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DI MASSIMO FINI
Il Gazzettino

Siamo circondati da un’opulenza vistosa, esibita, sfacciata, volgare e offensiva, ribadita ed enfatizzata ogni giorno dai media, che mortifica e umilia noi del ceto medio che nel frattempo, per quanti sforzi di lavoro si facciano, tendiamo inesorabilmente ad essere risucchiati nel gorgo dei “nuovi poveri”.
È un’opulenza di cui, sempre più spesso, si fa fatica a capire origini o ragioni e che ha poco o nulla a che fare con la ricchezza borghese di un tempo.

Max Weber e Werner Sombart hanno magistralmente descritto le attitudini del borghese d’antan: individualista, inquieto, industrioso, attivo, anzi iperattivo, razionale, calcolatore, metodico, ordinato, costante, doverista, frugale, moderato, parsimonioso, timorato di Dio e, infine, amante del rischio economico ma «con juicio». E tuttavia c’è una caratteristica che più di ogni altra qualifica il borghese delle origini e per un lunghissimo tempo. Non è la sete di guadagno in sè e per sè. È che orienta, in modo sistematico, tutta la sua vita al guadagno attraverso il duro lavoro. È questa, in estrema sintesi, quell’«etica protestante del capitalismo» di cui parla Max Weber.Un giorno chiaccheravo con Pizzinato, sindacalista socialista, che per due anni fu anche a capo della Cgil (era troppo una persona perbene per rimanerci più a lungo e lo cacciarono). Aveva lavorato in Borletti e vi aveva guidato, senza sconti, le dure lotte sindacali degli anni ’50. Ma parlava dei «padroni», dei Borletti con grande rispetto. «Perchè ruscavano» come diciamo noi a Milano. Entravano in fabbrica un’ora prima degli operai e ne uscivano un’ora dopo. Angelo Rizzoli jr mi ha raccontato che quando era giovane apprendista nell’azienda che porta tuttora il suo nome, si presentò alle 4 di pomeriggio di un venerdì nell’ufficio di suo nonno, Angelo Rizzoli senior, e gli disse: «Commenda (lo chiamavano così anche in famiglia, ndr), vorrei fare il week end a St. Moritz e vorrei partire ora perchè se aspetto ancora un pò troverò una coda interminabile». E “il Commenda” rispose: «Se tu credi di poter lasciare l’azienda un’ora prima degli altri puoi anche non ripresentarti lunedì».

Questa era l’etica di una borghesia ormai scomparsa. Non che non ci siano tuttora piccoli e medi imprenditori che “ruscano” da mane a sera (e il Nordest ne è un buon esempio), ma a parte che fanno un’enorme fatica, tartassati come sono, a mantenersi a galla e non sono loro che danno il tono a questa società. I Vip dell’opulenza sono altri, finanzieri dalle dubbie origini, avvocati d’affari, mediatori, faccendieri e i personaggi dello show-business tv. È il mondo del denaro facile, fatto senza sudore o vero talento. Alla signorina Gregoracci era stato offerto, per partecipare a «Il Grande Fratello», un milione di euro, cifra che un professore universitario non guadagna in tutta la vita. Ma sono i Ricucci, le Gregoracci & C. i protagonisti su cui il pubblico, con una sorta di masochistica autofagocitazione, si getta per carpirne pettegolezzi, lussi e amori. Non potendo entrare in quel mondo vuole almeno guardarlo dal buco della serratura. Perchè chi ne è fuori non esiste.

Un tempo, in fondo non tanto lontano, nei Cinquanta, almeno in Italia, si poteva essere poveri. Non era una colpa nè una disgrazia. Non si dubitava che si potesse essere poveri e felici. Poi la proposizione divenne “poveri ma felici” («Poveri ma belli», forse qualcuno ricorderà) e in quel “ma”, congiunzione avversativa, c’è già tutta una mentalità. Oggi, semplicemente, chi è povero non può essere felice, senza se e senza ma. Ecco perchè la gente cerca di far soldi in tutti i modi, con tutti i mezzi, non importa quali, non importa a che prezzo. Un soggetto totalmente amorale come Fabrizio Corona ne è un prototipo. E, visto come stan le cose, riesce persino difficile dargli tutti i torti.

Massimo Fini
Fonte: http://www.massimofini.it
Uscito su “Il gazzettino”
il 29/06/2007

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