DI GIANLUCA FREDA
Blogghete!
L’uomo produce il male come le api il miele (James Ellroy)
Popolo, lo sai che se’ tu? Sei ‘na monnezza! (Alberto Sordi in “Nell’anno del Signore”)
Vi invito a leggere (anche se non ho il tempo di tradurlo tutto) l’interessante articolo di Hans- Hermann Hoppe che trovate a questo indirizzo. Hoppe è professore di economia all’Università del Nevada, collaboratore del Journal of Libertarian Studies ed autore del libro Democrazia: il Dio che ha fallito (edito in Italia da Liberilibri).
Un libro profondamente “antidemocratico”, nel senso che è permeato del rifiuto dell’idea consolatoria secondo la quale la democrazia e il liberalismo sarebbero, pur tra tanti difetti, i parametri politico-filosofici del migliore dei mondi possibili. Hoppe fa a pezzi questa illusione, con un’acutezza e una spietatezza che fanno bene all’animo e all’intelligenza del lettore. Traggo dall’articolo la sola prima parte, che già si presta a qualche considerazione interessante:
“Una delle affermazioni più largamente accettate dagli economisti politici è la seguente: qualunque monopolio è dannoso dal punto di vista dei consumatori. Il monopolio, nella sua accezione classica, è concepito come un privilegio esclusivo garantito ad un singolo produttore di un determinato bene o servizio, cioè come assenza di libero accesso ad un determinato settore della produzione. In altre parole, una sola azienda, A, può produrre un determinato bene, x. Ogni monopolista di questo tipo è dannoso per i consumatori poiché, essendo protetto dall’ingresso di potenziali nuovi concorrenti nel suo settore di produzione, il prezzo del prodotto di monopolio x risulterà più alto e la qualità di x più bassa che nel caso contrario.
Questa elementare verità è stata spesso invocata come argomento in favore dei governi democratici in opposizione al governo classico, monarchico o del principe. Questo perché in democrazia l’accesso alle strutture di governo è libero – chiunque può diventare primo ministro o presidente – mentre in una monarchia esso è ristretto al re e ai suoi eredi.
Tuttavia questo argomento in favore della democrazia ha una pecca fatale. Il libero accesso non è sempre una cosa positiva. Il libero accesso e la competizione nella produzione di beni sono un bene, ma la libera competizione nella produzione di mali non lo è. Il libero accesso al business della tortura e dell’assassinio di innocenti, oppure la libera competizione nel settore della contraffazione e della frode, ad esempio, non sono cose positive; sono il peggiore dei mali. Perciò che tipo di “business” è quello di un governo? Risposta: non è un ordinario produttore di beni venduti a consumatori volontari. E’ invece un “business” che si occupa di furto e di espropriazione – per mezzo di tasse e falsificazioni – e di recinzione di beni rubati. Dunque, il libero accesso al governo non produce risultati positivi. Al contrario, esso peggiora i problemi, cioè incrementa la malvagità”.
Ora, condividendo in pieno le conclusioni di Hoppe relative agli effetti della libera concorrenza sul governo degli Stati, devo aggiungere che non vedo il motivo per cui le stesse conclusioni non possano essere applicate alla libera concorrenza nella produzione industriale. Se si è restii a farlo, è solo perché si è ancora legati a una concezione ottocentesca dell’attività produttiva che, da molti decenni, non ha più riscontro nella realtà dei fatti. L’intero apparato industriale globale, oggi, lucra, prospera e liberamente compete sulla produzione diretta di mali. L’industria farmaceutica, per esempio, in realtà non produce farmaci e strumenti curativi, bensì malattie vere o fasulle su cui lucrare con farmaci veri o fasulli. Ha inventato l’immensa bufala dell’Aids e contemporaneamente ha fatto di tutto per incrementare la diffusione di quella vasta casistica epidemica spacciata per malattia unica (l’Aids, appunto). E ciò al solo scopo di vendere i propri intrugli miracolosi: test per l’HIV che danno tre risultati diversi se fatti in tre giorni diversi e prodotti “curativi” che sono meno utili del rito del sale di Wanna Marchi. Una delle più recenti invenzioni dell’industria farmaceutica è l’epidemia di meningite in Veneto che, pubblicizzata a dovere da quell’autentico nucleo terroristico di Stato che sono i media mainstream, ha spinto migliaia di italiani creduli e impauriti ad acquistare l’improbabile “vaccino” contro il morbo, prontamente distribuito dai dulcamara multinazionali.
