''Libertà e civiltà nascono dal basso''

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Intervista a: Howard Zinn

Howard Zinn, professore emerito di scienze politiche alla Boston University, è uno di quegli americani che incarnano un’America diversa di quella rappresentata dai Bush e dai loro elettori. Un «radical», attivo e informato, autore di una ventina di volumi, il più famoso dei quali è un manuale scolastico di storia, A People’s History of the United States (1980), rivolto a ragazzi dai tredici ai diciassette anni. In questo libro – che ora arriva in Italia pubblicato dal Saggiatore con il titolo Storia del popolo americano (traduzione di Erica Mannucci, pagine 510, euro 22,00) – si dice, per esempio, che Cristoforo Colombo non era un santo e che la conquista dell’America non è stata un’impresa eroica, ma una serie di massacri. Zinn nega che l’America possa definirsi una nazione pacifica: a parte i fenomeni più eclatanti, dai genocidi di fondazione agli stermini di massa perpetrati con le bombe atomiche, ricorda gli orrori della Corea e del Vietnam; l’invio di truppe nella Repubblica domenicana; gli aiuti al dittatore indonesiano Suharto a sostegno della sua guerriglia interna contro l’opposizione; il sostegno all’invasione indonesiana di Timor Est, nel ’75; il sostegno ai mujaeddin in Afghanistan, già nel 1978, prima dell’invasione sovietica, nella consapevolezza che tali aiuti avrebbero scatenato proprio quell’invasione; con Reagan l’invasione di Grenada; con Bush, nel 1989, Panama, poi la prima Guerra del Golfo, e poi ancora bombe sul Sudan, sull’Afghanistan e sull’Irak… E poi ci sono le oscure «guerre umanitarie», e le operazioni clandestine per rovesciare governi sgraditi, dall’America Latina all’Iran. E ancora, la repressione interna, il razzismo e la limitazione della libertà di dissentire. Aver ricordato tutto questo lo ha reso inviso a molti. Ogni tanto, i genitori degli alunni che studiano sul suo manuale si indignano, e accusano l’autore di mancanza di patriottismo (ma Zinn replica con Samuel Johnson: «Il patriottismo è l’ultimo rifugio del mascalzone»).

Nel suo saggio precedente, Non in nostro nome, Zinn si è occupato del rapporto tra l’America e la guerra (e la pace). Cominciamo dalla guerra: Zinn scrive che non esistono «incidenti» di guerra, così come non esistono bombe «intelligenti». Zinn racconta che nel 1945, dall’alto del suo bombardiere, ha scaricato contenitori di napalm su un paese della Francia: «Non ho idea di quanti abitanti siano morti, ma non era mia intenzione ucciderli. Posso davvero assolvermi sostenendo che è stato un “incidente”?».

Per quanto riguarda la pace, Zinn è fermamente convinto che ogni conquista di civiltà dipende molto più dalla società civile che dalle iniziative dei governanti, politiche o militari che siano: «la guerra ha sempre diminuito la nostra libertà. Quando si è incrementata la libertà, non è stato per merito della guerra o di qualcosa compiuto dal governo, ma dipendeva da ciò che avevano fatto i cittadini. Non è stato il governo a dare la spinta al movimento contro lo schiavismo, ma gli abolizionisti neri e bianchi. Non è stato il governo a dare l’avvio alla battaglia contro la segregazione razziale negli anni cinquanta e sessanta, ma gli abitanti del Sud. Non è stato il governo a dare la libertà di lavorare otto ore al giorno invece di dodici ore, sono stati i lavoratori stessi a organizzarsi in sindacati, a fare scioperi e fronteggiare la polizia. La stessa cosa andrebbe ripetuta per il rifiuto della guerra».

«People’s History of the United States», un libro di grande successo per gli studenti delle scuole superiori, viene oggi pubblicato anche in Italia. Che cosa distingue questo libro da altri libri di testo per le scuole? Quali erano i suoi obiettivi quando lo scrisse?

«Non scrissi il libro solo per gli studenti delle scuole superiori e dei college, ma anche per il grande pubblico. Per questo l’ho scritto nel modo più chiaro e semplice possibile. Desideravo offrire un’alternativa ai libri di testo ortodossi che narravano la storia degli Stati Uniti dal punto di vista dei presidenti, dei leader politici, degli industriali, dei generali. Volevo analizzare la nostra storia dal punto di vista degli indiani, dei neri, dei lavoratori, delle donne, di ogni tipo di oppositore radicale e dissidente».

