Intervista a Frances Stonor Saunders, autrice di un’inchiesta su come l’Intelligence americana finanziò intellettuali e artisti europei durante la Guerra fredda
DI GUIDO CALDIRON
«Nel pieno della Guerra fredda il governo degli Stati Uniti destinò grandi risorse a un programma segreto di propaganda culturale rivolto all’Europa occidentale (…) Un atto fondamentale di questa campagna segreta fu l’istituzione del “Congresso per la libertà della cultura” tra il 1950 e il 1967 (…) La sua missione consisteva nel distogliere l’intellighenzia europea dal fascino duraturo di marxismo e comunismo, in favore di una visione del mondo che si accordasse meglio con l’American way». Si apre con queste parole l’ampio studio che Frances Stonor Saunders ha dedicato alla strategia statunitense di influenza sul mondo della cultura europea, recentemente pubblicato da Fazi con il titolo di La guerra fredda culturale (pp. 506, euro 21,50). Abbiamo incontrato la giornalista a Roma in occasione della presentazione del suo libro.
La sua ricerca si basa su una vasta documentazione, apparentemente riservata, come è riuscita a metterla insieme?
In realtà si tratta di documenti conservati nei diversi archivi di Stato creati per ogni amministrazione della Casa Bianca nel luogo di nascita del Presidente, ad esempio a Abilene nel Kansas, dove era cresciuto Eisenhower, o a Lamar nel Missouri per Truman e via dicendo. In questi archivi si può accedere a documenti che sono stati progressivamente “declassificati” nel corso degli anni, oppure chiedere che vengano resi disponibili in quel momento, per la ricerca che si sta effettuando e così, dopo qualche settimana, si ottiene ciò di cui si ha bisogno. Si tratta perciò prevalentemente di documenti “pubblici” dell’amministrazione Usa. Oltre a questi, vi sono poi i documenti raccolti negli archivi dei diversi membri di quello che potremmo definire come un “consorzio” privato che lavorava con la Cia su singole parti del progetto complessivo, in fondazioni o istituti di varia natura.
Ma come funzionava questo progetto?
Come dicevo, in questi archivi privati ci sono forse cose ancora più interessanti, che però non sono mai state coperte da segreto, e che mostrano come funzionasse il sistema. Vi si trova infatti traccia di istituti e fondazioni fantasma, che esistevano solo sulla carta e per i quali venivano stanziati dei fondi che finivano invece per altri scopi. E già all’epoca dei fatti alcuni giornalisti avevano capito che qualcosa non funzionava semplicemente esaminando le dichiarazioni fatte da questi organismi al fisco: emergeva infatti come vi fossero fondazioni per gli handicappati del Texas che finanziavano orchestre a Berlino o istituti culturali di New York che si occupavano unicamente di trovare fondi per riviste europee. Un agente della Cia mi ha detto una volta che questo sistema era un po’ come una radio, nel senso che bastava guardare dietro l’apparecchio per scoprire tutti i fili e i collegamenti. Solo che per molto tempo non si è guardato dietro a questa “radio”.
Quando e perché l’intelligence americana decise di mettere in piedi questa operazione “culturale”?
Siamo intorno al 1949/50 e il governo americano si rende conto che la Guerra fredda è soprattutto uno scontro di natura psicologica, certo ci sono gli aspetti economici, politici e militari dello scontro con l’Urss, ma è sul terreno delle idee che si gioca la partita decisiva. La Casa Bianca pensa di essere rimasta indietro in questo campo, si accorge che i sovietici hanno costruito fin dagli anni Trenta un “fronte culturale” in Europa e cerca di rimediare a questo ritardo. Quest’idea monta nella Cia come nel Dipartimento di Stato e la stessa Agenzia decide di costruire una divisione speciale per le operazioni psicologiche e culturali. Nella stessa Cia c’è chi non crede a questa scelta, pensando di dover continuare a puntare sullo spionaggio piuttosto che sulle ipotesi eversive, ma la struttura, alla fine, viene messa in piedi.
Eppure in Italia quando si pensa alle attività della Cia nell’immediato dopoguerra viene in mente la struttura di Gladio, la rete Stay Behind, e, più tardi, il coinvolgimento dell’intelligence statunitense nella stessa Strategia della tensione. Come si conciliavano aspetti così diversi di intervento?
