L’estraneo che osserva: il carcere di Cesare Pavese

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di Ilaria Palomba
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Come Harry per Hesse, così Stefano per Pavese rappresenta un alter ego. D’altronde anche i protagonisti di La luna e i falò, Paesi tuoi, e di altri romanzi di Pavese presentano un forte parallelismo con l’autore. Il carcere è un romanzo breve o racconto lungo pubblicato nel ’49, dieci anni dopo la stesura. Viene qui narrata l’esperienza del confino, non si tratta solo di un esilio in un luogo distante ma anche di un esilio da sé stesso, che porta l’autore a descrivere Brancaleone, il paesino della Calabria in cui è confinato, come fatto di deserto e pareti invisibili; persino il suo mare rappresenterebbe una quarta parete, simile al carcere. Anche qui, come nel testo precedentemente analizzato (Il lupo della steppa di Hermann Hesse), ritroviamo il tema centrale su cui stiamo lavorando: la difficoltà del rapporto con gli altri e l’incomunicabilità.

Stefano seduto davanti al sole della soglia ascoltava la sua libertà, parendogli di uscire ogni mattina dal carcere. Entravano avventori all’osteria, che talvolta lo disturbavano. A ore diverse passava in bicicletta il maresciallo dei carabinieri.

L’immobile strada, che si faceva a poco a poco meridiana, passava da sé davanti a Stefano: non c’era bisogno di seguirla. Stefano aveva sempre con sé un libro e lo teneva aperto innanzi e ogni tanto leggeva.

Gli faceva piacere salutare e venir salutato da visi noti. La guardia di finanza, che prendeva il caffè al banco, gli dava il buon giorno, cortese.

– Siete un uomo sedentario, – diceva con qualche ironia. – Vi si vede sempre seduto, al tavolino o sullo scoglio. Il mondo per voi non è grande.

– Ho anch’io la mia consegna, – rispondeva Stefano. – E vengo da lontano.

La guardia rideva. – Mi hanno detto del caso vostro. Il maresciallo è un uomo puntiglioso ma capisce con chi ha da fare. Vi lascia perfino sedere all’osteria, dove non dovreste.

Il protagonista Stefano, proprio come Pavese, è condannato per antifascismo, dopo il carcere, si diceva, segue un anno di confino, nel quale scoprirà per altro di essere stato tradito dalla donna che aveva difeso. Certo, dovrà adattarsi a un contesto culturale che non gli è per nulla familiare: i ritmi lenti del sud, ritrovarsi negli stessi luoghi ogni giorno (una locanda in questo caso), restare imprigionato in una mentalità contadina, retrograda, dove ogni cosa è sulle bocche di tutti; il fatto di essere perseguitato dal personaggio che gli hanno dipinto addosso: l’ingegnere, colui che ha studiato insomma, e per questo non essere mai completamente accolto tra gli adulti del paese.

A Brancaleone le donne non si vedono, tenute recluse come in un paese islamico. E in ciò già si nota quel divario, quella differenza di culture che pervade l’intero romanzo come sentore di incomunicabilità, se non proprio estraneità, tra il protagonista e gli altri, i cui nomi vengono spesso citati ma si dimenticano facilmente poiché la vicenda, seppur in terza persona, è una storia d’introspezione, ombre, fantasmi personali. Lo scambio non si compie, nemmeno quando gli parleranno dell’altro confinato, l’Anarchico, per cui prova una qualche spinta simile alla compassione, ma resta sospesa perché nessuno laggiù ha la forza di comprendere, e Stefano vive in tale sospensione. Inoltre ha gusti insoliti, proprio all’inizio del confino si accorge di una serva giovane e selvaggia, Concia, che definisce “bella come una capra”, confessandolo agli altri, a Giannino più di tutti, che è in un certo senso suo amico durante tutta la narrazione, e risultando ancora più distante da loro e bizzarro proprio perché attratto da tale animalità di cui gli altri pure sono parte e che cercano di fuggire.

Non voleva parlare, e parlava. L’orgasmo degli altri gli dava un’importanza che lo faceva parlare. Sentiva di confondersi con loro, di essere sciocco come loro. Sorrise.

– …Non c’era…

– Ma chi è?

– Non lo so. Con licenza parlando, credo faccia la serva. È bella come una capra. Qualcosa tra la statua e la capra.

Tacque, sotto le domande incrociate. Provarono a dirgli dei nomi, rispose che non ne sapeva nulla. Ma dalle descrizioni che gli fecero, riportò l’impressione che si chiamasse Concia. Se era questa, gli dissero, veniva dalla montagna ed era proprio una capra, pronta a tutti i caproni. Ma non vedevano la bellezza.

– Quando sembrano donne, non vi piacciono? – Chiese Vincenzo, e tutti si misero a ridere.

– Ma Concia è venuta alla festa, – disse un giovane bruno, – l’ho veduta girare dietro la chiesa con due o tre ragazzini. Ingegnere, la vostra bellezza serve ai ragazzini.

– Chi vuoi che la voglia? Ha servito anche al vecchio Spanò che l’aveva a servizio, – disse Gaetano guardando Stefano.

Stefano lasciò cadere il discorso. Quel senso di solitudine fisica che l’aveva accompagnato tutto il giorno fra la calca festaiola e il cielo strano di lassù, rieccolo ancora. Per tutto il giorno Stefano s’era isolato come fuori del tempo, soffermandosi a guardare le viuzze aperte nel cielo.  Perché Giannino gli aveva detto ridendo: “Andate, andate con Fenoaltea. Vi divertirete”?

