DI ROBERT DE HERTE
Il XX secolo lo si è definito in molti modi: secolo dell’entrata nell’era atomica, secolo della decolonizzazione, della liberazione sessuale, secolo degli “estremi” (Eric Hobsbawm), della passione del reale (Alain Badiou) del trionfo della “metafisica della soggettività” (Heidegger), secolo della tecnoscienza, secolo della globalizzazione, ecc. Il XX secolo è certamente stato tutto ciò. Ma è anche il secolo che ha visto l’apogeo della passione consumista, della devastazione del pianeta e, per contraccolpo, l’apparizione di una preoccupazione per l’ecologia. Per Peter Sloterdijk, che distingue la modernità per il “principio di sovrabbondanza”, il XX secolo è stato prima di tutto il secolo dello spreco.
Mentre per la tradizione, scrive, lo spreco rappresentava il peccato per eccellenza contro lo spirito di sussistenza perchè metteva in gioco la riserva sempre insufficiente di mezzi di sopravvivenza, un profondo cambiamento di rotta si è prodotto riguardo allo spreco nell’era delle energie fossili: si può dire oggi che lo spreco è diventato il primo dovere civico […].
Il divieto alla frugalità ha quindi sostituito il divieto allo spreco – ciò si esprime nei costanti appelli a sostenere la domanda interna”.All’inizio del XXI secolo che si annuncia come un secolo dove la “fluidità” (Zygmunt Bauman) tende a sostituire dovunque il solido – come l’effimero sostituisce il duraturo, come le reti si sostituiscono alle organizzazioni, le comunità alle nazioni, i sentimenti transitori alle passioni di una vita intera, gli impegni occasionali alle vocazioni immutabili, gli scambi nomadi ai rapporti sociali radicati, la logica del Mare, o dell’aria, a quella della Terra -, si constata che l’uomo ha consumato in un secolo tali ricchezze che la natura ci aveva messo 300 milioni di anni a costituire.
Le società dell’antichità avevano capito spontaneamente che nessuna vita sociale è possibile senza aver preso in considerazione l’ambiente naturale in cui essa si svolge.
Nel “De senectute”, rievocando questo verso citato da Catone: “Sta piantando un albero a vantaggio di un’altra generazione”, Cicerone scrive: “Di fatto, l’agricoltore, quantunque sia vecchio, a cui si chiede per che cosa sta piantando, non esita a rispondere: ‘ Per gli dei immortali che vogliono che, senza accontentarmi di ricevere questi beni dei miei antenati, li trasmetta anche ai miei discendenti’ ” (7, 24).
La preservazione dei beni è stata in effetti la regola per tutte le culture umane fino al XVIII secolo. Il contadino di una volta, era, senza saperlo, un esperto in “sostenibilità”. Ma spesso lo erano anche i poteri pubblici. Un esempio tipico è dato da Colbert che, regolamentando i tagli dei boschi per assicurare la ricostituzione delle foreste, faceva piantare delle querce in modo da per poter fornire degli alberi da nave 300 anni più tardi.
Le civiltà moderne hanno agito al contrario. Si sono comportate come se le “riserve” naturali fossero moltiplicabili all’infinito – come se il pianeta, in tutte le sue dimensioni, non fosse un spazio finito -. Ad ogni istante, hanno impoverito l’avvenire consumando ad oltranza il passato.
In questo contesto, i due principali problemi attuali sono, da una parte: il degrado dell’ambiente naturale sotto l’effetto degli inquinamenti di ogni tipo che hanno anche delle conseguenze dirette sulla vita umana e su quella di tutti gli esseri viventi, e, dall’altra: l’esaurimento delle materie prime e delle risorse naturali indispensabili oggi all’attività economica.
Gli inquinamenti sono stati descritti talmente spesso che non _ il caso di ritornarci sopra. Ricordiamo soltanto che la produzione annua di rifiuti nei 25 paesi dell’OCSE si eleva oggi a 4 miliardi di tonnellate.
L’aumento della quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, comportando la concentrazione dei gas ad effetto serra e di conseguenza il riscaldamento generale del pianeta, in particolare verso i poli, provoca una proccupante elevazione del livello del mare, intensifica l’erosione dei suoli, aggrava gli effetti della siccit_, spiega l’aumento della frequenza e dell’intensit_ delle tempeste, dei cicloni tropicali, dei maremoto, delle canicole, dei fuochi di foreste, ecc.
Nel frattempo, la deforestazione prosegue ad un ritmo spaventoso: la superficie forestale distrutta ogni anno equivale alla superficie della Grecia, mentre le riserve naturali si esauriscono.
Il petrolio sarà di qui a breve estratto ad una resa sempre più decrescente, mentre la domanda non cessa mai di crescere. Le energie rinnovabili non rappresentano per ora che il 5,2% di tutta l’energia consumata nel mondo. Sarebbe vano farci troppo affidamento. In quanto allo “sviluppo duraturo” di cui tanto si parla fin dal 1973 (rapporto Brundtland), oltre che apparire soprattutto come una operazione mediatica, nel migliore dei casi non fa che respingere delle scadenze ineluttabili.
Nell’ottica di uno sviluppo duraturo, l’ambiente naturale vitale è solamente una variabile costrittiva che aumenta il costo di funzionamento di un sistema destinato alla crescita infinita dei prodotti commerciali. Questo metodo di sviluppo non rimette assolutamente in questione il principio di una crescita senza fine, di cui cerca di salvarne la fattibilità affermando di ricercare i mezzi che non lo renderebbero ecologicamente catastrofico. Quest’ultimo punto rappresenta la quadratura del cerchio. Infatti, se si ammette che lo sviluppo è la causa principale della degradazione dell’ambiente naturale, è completamente illusorio voler soddisfare “ecologicamente” i bisogni delle attuali generazioni senza rimettere in causa la natura di questi bisogni. Come ha molte volte dimostrato Serge Latouche, la teoria dello sviluppo duraturo si accontenta, per far fronte ai problemi, di sviluppare delle procedure o delle tecniche di controllo che curano gli effetti di questi mali senza agire sulle cause.
In questo modo, essa si rivela particolarmente ingannevole, poichè lascia credere che è possibile rimediare alla crisi senza rimettere in questione la logica commerciale, l’immaginario economico, il sistema del denaro e l’espansione illimitata del capitale. Infatti, essa si smentisce da sola nella misura in cui continua ad imperniarsi su un sistema di produzione e di consumi che è la causa essenziale dei danni ai quali pretende di rimediare.
In tali condizioni, è del tutto naturale che un’altra teoria si faccia strada: quella che cerca di organizzare la de-crescita. La sola parola può far paura o può sembrare utopica. E’ in ogni caso una prospettiva che merita di essere esplorata, cosa che già fa fin d’ora, per il bene dei propri paesi, una gran quantità di economisti e di ricercatori. La de-crescita rappresenta un’alternativa in forma di rottura col presente.
Ma questa sarà possibile soltanto alla condizione di una trasformazione generale delle coscienze. Serge Latouche parla a giusto titolo di “decolonizzare l’immaginario”. Ciò ci impone di combattere il produttivismo sotto tutte le sue forme, in vista, non di un ritorno indietro, ma di un suo superamento. Si tratta di fare uscire delle nostre teste il primato dell’economia e l’ossessione del consumo che hanno reso l’uomo estraneo a se stesso. Di rompere col mondo degli oggetti per restituirci quello degli uomini.
Robert De Herte
Fonte: www.grece-fr.net/
link:http://www.grece-fr.net/textes/_txtWeb.php?idArt=642
Eléments n°119, inverno 2006
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di FLAVIO ROTA