DI GIANLUCA FREDA
Blogghete!!
Com’era bello il fascismo! Quando c’era il mascellone le crisi finanziarie e borsistiche avevano sull’economia italiana lo stesso effetto di un terremoto in Giappone. Tante pagine di giornali dedicate alla catastrofe, interventi pensosi di insigni naturalisti, un sacco di chiacchiere sul tram tra impiegati morti di sonno. Ma alla fine dei conti, le conseguenze pratiche sulla vita quotidiana si riducevano, per l’italiano medio, ad uno spettacolo pirotecnico a cui assistere incuriositi tenendosi a debita distanza. Questa beata strafottenza verso le crisi internazionali non era dovuta, in realtà, alle doti del mascellone, né ad una posizione internazionale dell’Italia particolarmente solida in economia. Al contrario, era proprio la povertà dell’Italia di allora, la sua struttura ancora semirurale, il suo isolamento commerciale ed economico, a permetterle di guardare alle crisi globali con la stessa curiosità disinteressata con cui si assisterebbe ad una lontana eruzione solare. Il Duce non era che l’espressione ruspante di questo felice provincialismo, che teneva l’Italia lontana dai luculliani banchetti del capitale, ma anche dalle dolorose indigestioni.
Oggi tutti i giornali parlano di una crisi economica “simile a quella del 1929”. Sta arrivando il 1929! Il 1929 è già qui! E’ la nuova Grande Depressione! A questi inguaribili ottimisti vorrei dire che non sanno di cosa stanno parlando. Nessun italiano lo sa. Una crisi come quella del ’29 qui da noi non c’è mai stata. Ci sarà adesso, per la prima volta nella nostra storia e nessuno sembra avere un’idea chiara di ciò che ci aspetta. Nel 1929 la nostra produzione industriale non poteva crollare, essendo pressoché inesistente. La disoccupazione era diffusa, ma endemica e connaturata. Nessuno si stupiva di vedere un povero né essere poveri era cagione di particolare discredito sociale. Siccità e grandinate erano pericoli più temuti della recessione e la stessa parola “recessione”, in un paesetto come l’Italia fascista, non aveva un gran significato. Nessuno temeva di perdere la casa, perché le case, per chi le aveva, erano da generazioni un bene appartenente alla famiglia, non ad una banca creditrice di mutui quarantennali. Chi non possedeva una casa, aveva comunque una scelta: poteva imparare l’arte edilizia e costruirsela da solo, dove trovava spazio; oppure poteva restare a dormire sotto uno di quegli splendidi ponti edificati dal programma di sviluppo urbano del Ministero dei Lavori Pubblici. A tutti coloro che si sono battuti per entrare ad ogni costo nella rutilante giostra del capitalismo globalizzato – perché l’economia rurale, si sa, era una cosa brutta e antiquata – faccio i miei migliori auguri di buona e duratura crisi economica. Sarà una nuova esperienza d’apprendimento, che permetterà ai nostri dotti economisti della domenica di parlare di argomenti sperimentati sul campo, anziché proferire teoretici vaticini fondati sul nulla negli inserti borsistici dei rotocalchi.
In un certo senso, siamo stati, ancora una volta, relativamente fortunati. La nostra economia è declinata a poco a poco negli ultimi vent’anni ed è rimasto ormai ben poco che crollando possa fare rumore. Le grandi aziende sono state svendute, i piccoli imprenditori lottano già da anni contro il fisco vampirico e lo spettro del fallimento, i nostri servizi pubblici sono già una fogna e lo sono sempre stati, la disoccupazione è un concetto relativo per chi ha un lavoro precario, un lavoro a progetto, un mezzo lavoro pagato a ore. Sarò incosciente, ma mi aspetto solo cose buone da questa crisi. Come cantava Bob Dylan: “When you’ve got nothing, you’ve got nothing to lose”. L’esplosione del bubbone immobiliare, annunciata da anni, è l’inizio di un processo di guarigione del corpo sociale, che – se siamo fortunati – potrebbe perfino passare, non dico per la morte del capitalismo in sé, ma almeno per il decesso doloroso e meritatamente orrendo, di questo capitalismo farlocco; un capitalismo che non ha più alcun capitale alla sua base, ma solo cartaccia moltiplicata all’infinito per produrre e acquistare altra cartaccia. Tonnellate e tonnellate di immondizia azionaria che si riverseranno, all’improvviso, sulle nostre teste ignare. Ma guardate il lato positivo: potremo finalmente dare una ripulita e più radicale sarà la pulizia, meglio sarà per tutti. Da oggi in poi – se siamo saggi – accoglieremo ogni spacciatore di fetenzie finanziarie con gli onori che si merita: mezzo chilo di pallettoni dritto nella zona pelvica. Le banche, quelle che sopravviveranno, torneranno a essere banche, non puzzolenti suq di spazzatura azionaria venduta come investimento.
Questo disastro finanziario globale è la fine di un incubo. L’economia globale era, da anni, un cadavere vivente, morto e marcito, tenuto in piedi, come fosse vivo, da continue iniezioni di liquidità. Si prendeva il corpaccione decomposto, lo si puntellava con miserabili tagli di mezzo punto ai tassi d’interesse, se ne liftava alla meno peggio il volto scarnificato e scheletrito con profluvi di chiacchiere sulla crescita e sul liberismo, poi gli si faceva fare “ciao” al popolo bue muovendogli con i fili la manina ossuta. E tutti lo riverivano, si sdilinquivano, rispondevano al saluto con un sorriso fino alle orecchie: “Ciao, simpaticone, ciao”. La fine di questo accanimento necrofilo sui resti mortali della Grande Bufala è una notizia che infonde speranza. Significa che dovremo metterci insieme, spremere le meningi, inventare nuovi modelli economici, liberarci una volta per tutte delle nozioni preconcette – la Crescita del Pil! La Moneta Unica! Il Rispetto dei Parametri di Maastricht! – che ci hanno trascinato giù per lo scarico insieme alla merda cartacea a cui avevamo affidato i nostri destini. Dovremo liberarci del dollaro, dovremo fare piazza pulita del liberismo opprimente che ci ha asfissiato per trent’anni, dovremo – qui ci vorrà coraggio – lasciare affondare i capitani americani con la loro nave di cartone e appropriarci, a pistolettate, di tutte le scialuppe disponibili. Oppure dovremo, semplicemente, sparire nel consueto buco nero della storia. Lì dentro, saremo in compagnia delle innumerevoli civiltà che non hanno saputo reagire, per sopravvenuta decerebrazione, ad una banale crisi economica e potremo attendere, con fiduciosa pazienza, i buoni barbari che arriveranno puntuali, ancora una volta, a sostituire gli imperi caduti nella trappola della loro stessa stupidità terminale. Anche questa non sarebbe una prospettiva disprezzabile. Come ci si sente a restare da soli? Come ci si sente a non avere una casa a cui tornare, come un perfetto sconosciuto, come una pietra che rotola?
Ragazzi, ci si sente da dio.
Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.blog.dada.net/
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9.10.08