A volte il suo libro è stato accusato di non essere «patriottico». Gli europei contemporanei sono, nella maggior parte dei casi, sorpresi dal patriottismo americano. Ritiene che il patriottismo sia un valore? Che vada distinto il patriottismo dal nazionalismo?

«Esiste un falso patriottismo che è nazionalistico, che colloca il proprio paese in posizione superiore a quella degli altri, e che considera l’obbedienza al governo come patriottismo. Il vero patriottismo consiste nella fedeltà non al proprio governo, ma al proprio paese, al popolo, ai principi che il paese dovrebbe rappresentare».

In quanto americano, lei ha alle spalle una tradizione culturale che arriva fino a «Democrazia e educazione» di Dewey, una tradizione che oggi sembra persa. Ritiene che una buona educazione sia un efficace strumento politico?

«Una buona educazione è un’educazione alla cittadinanza, che insegna ai giovani a partecipare attivamente e criticamente nel mondo, che non dà risalto all’avere “successo” nel senso tradizionale del termine, non dà importanza all’inserimento nella società, ma alla trasformazione della società».

Nel suo libro precedentemente tradotto in italiano, «Non in nostro nome», sostiene che la società civile costituisce il principale fattore di trasformazione politica e sociale. Persone come Mary Kaldor o John Kean hanno scritto dei libri sulla società civile globale come risposta alla guerra. Lei concorda con tale posizione? Che cosa risponderebbe a quei critici che affermano che una società civile non può essere un’alternativa alla sovranità dello Stato, perché deve poter fare affidamento sullo Stato (ad esempio, non può governare un Paese e ha bisogno di uno Stato per difendersi dagli attacchi militari)?

«Sono d’accordo sul fatto che la società civile globale rappresenti una risposta alla guerra, dal momento che crea il tipo di solidarietà transnazionale che previene la mobilitazione di un popolo contro l’altro da parte dei governi. Lo Stato può assolvere funzioni utili nell’offrire servizi sociali, ma non si dovrebbe dipendere da esso per difendere il popolo da un attacco. Lo Stato userà infatti la parola “difesa” per giustificare l’attacco degli altri, come hanno fatto continuamente gli Stati Uniti. Se la gente viene attaccata, è capace di organizzare la propria difesa più efficacemente del governo, e con motivi più onesti del governo, che in realtà non è interessato a difendere il popolo ma a difendere il proprio potere».

Negli ultimi anni, i neo-cons e la destra politica hanno sottratto alla sinistra la sua capacità tradizionale di sognare un mondo diverso. Apparentemente la sinistra mira a riforme e modifiche sociali di carattere limitato, mentre la destra è capace di presentarsi come la forza che può interpretare la «storia», che può incarnare un «destino». Non sembra che i cosiddetti neo-progs siano in grado di offrire alternative attraenti rispetto alla destra. Parlano dell’«egemonia» americana invece della supremazia americana, del multilateralismo invece dell’unilateralismo, ma nulla che possa essere veramente considerato come un’alternativa attraente rispetto allo status quo. Ritiene che questo quadro sia realistico, o pensa che negli Stati Uniti stia succedendo qualcosa di diverso?

«Negli Usa non bisogna confondere i cosiddetti liberal, persone come John Kerry e i Clinton, con i rappresentanti della sinistra. La sinistra esiste al di fuori dei due partiti principali, non è fortemente organizzata ma è fatta di milioni di americani che non accettano il capitalismo, non accettano il potere delle multinazionali, non accettano le guerre, che lottano per la parità dei diritti per i neri e le donne e per un ambiente di qualità decente. Hanno un’alternativa allo status quo ma non hanno alcuna opportunità di presentarla tramite il processo politico, che è monopolizzato dai due partiti principali. Per questo espongono le proprie opinioni in media alternativi come giornali, riviste, stazioni radio, stazioni televisive via cavo e su Internet. Vengono ignorati dai media e pertanto sembrano invisibili ma esistono».

Fonte:www.unita.it/
Link:http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=
ARKINT&TOPIC_TIPO=I&TOPIC_ID=43241
20.06.05

Traduzione di Andrea Spila

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