L’industria della sicurezza, per fare un altro esempio, non produce sicurezza. Produce paura e terrore che convincano gli individui ad acquistare sistemi di difesa dei quali, senza il terrorismo organizzato delle industrie che li producono, non avrebbero nessun bisogno. Lo Stato d’Israele (in collaborazione con i suoi infiltrati nel governo USA) ha progettato e realizzato gli attentati dell’11 settembre 2001, che hanno generato paura globale, che ha generato a sua volta profitti stratosferici per le molte compagnie israeliane che fabbricano prodotti per la “difesa” (vedi questo articolo di Naomi Klein).
Le aziende produttrici di OGM, come la Monsanto, non producono nuovi sistemi di coltivazione: producono razionamento e devastazione dei semi e delle colture tradizionali, che costringano i coltivatori ad acquistare i loro semi brevettati e utilizzabili per un unico raccolto.
Il mercato immobiliare produce, attraverso la lievitazione artificiale e spropositata della domanda, la carenza di un bene essenziale come l’abitazione, affinché le case esistenti possano essere vendute a peso d’oro. E così via.
Anche l’industria ottocentesca era fonte di un’infinità di mali. Tuttavia questi mali (lo spopolamento delle campagne, l’ammassarsi di torme di diseredati in città degradate e ammorbate di fumi pestilenziali, ecc.) erano un semplice effetto della produzione di beni, non l’oggetto diretto dell’attività industriale. La fabbrica ottocentesca fabbricava prodotti tessili, siderurgici o chimici (beni) e incidentalmente, con tale attività, contribuiva alla devastazione del territorio in cui operava (mali). Ma la devastazione era solo un effetto collaterale di un’attività che offriva, per altri versi, un certo benessere alla collettività nel suo complesso.
Con l’inizio del XX secolo, ci fu una prima svolta: la produzione non mirava più ad offrire beni alla collettività, bensì a vendere una quantità di bisogni, che erano, da un lato, futili e superflui, e dall’altro così ampi da non poter essere mai soddisfatti. Era uno dei capisaldi del modello Ford: creare una quantità infinita di necessità artificiali che generassero una dipendenza infinita del consumatore-schiavo. Questo modello industriale potrebbe già essere facilmente ricondotto a quello attuale, della fabbrica produttrice di mali a scopo di lucro. La moltiplicazione pubblicitaria delle necessità umane che vada, oltre un certo limite, al di là dei bisogni naturali è in sé un male. Produce ansia, stress, desiderio di competizione, inimicizia, insoddisfazione, sopravvalutazione degli oggetti e disprezzo per le persone. Chiunque di noi conoscerà qualche famiglia che ha rinunciato a mettere al mondo dei bambini per potersi comprare la Mercedes o la casa al mare. Ma esisteva ancora, in questa metodologia, un limite che andava valicato. Dai bisogni prodotti ci si poteva pur sempre, con la giusta dose di intelligenza e forza di volontà, liberare. L’impulso irrazionale all’acquisto di stracci griffati e videoregistratori con miliardi di funzioni insignificanti metteva a rischio la sanità mentale dell’uomo, ma non attentava ancora alla sua biologia. Un punto debole da eliminare.
Si è riusciti ad eliminarlo con un’intuizione semplice e geniale: quella di trasformare le aziende produttrici di beni futili in aziende produttrici di pura e semplice spazzatura. L’uovo di Colombo. Del bisogno era ancora possibile liberarsi gratis, oppure adattarsi ad esso come ad una malattia inguaribile e fastidiosa, ma non letale. Ma la monnezza mette a rischio la tua stessa sopravvivenza biologica e non puoi conviverci. Se vuoi liberarti della monnezza, devi pagare. La monnezza è oro per tutte le aziende che sappiano produrla e non esiste ormai una sola azienda che non abbia imparato a gestire questo semplice ed economico ciclo produttivo.
