LIBIA, IL LEONE FERITO: MA NON E' DETTA L'ULTIMA PAROLA …

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DI CLAUDIO MOFFA

Per mancanza di tempo l’articolo che segue è stato compilato in due fasi: il primo paragrafo e l’inizio del secondo risalgono – integrazioni e aggiornamenti a parte – a sabato e domenica scorsi. Il resto l’ho concluso oggi. Lascio invariato il testo iniziale, perché ritengo che non confligga con l‘apparizione delle prime foto e video citati da me come inesistenti: la mia tesi è che è stata l’enfatizzazione e invenzione mediatica ad aver prodotto i fatti reali di cui ad alcuni servizi televisivi di stamane. La partita sembra però ancora aperta: il discorso di Gheddafi alla TV, in cui si invita il popolo a schiacciare i rivoltosi sta ribaltando l’incertezza dei primi giorni, anche se la repressione frontale costituisce un segnale più di debolezza che di forza del rais. Tutto può ancora accadere in Libia, la cui crisi presenta come scrivo nell’articolo un segno di tipo diverso rispetto agli eventi egiziani. Una sorta di risposta-pendant alla deriva in fieri pro-palestinese (e non ostile all’Iran: vedi il passaggio delle navi di Teheran a Suez) de Il Cairo.C’è qualcosa che non torna nel racconto delle vicende libiche: le stragi, gli aerei, i cecchini, i mercenari, le notizie che si susseguono ci dicono che la crisi del regime è profonda quanto mai era stata in quarantuno anni di potere di Gheddafi. Ma quel che non si capisce è quale sia la percentuale di informazione “drogata” che punti a favorire una soluzione vincente della crisi secondo le aspettative dei ribelli e dei loro potenti sostenitori esterni. C’è infatti uno scarto non indifferente fra le unità di notizia e i video da una parte, e le cifre sparate con titoli cubitali dalla stampa e dai telegiornali di mezzo mondo. Tutti i video mostrano in genere non più di alcune decine di persone nelle strade: perché non c’è nemmeno una foto di cellulare con almeno una ventina-trentina cadaveri a terra, delle centinaia di ammazzati dal regime? Testimoni riferiscono, scrive la BBC, di aerei Testimoni riferiscono, scrive la BBC, di aerei che bombardano i civili, e di mercenari che fanno strage di manifestanti: sono uomini di Gheddafi o sono terzi soggetti che alimentano la guerra civile secondo il modello delle proteste elettorali in Iran di due estati fa?

E poi ancora: alcune finestre in fiamme, senza che si veda l’edificio nella sua interezza non si sa dove e quando sono state riprese. Il filmato con alcuni orribili cadaveri carbonizzati è curioso, di nuovo un capannello di persone e poi i resti delle vittime come trasportati ed esposti su teloni militari. Su Al Jazira, un altro post che sembra un filmato, ma in realtà è una foto con nel sottofondo un anonimo libico di Tripoli che dice che Gheddafi e i suoi sono “mostri”. Ancora, foto di feriti in ospedale ma non si sa quale ospedale e feriti quando. E video di mercenari africani che non dicono nulla, pochi fotogrammi forse girati addirittura su un aereo.

Leggete poi i giornali: i titoli sparano bombardoni, gli articoli parlano in genere di “testimoni” (che) “riferiscono”, e sono infiorati da condizionali e da forse: vedi la fuga di Gheddafi in Venezuela. Vedi i prima due poi quattro piloti disertori e atterrati a Malta,che nessuno ha ancora intervistato; vedi i tre ministri che si sarebbero dimessi. La cautela dunque sembrerebbe d’obbligo, come del resto si deduce dall’intervista dell’ambasciatore libico all’ONU di Ginevra che, abbandonato il regime di Gheddafi, ha dichiarato a Rai News ieri mattina che “la situazione è estremamente critica”, che si è di fronte all’ “estrema crisi del regime”, che “Gheddafi non ha più nulla in mano”, senza fornire però una sola cifra delle vittime vere o presunte. Un lavoro “sporco” da affidare all’anonimato mediatico in rete, nelle tv e sulla stampa, non da compiersi da parte di un alto diplomatico con aspirazioni probabili a diventare ministro nell’era post-gheddafiana.

