin dal 1997 contro la minaccia di una pandemia dell’influenza dei polli, ha denunciato al quotidiano britannico Guardian l’apatica reazione delle autorità cinesi di fronte alla conflagrazione biologica senza precedenti che ha avuto luogo sul lago Qinghai: «Praticamente non hanno preso nessuna misura per controllare l’attacco della malattia, mentre avrebbero dovuto chiedere un sostegno internazionale. Questi uccelli andranno in India e in Bangladesh e là incontreranno uccelli provenienti dall’Europa».

Yi Guan ha lanciato un appello perché venga creata una task force internazionale incaricata di seguire da vicino la pandemia aviaria, e al tempo stesso perché si allentino le regole che impediscono il libero movimento di scienziati stranieri nelle zone di contagio in Cina. E in una relazione pubblicata sulla rivista scientifica britannica «Nature», Yi Guan e i suoi collaboratori hanno anche rivelato che la varietà virale del lago Qinghai sarebbe da ricollegarsi a recenti casi di H5N1, ufficialmente non riportati, fra la popolazione aviaria della Cina meridionale. Non si tratterebbe della prima volta che le autorità cinesi sono state accusate di avere tenuto nascosto il focolaio di un’epidemia: in particolare, nel 2003 una coltre di bugie aveva coperto la natura e le dimensioni dell’epidemia della Sars. Come nel caso di coloro che avevano lanciato l’allarme per la Sars, oggi la burocrazia cinese sta cercando di mettere il bavaglio agli studiosi dell’influenza dei polli, chiudendo uno dei laboratori di Yi Guan all’università di Shantou e attribuendo nuovi poteri sulla ricerca al ministero dell’agricoltura, assai conservatore.

Nel frattempo, mentre gli scienziati indiani effettuano ansiosi monitoraggi dei santuari degli uccelli in tutto il subcontinente, l’H5N1 si è diffuso fino alle porte di Lhasa, la capitale del Tibet, alla Mongolia occidentale e, dato ancora più inquietante, ai polli e agli uccelli selvatici nei pressi della più importante città siberiana, Novosibirsk.

Nonostante sforzi disperati per segregare il pollame locale, gli esperti del ministero russo della sanità hanno espresso il loro pessimismo circa la possibilità di contenere la diffusione della malattia sul lato asiatico degli Urali. Ogni autunno gli uccelli selvatici siberiani migrano verso il Mar Nero e l’Europa meridionale, mentre altre rotte li conducono dalla Siberia verso l’Alaska e il Canada.

In attesa di questa prossima, forse inevitabile, tappa nel viaggio intorno al mondo dell’influenza aviaria, vengono effettuati tracciamenti sulla popolazione avicola di Mosca, mentre gli scienziati dell’Alaska studiano gli uccelli migratori sullo stretto di Bering e perfino gli svizzeri si guardano alle spalle, controllando le anatre morette e i moriglioni in arrivo dall’Eurasia.

Anche l’epicentro umano dello H5N1 è in espansione: a metà luglio le autorità indonesiane hanno confermato che un padre e le sue due giovanissime figlie erano morti di influenza aviaria in un sobborgo benestante di Djakarta. A rendere il caso più inquietante, non risulta che la famiglia abbia avuto contatti diretti con pollame, e gli abitanti del quartiere hanno attraversato una crisi di panico, quando la stampa ha ipotizzato la possibilità di una trasmissione fra umani. Nello stesso periodo, è giunta la notizia di cinque nuovi focolai fra il pollame in Tailandia, un dato che ha inferto un durissimo colpo alla campagna diffusa e assai propagandata che il governo aveva avviato per stroncare la malattia. Nel frattempo, mentre i responsabili vietnamiti rinnovavano il loro appello per un aumento degli aiuti internazionali, l’H5N1 reclamava nuove vittime nel paese che continua a suscitare le preoccupazioni maggiori all’Organizzazione mondiale della sanità.

La conclusione è che l’influenza aviaria è endemica, e con ogni probabilità impossibile da sradicare, fra il pollame dell’Asia sudorientale, e che la malattia sembra ora diffondersi a velocità pandemica presso gli uccelli migratori, con la minaccia reale che giunga a toccare la maggior parte della terra entro l’anno prossimo. Questa crescita esponenziale di «punti caldi» e di «serbatoi silenziosi» (come nel caso delle anatre, infettate, ma asintomatiche) è il motivo per cui il coro degli scienziati, dei responsabili della salute pubblica e infine anche dei governi è diventato così rumoroso e insistente negli ultimi mesi.