Scrive Maurizio Pallante in La decrescita felice: “La produzione è un’attività finalizzata a trasformare le risorse in rifiuti attraverso un passaggio intermedio, sempre più breve, allo stato di merci”. La merce, in quest’accezione, non è altro che monnezza grezza che va raffinata al più presto, affinché si possano ricavare dal prodotto finito i meritati e lucrosi profitti imprenditoriali. Da questo punto di vista, la Cina è un modello produttivo d’avanguardia che ogni azienda del mondo cerca di studiare e imitare. Le sue radioline che si azzittano dopo due giorni, le sue batterie vendute già scariche, i suoi televisori al napalm, i suoi giocattoli che vanno in pezzi mentre sei ancora intento ad aprire la confezione sono progetti altamente innovativi che riducono al minimo il periodo d’attesa che separa il godimento del bene acquistato dal ritorno al ventre caldo e accogliente del cassonetto.
Napoli è la città più ricca e produttiva dell’intero Occidente industrializzato. La sua monnezza è abbondante, di ottima qualità e ricercata da tutti i più importanti mercati internazionali. La Germania commissiona con gioia alla città partenopea la produzione di tonnellate di fetenzia che vengono poi smaltite, con mirabili profitti, nelle sue efficientissime discariche. La Cina ne riceve tonnellate, prodotte in gran parte dalla raffinazione dei suoi prodotti grezzi, potendo così vantare il proprio primato di alfa e omega in questo importante ciclo produttivo. Non è un caso che la maggior parte dei container cinesi diretti in Europa con il loro carico di televisori esplosivi e pile scariche arrivino proprio nel porto di Napoli, che funge così anche da centro di smistamento del prodotto non raffinato. Lo scorso 24 novembre Antonio Bassolino ha incontrato ad Amburgo Wei Jafu, il potente leader della flotta cinese Cosco, ottenendo da lui l’impegno ad investire 80 milioni di euro nel nuovo terminal container di Napoli. E poi qualcuno osa dire che Bassolino non si cura della prosperità economica della regione che governa! Come scrive Roberto Saviano, la monnezza di Napoli è una miniera d’oro che sa elargire ad ogni imprenditore capace e coraggioso il giusto tornaconto. Il mitico nord-est italiano fa affari d’oro con lo smaltimento dei rifiuti campani. La camorra gode del suo enorme tornaconto concorrendo liberamente con le imprese nazionali e internazionali nello smaltimento a prezzi stracciati attraverso le proprie discariche abusive (o in mancanza di meglio nel primo posto che capita a tiro). In tutta la Campania è un fiorire di discariche a cielo aperto, moderne e redditizie. Potremmo dire che l’intera Campania non è altro che un’unica, colossale e attrezzatissima discarica. Non mancano le commissioni di inceneritori e discariche pubbliche che offrono ai politici e agli imprenditori ad essi legati la possibilità di investimenti ad alto profitto.
Anche l’indotto prospera. La Campania produce, più di ogni altra regione italiana, una vasta gamma di tumori al pancreas, ai polmoni, ai dotti biliari e ad ogni più recondito recesso dell’apparato biologico umano che permettono la proliferazione di centri oncologici e la vendita dei relativi macchinari e prodotti protocollari, con grande soddisfazione di appaltatori, primari con il cognato in comune e multinazionali del farmaco. Secondo Roberto Saviano: “La rivista medica The Lancet Oncology già nel settembre 2004 parlava di un aumento del 24% dei tumori al fegato nei territori delle discariche e le donne sono le più colpite. Val la pena ricordare che il dato nelle zone più a rischio del nord Italia è un aumento del 14%”. Insomma, Napoli e le sue montagne di zoza rappresentano un’autentica risorsa nazionale, che va potenziata e valorizzata.
Questa è l’industria del XXI secolo, questi sono i settori in cui la libera concorrenza può esplicare la propria benefica spinta al ribasso dei prezzi e alla qualità totale. I poveri di spirito obietteranno che un territorio ridotto ad un’unica, ciclopica fabbrica di rumenta finirà per diventare inadatto alla sopravvivenza biologica di qualunque specie animale, uomo compreso. Obiezione sciocca. Topi e gabbiani non sono forse vita animale? E poi a che serve vivere se non si può godere, almeno per un attimo nella vita, del gracchiare languido e agonico di quelle deliziose radioline cinesi?
Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.blog.dada.net/
Link: http://blogghete.blog.dada.net/archivi/2008-01-08
8.01.08