2) Si è di fronte dunque ad uno scarto notevole fra i dati di fatto certi e quella che potrebbe essere chiamata una sovraesposizione mediatica, onde per cui ponderare la profondità della crisi del regime libico è molto difficile. Attenzione però, è la stessa enfatizzazione mediatica a far crescere le difficoltà di Gheddafi: è un lavorio intelligente, che va a combinarsi con il pressing antiGheddafi dell’Europa e soprattutto – a fronte di un Obama silenzioso negli ultimi giorni – di Hillary Clinton, ministro degli esteri di quella stessa potenza che per iniziativa di Obama ha avallato o contribuito alla defenestrazione del presidente-dittatore del vicino Egitto. Ecco dunque i segnali concreti di sgretolamento del regime ai suoi vertici, i tre ministri e il diplomatico di cui sopra e probabilmente alcuni ufficiali e soldati dell’esercito. La partita è ancora aperta fra voci di diserzioni o di ammutinamenti diffuse in Occidente senza veri riscontri fattuali, e la possibilità che tutto precipiti con un colpo di mano o un attentato mirato. L’incognita non è solo l’esercito, ma gli equilibri fra i diversi apparati politico-militari, ad esempio i Comitati rivoluzionari costruiti nella fase più radicale della “rivoluzione” gheddafista.

3) Un dato però sembra certo: nella crisi del regime hanno operato fino ad oggi più fattori esterni che interni, e all’interno meno le contraddizioni sociali (la Libia ha un reddito procapite alto) che quelle regionali, a cominciare dall’antica contrapposizione fra Cirenaica e Tripolitania, con Tripoli epicentro della parte più moderna, laica e “occidentalizzata” del paese e la Cirenaica tradizionalista e pervasa da tendenze islamiste. Una contrapposizione che può esser fatta risalire addirittura all’epoca precristiana, con l’ovest gravitante verso Cartagine e l’est colonizzato dai Greci collegato all’Egitto, e che ha attraversato nei secoli la storia libica. Bengasi è quasi sempre stata la roccaforte del conservatorismo e della reazione: persino l’eroe della resistenza libica all’occupazione italiana, il senussita e signore del deserto Omar al Mukhtar, ebbe a dire nel corso del processo del 1931 che lo avrebbe condannato all’impiccagione: “Io disprezzo e odio le genti di Bengasi, che del resto mi disprezzano e mi odiano”. In questi giorni, lo sventolio della bandiera di re Idriss su un edificio del capoluogo cirenaico la dice lunga sul segno dell’opposizione della parte orientale del paese al governo di Tripoli; e sulla sua radicalità, perché lo spettro che si profila è una secessione, una spaccatura del paese in due. Problema anche questo drammaticamente attuale dopo la sciagurata secessione del sud del Sudan da Karthum, ma allo stesso tempo di vecchia data: già all’indomani della seconda guerra mondiale, i confini sedimentatisi con la conquista italiana del 1911 e poi con l’espansione nell’interno desertico degli anni Trenta, erano stati messi in discussione: mentre l’Italia sosteneva il mantenimento dello status quo confinario della sua ex colonia, la Francia aspirava alla separazione del Fezzan dalla costa, recuperabile al controllo della sua colonia ciadiana; e l’Inghilterra all’ “indipendenza” della Cirenaica, da raccordare all’Egitto. Vinse l’opzione sostenuta da Roma, ma i rapporti tra Tripoli e Bengasi sarebbero rimasti sempre problematici e negli ultimi due decenni resi più difficili dalla diffusione, come già detto, di un islamismo avversario della laicizzazione del paese promossa da Gheddafi fin dal colpo di stato antimonarchico del 1969.