Intanto si deve ricordare come il debutto del programma “culturale” della Cia verso l’Italia arriva dopo le elezioni del 1949 vissute dagli Usa con grande apprensione. All’epoca, personaggi come William Colby, futuro capo della Cia, giravano per il vostro paese con valigie piene di soldi per sostenere ogni candidatura anticomunista. Poi, la strategia divenne più sofisticata. Fu costruita una rete di fondazioni che convogliavano il denaro verso iniziative culturali, riviste e via dicendo. E non tutti i destinatari di questi fondi erano al corrente del fatto che arrivassero dalla Cia. Quanto al rapporto di questo programma con il resto delle operazioni dell’intelligence americana in Italia e in Europa, non credo si possa parlare di un elemento totalmente separato. Nel senso che la strategia della Stay Behind in Europa comprendeva vari elementi e il finanziamento di alcuni settori culturali nei diversi paesi ne era parte. L’obiettivo esplicito era quello di influenzare le scelte politiche del vostro paese, un paese alleato degli Usa ma considerato a rischio per la presenza di un forte Partito Comunista.
Ma come avveniva il finanziamento?
Non stiamo parlando di una struttura segreta o nascosta come la P2, ma di un apparato in qualche modo pubblico. Se nell’immediato dopoguerra i soldi arrivavano davvero anche dentro le valigie, poi è stato per il tramite del Piano Marshall che la Cia ha avviato i propri canali di finanziamento. Forse non è noto a tutti come il 5% dei fondi del Piano fossero classificati “off budget”, direttamente a disposizione della Cia che li utilizzava per i suoi programmi in Europa.
Ma i finanziamenti della Cia quanto hanno potuto influire sulle scelte fatte all’epoca da artisti e intellettuali europei?
Credo sia il quesito centrale che pone la mia ricerca. Ma la risposta non può essere unitaria, nel senso che dipende un po’ da caso a caso e dipende, ovviamente, dal destinatario della domanda. Per la Cia l’impatto dell’operazione è stato infatti enorme e ha costituito il primo passo verso il crollo successivo del sistema sovietico. Sottrarre all’influenza dell’Urss una parte del mondo culturale dell’Europa occidentale era lo scopo dell’intervento, che per l’Agenzia è riuscito. Non credo però che le scelte fatte ad esempio dagli intellettuali che si sono allontanati dal comunismo in Europa o in Italia, magari per restare nel campo della sinistra ma su posizioni antisovietiche, siano state influenzate dall’arrivo di questi fondi. Piuttosto credo che la Cia scegliesse bene i propri interlocutori, sceglieva cioè coloro che già si erano schierati contro l’Urss. Il fatto è che alcune pubblicazioni, penso ad esempio alla rivista “Tempo presente”, diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, senza quei soldi avrebbero chiuso. Il finanziamento creava così un mercato altrimenti inesistente per far circolare idee che la Cia non controllava, ma che finivano per servire la sua stessa causa. La Cia non ha inventato un solo concetto specifico, filosofico o politico, ma ha inventato un “cartello”, un sistema per cercare di influenzare la cultura. Come ha spiegato un ex capo dell’Agenzia, negli Stati Uniti non è mai esistito un Ministero della cultura e così le sue funzioni ha finito per svolgerle la Cia.
Quest’idea della cultura e delle idee come uno strumento di guerra è tornata d’attualità con la comparsa alla Casa Bianca dei “neocon”. Non è forse un caso se tra i nomi che ricorrono nella sua inchiesta c’è quello di Irving Kristoll, considerato tra i padri di questa corrente della nuova destra americana. Quale fu il suo ruolo allora?
Sì, la traiettoria ideologica di Kristoll, come di altri, è una chiave per capire come funziona oggi la politica estera statunitense. Kristoll in quel periodo imparò cosa significava “gestire un’idea” come fosse un prodotto. Costruire una fondazione e intorno ad essa produrre riviste, seminari, incontri con persone che non sono necessariamente coinvolte nell’intero progetto ma che ne condividono anche solo un segmento. E in questo modo allargare il circuito di continuo. Il modello di questa strategia è proprio ciò che fu tentato in chiave anticomunista negli anni Cinquanta e Sessanta e che oggi torna nei think thank dei neoconservatori che mettono insieme intellettuali, media e settori del potere di Washington. Di fondo c’è l’idea che la cultura possa essere una sorta di estensione della politica del governo americano.
Guido Caldiron
Fonte.www.liberazione.it
30.11.04