È un’altra invece la donna che segna la sua permanenza, Elena, l’unico personaggio che appare tridimensionale nella galleria di ombre e pareti descritta nel romanzo. Elena è l’esatto opposto di Concia, è una donna matura, vedova, remissiva, spaventata da quel che la gente dice e tuttavia molto sentimentale. Si lega subito a Stefano mentre per lui è un ripiego, non riesce mai a sentirla accanto, a viverla come la propria donna. Vorrebbe che lei arrivasse la notte e andasse via all’alba senza dire nulla, vorrebbe che fosse solo un corpo senza storia.

Elena non parlava molto. Ma guardava Stefano cercando di sorridergli con uno struggimento che la sua età rendeva materno. Stefano avrebbe voluto che venisse al mattino e gli entrasse nel letto come una moglie, ma se ne andasse come un sogno che non chiede parole né compromessi. I piccoli indugi d’Elena, l’esitazione delle sue parole, la sua semplice presenza, gli davano un disagio colpevole. Accadevano nella stanza chiusa laconici colloqui.

Una sera Elena era appena entrata, e Stefano per starsene solo, più tardi, a fumare in cortile, le diceva che forse tra un’ora sarebbe venuto qualcuno – Elena spaventata e imbronciata voleva andarsene subito e Stefano la tratteneva carezzandola – si sentì un passo e un respiro dietro i battenti serrati e una voce chiamò.

– Il maresciallo, – disse Elena.

– Non credo. Lasciamoci vedere: non c’è nulla di male.

– No! – disse Elena atterrita.

– Chi è? – gridò Stefano.

Era Giannino. – Un momento, – disse Stefano.

– Non importa, ingegnere. Domani vado a caccia. Venite anche voi?

Quando Giannino se ne andò, Stefano si volse. Elena era in piedi tra il letto e il muro, nella luce cruda con gli occhi perduti.

– Spegni la luce, – balbettò.

– É andato…

– Spegni la luce!

Stefano spense e le venne incontro.

– Vado via, – disse Elena, – non tornerò mai più.

Stefano si sentì male al cuore. – Perché?  – Balbettò. – Non mi vuoi bene? – La raggiunse attraverso il letto e le prese una mano.

Elena divincolò le dita, serrandogliele convulsa. – Volevi aprire, – mormorò, – volevi aprire. Tu mi vuoi male -. Stefano le prese il braccio e la fece piegare sul letto. Si baciarono.

Un’attenzione particolare va prestata alla descrizione paesaggistica, speculare agli stati d’animo; sottolinea la sensazione costante di alienazione e prigionia anche negli spazi aperti, soprattutto per la lingua usata. L’ispirazione americana di Pavese ne fa uno degli scrittori italiani più accessibili del Novecento, e nello stesso tempo, quell’accessibilità è cesellata, limata all’estremo, tanto che proprio lui può usare la stessa gamma semantica tanto per la narrativa quanto per la poesia. Ma la sua narrazione è fatta di intrecci e commistioni: si passa da una forma descrittiva quasi lirica all’introspezione psicologica, dall’introspezione ai dialoghi, scritti in modo essenziale, allusivo.

Nei due giorni che Stefano attese il foglio di via, il crollo delle sue abitudini fondate sul vuoto monotono del tempo, lo lasciò come trasognato e scontento. La valigia che aveva temuto di non fare in tempo a preparare, la chiuse in un batter d’occhi, e dovette riaprirla per cambiarsi le calze. Dalla madre di Giannino non osò prendere commiato, per timore di farla soffrire con la sua libertà insolente. Continuò a gironzolare dalla sua stanza all’osteria, incapace di fare una corsa più lontano, di salutare a uno a uno i luoghi deserti, pallidi, della campagna e del mare, che tante volte aveva divorato con gli occhi, nel tedio esasperato, dicendosi: “Verrà l’ultima volta e rivivrò quest’istante”.

Gaetano e Pierino corsero a cercarlo in casa. Stefano, che mai aveva vista la sporcizia della sua stanza come adesso che ci avrebbe dormito per l’ultima volta, li fece entrare e sedere sul letto, ridendo scioccamente dei mucchi di cartaccia, dei rifiuti e della cenere buttata negli angoli. Gaetano diceva: – Se passate da Fossano, salutatemi le ragazze -. Discussero insieme gli orari dei treni, le stazioni e i diretti, e Stefano incaricò Pierino di ricordarlo a Giannino.

– Gli direte che dà più soddisfazione uscir di carcere che non dal confino. Oltre le sbarre tutto il mondo è bello, mentre la vita di confino è come l’altra, solo un po’ più sporca.

Pavese è ancorato al realismo, al racconto di una vita che si fa mondo, diviene racconto del mondo: di uno spaccato, di un’epoca, di una condizione umana. In forma mediata abbiamo l’esperienza di un disvelamento, in senso autobiografico, di un’interiorità che arriva a compiersi nell’osservazione del contesto in cui si trova proprio a partire da un senso di estraneità, di modo che quell’estraneità sia la fonte del distacco necessario all’approdo di una narrazione universale.

Articolo di Ilaria Palomba

FONTE:  https://www.lafionda.org/2021/10/06/lestraneo-che-osserva-il-carcere-di-cesare-pavese/

 

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