4) Chi dentro e fuori la Libia sta cercando di rovesciare Gheddafi? Internamente oltre al fattore Cirenaica e ai nostalgici del vecchio regime monarchico, e oltre alle antiche contrapposizioni etniche e di clan, ci sono le nuove espressioni sociali e politiche della svolta di mercato avviata da Gheddafi stesso con la cosiddetta “primavera” della fine degli anni Ottanta, secondo una tendenza e uno schema di cui è noto il modello-tipo cinese: vale a dire, le forze più o meno “borghesi” liberate dall’apertura al mercato chiedono cambiamenti anche di tipo istituzionale, cercando di introdurre modelli di stampo occidentale nel paese.

Ecco dunque il pesante e decisivo fattore esterno, esplicitamente richiamato nel discorso di Gheddafi di ieri dai riferimenti all’Afghanistan e a Tien An men: è l’oltranzismo occidentale, quello che pretende di esportare con la violenza delle armi la democrazia in tutti i paesi non graditi, come già tentato senza successo in Iran e in parte in Egitto, ad essere estremamente attivo nell’opera di destabilizzazione della Libia di Gheddafi. In pratica, e nonostante la dichiarata difesa di Mubarak da parte del rais di Tripoli nei giorni della rivolta in Egitto, gli eventi libici costituiscono una sorta di pendant, di controtendenza rispetto a quelli de Il Cairo: qui non solo la partita è aperta, ma è caduto un leader nettamente pro israeliano, da cui la prospettiva di una potenziale deriva “pro-palestinese” del corso degli eventi della quale il passaggio per Suez di due navi militari iraniane, su concessione del Cairo, costituisce un segnale chiaro.

In Libia, la Clinton sta cercando di riequilibrare in senso opposto, dando in pasto a Israele e all’oltranzismo occidentale un loro nemico storico, appunto la testa di Gheddafi. Un obbiettivo non da poco, perché la Libia svolge un ruolo importante in almeno tre decisivi scacchieri: nel Mediterraneo con la sua funzione di filtro dell’immigrazione senza regole in Italia e in Europa, e di tampone nei confronti di quello che viene definito rischio “fondamentalista”, un fenomeno sociale e religioso che dovrebbe essere articolato e compreso meglio ma che in Libia ha i contorni certi dell’oscurantismo reazionario. C’è poi l’Africa, continente nel quale Gheddafi si è impegnato dopo le delusioni subite nel mondo arabo e dove la Libia, cofondatrice assieme al Sudafrica dell’Unione africana, ha una voce autorevole in capitolo, fino a denunciare con forza – un paio di anni fa – il ruolo di Israele nella nelle tante guerre del continente (vedi Qui)

Infine il Medio Oriente: la campagna feroce di una parte della stampa araba contro Tripoli proprio in questi giorni indica che Gheddafi – un leader nato, al seguito di Nasser, convinto panarabista – ha molti nemici nella sua naturale regione di appartenza. Ma la Libia fu anche fra i paesi che parteciparono a fianco del rappresentante di Hamas, al vertice panarabo successivo alla guerra di Gaza del 2008-2009. Nonostante dunque il suo “moderatismo” Gheddafi ha dato segnali di sensibilità rinnovata nei confronti della causa palestinese. Come si concili poi questo quadro complesso con l’alleanza di ferro con il governo Berlusconi è apparentemente difficile a capirsi: ma le vie della politica ufficiale e “visibile” non sono sempre quelle dei fattori strategici più o meno “nascosti”: ci sono enormi interessi economici in ballo – la Libia, paese marginale per i rifornimenti petroliferi all’Italia ai tempi di Mattei risulta oggi il primo fornitore di greggio dell’ENI, senza contare il gas e altri prodotti strategici –, c’è il nodo chiave dell’immigrazione, ci sono le partecipazioni dirette di Tripoli a settori chiave dell’economia italiana (UniCredit ad es.) e c’è anche da ricordare probabilmente qualche aneddoto italiano: come lo sgarbo di Gheddafi a Fini che lo aspettava al Campidoglio durante la sua visita di stato del 2009, una sorta di anticipazione “parallela” del futuro scontro fra il Presidente del Senato e il Presidente del Consiglio. Da leggere attentamente anch’esso, al di là dei contenziosi a sfondo personalistico.

Claudio Moffa
23.02.2011

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