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All’inizio di agosto il nuovo responsabile statunitense della sanità, Mike Leavitt, ha dichiarato alla Associated Press che una pandemia influenzale rappresenta adesso una «assoluta certezza», riecheggiando così ripetuti allarmi dell’Oms, secondo cui si tratta di un evento «inevitabile». Analogamente, «Science» ha rilevato che secondo gli esperti le probabilità di una diffusione mondiale della malattia equivalgono al cento per cento.
Nella stessa ottica pessimista, la stampa britannica ha rivelato che il paese viene setacciato da funzionari in cerca di siti adatti per sepolture di massa, sulla base di timori ufficiali, secondo cui l’influenza dei polli potrebbe uccidere fino a settecentomila cittadini britannici. Il governo Blair sta già conducendo simulazioni di emergenza di una diffusione pandemica della malattia («Operazione Mare Artico») e sembra che per trattare la crisi dell’influenza aviaria sia già stato approntato «Cobra», un gruppo di lavoro a livello ministeriale che coordina la risposta del governo a situazioni di emergenza nazionale, come le recenti bombe di Londra, e che opera da una sede segreta a Whitehall.

A Washington si è ben lontani da questo atteggiamento britannico ereditato da Churchill. Sebbene si respiri un’atmosfera di grave crisi nei National Institutes of Health – dove il boss della pianificazione pandemica, Anthony Fauci, mette in guardia contro «la madre di tutte le infezioni emergenti» – la Casa Bianca sembra ancor meno preoccupata di fronte alle migrazioni della malattia di quanto non lo sia nei confronti dell’ingiustificata carneficina in Iraq.

Mentre il presidente stava preparando i bagagli per la sua lunga vacanza nel Texas, il Trust for America’s Health ha lanciato un allarme per segnalare che negli Stati Uniti le misure per far fronte a una pandemia sono molto indietro rispetto a quello che si sta facendo nel Regno Unito e in Canada, e che l’amministrazione Usa non è riuscita a «mettere in piedi una strategia coerente, rapida e trasparente verso la pandemia».

Il capo della maggioranza al Senato, il repubblicano Bill Frist, con il suo atteggiamento sempre più indipendente, aveva già criticato l’amministrazione in uno straordinario (e poco pubblicizzato) discorso tenuto ad Harvard all’inizio di giugno. In riferimento all’incapacità di Washington di immagazzinare scorte adeguate del farmaco antivirale più importante, l’oseltamivir (o Tamiflu), Frist ha sarcasticamente notato che «per acquisire quantità maggiori di agente antivirale, dovremmo metterci in coda dietro la Gran Bretagna e la Francia e il Canada e altri, che hanno già ordinato decine di milioni di dosi».

Anche il New York Times nel suo editoriale del 17 luglio, così come un numero speciale di «Nature» a maggio e il numero di luglio/agosto di «Foreign Affairs» hanno denunciato l’incapacità di Washington di immagazzinare quantità sufficienti di antivirali – le scorte attuali coprono l’un per cento della popolazione statunitense – e di modernizzare la produzione del vaccino. Anche alcuni importanti esponenti democratici hanno fatto sentire la loro voce, anche se nessuno in modo così aperto come Frist a Harvard.

Il Department of Health and Human Services, in risposta, ha cercato di placare le critiche aumentando fortemente i finanziamenti per la ricerca sul vaccino e per le scorte antivirali. E all’inizio di agosto molto si è parlato anche dell’annuncio di una serie di test riusciti per un vaccino sperimentale contro l’influenza dei polli. Ma non ci sono garanzie che il prototipo del vaccino, basato su una variante «retrogeneticamente costruita» dell’H5N1, sarà davvero efficace contro una variante pandemica con diversi geni e proteine. Inoltre, il successo del vaccino sperimentale si è basato sulla somministrazione di due dosi più un richiamo. Dato che il governo americano ha ordinato solo due milioni di dosi dal gigante farmaceutico Sanofi Pasteur, la protezione può coprire solo 450mila persone. Come ha detto un ricercatore a «Science», «questo è un vaccino per pochi fortunati».

Oltre tutto, la maggioranza del mondo – fra cui i paesi poveri del Sud asiatico e dell’Africa dove, la storia ci insegna, le pandemie colpiscono in modo particolarmente duro – non avrà accesso ai costosi antivirali o ai pochi vaccini esistenti. E non è neanche certo che l’Oms avrà una quantità minima di farmaci per far fronte a un attacco iniziale della malattia.

Recenti studi teorici di epidemiologi ad Atlanta e a Londra lasciano sperare che la pandemia si potrebbe bloccare sul suo percorso se si potessero utilizzare da uno a tre milioni di dosi di oseltamivir (Tamiflu) con cui circoscrivere la diffusione della malattia in un raggio di sicurezza intorno ai primi casi. Dopo anni di sforzi, però, l’Oms è riuscita solo a immagazzinare circa 123mila cicli di Tamiflu. Sebbene Roche abbia promesso di donarne altri, la disperata corsa dei paesi ricchi all’accaparramento di Tamiflu ridurrà di certo le possibilità dell’Oms di aumentare le proprie scorte. Quanto a un «vaccino mondiale» reperibile a livello globale, resta una chimera se non ci saranno dai paesi ricchi, e in particolare dagli Usa, nuovi impegni miliardari, e anche in questo caso, c’è il rischio che sia troppo tardi.

Mike Davis
Fonte:www.ilmanifesto.it
20.08.05

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