LEGGE DI STABILIT 2015: CONFINDUSTRIALE, LIBERISTA E RECESSIVA

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DI LEONARDO MAZZEI

sollevazione.blogspot.it

UN’ANALISI DETTAGLIATA DELLA FINANZIARIA RENZI-PADOAN. I numeri fantasiosi, i trucchi contabili e la dura realtà dei fatti.

E’ noto come Mussolini usasse spostare di continuo i pochi ed inefficienti carri armati di cui disponeva per far credere a tutti, e ad Hitler in particolare, di avere un esercito ben più potente della misera realtà che la guerra dimostrerà ben presto.

Passano gli anni, l’Italia non è in guerra, ed al posto del fascista romagnolo c’è solo un fiorentino in odore di massoneria. E, tuttavia, certi vizi paiono davvero immortali. Al posto dei carri armati ci sono ora i miliardi di una manovra economica che ha la stessa credibilità dell’esercito mussoliniano.

Allora Hitler non si fece certo impressionare dal suo alleato italiano, tanto ambizioso quanto subordinato nei fatti. Vedremo ben presto quale sarà la risposta di Angela Merkel, ma il «cambiare verso» all’Europa è ormai soltanto un ricordo a cui nessuno più crede.

L’allievo ha superato il maestro

Il prestigiatore Renzi, fin dal liceo chiamato non casualmente «il bomba», ha da tempo superato il maestro Berlusconi. Con la differenza che mentre al puttaniere di Arcore interessava soprattutto la moltiplicazione dei capelli, a lui piace spararle grosse con gli annunci sui miliardi. Che a tal fine conta e riconta più volte. E’ questa la spiegazione di una finanziaria che doveva essere di 20 miliardi (md), cresciuti rapidamente a 30 ed infine diventati miracolosamente 36. E nessuno a chiedersi come avrà fatto mai…

Abbiamo eseguito qualche conteggio e a noi risulta, in base alle tabelle rese note dal governo stesso, una manovra di 16,1 md sul versante delle entrate e di 13,2 md su quello delle uscite. Non poco, ma meno della metà di quanto proclamato ai quattro venti dal bomba.

I trucchi usati sono diversi. Partiamo dalle entrate. Alla voce spending review l’imbroglione ha messo 15 md, ma di questi 2,7 derivano da minori spese già previste nel «decreto Irpef» approvato mesi fa. Dunque scendiamo, ammesso e non concesso che i tagli riescano davvero, a 12,3 md. La stessa operazione è stata compiuta sull’incremento della tassazione delle rendite finanziarie. Dei 3,6 miliardi indicati, 2,4 derivano dal vecchio aumento, dal 20 al 26%, in vigore già dal luglio scorso. Dunque la manovra sul 2015 è di 1,2 md. A questo aggiungiamo altre tre voci, che per farla breve prendiamo per buone (Banda larga, Slot machine, Riprogrammazione), per un totale di 2,6 md. Otteniamo così un totale di 16,1 md.

Per spiegare la differenza tra questa cifra e gli sbandierati 36 md, oltre agli scarti già evidenziati, dobbiamo considerare altre due voci ben presenti nelle slide del bomba. Egli ha fatto figurare come «entrata» la mancata copertura di 11 md rispetto al deficit tendenziale previsto in precedenza. E’ questo un aspetto assolutamente centrale della finanziaria 2015, di cui ci occuperemo più avanti, ma di certo non si tratta né di una maggiore entrata né di una minore spesa. Si tratta invece di un classico trucco, se volete una specie di illusione ottica, di quelle che riescono non tanto per l’abilità del prestigiatore quanto per gli applausi a prescindere della servile platea giornalistica teoricamente chiamata ad «informare». Ci sono poi 3,8 md attesi dalla lotta all’evasione fiscale. Una cifra messa lì giusto per ingrossare il bottino, sulla cui attendibilità – tenuto conto che una cosa è l’aumento delle evasioni accertate, altra cosa è la loro effettiva riscossione, non proprio così scontata in tempi di crisi – avremo dati certi solo a fine 2015.

Passiamo ora alle uscite. Su questo versante Renzi ha rivenduto come una novità i famosi «80 euro», per un importo di 9,5 md. Ma non si tratta della stessa misura presa già in primavera dal suo governo? Quella su cui ha fatto la campagna elettorale di maggio? Quel «bonus» è sempre stato annunciato come strutturale dal suo ideatore, che ora lo ha solo trasformato in sgravio fiscale, giusto per poter dire di aver abbassato la pressione fiscale complessiva.

I 13,2 md di maggiori uscite sono rappresentati dalla somme di queste voci: 5 md dalla riduzione dell’IRAP; 1,9 md dalla fiscalizzazione dei contributi previdenziali; 0,8 per le partite IVA; 0,5 per le famiglie numerose; 0,3 per la ricerca; 0,1 per il TFR; 0,15 per Roma e Milano; 0,25 per la giustizia; 1 per i comuni; 0,5 per la scuola; 1,5 per gli ammortizzatori sociali; 1,2 relativi ai cofinanziamenti. Totale, come abbiamo detto, 13,2 md.

Ora direte, ma 13,2 più i 9,5 del bonus fa soltanto 22,7: com’e che il bomba è arrivato a 36? Semplice, considerando tre voci che proprio non dovrebbero starci. La prima, che vale 6,9 md, si chiama «spese a legislazione vigente». Ma se si tratta di spese a legislazione vigente, allora con lo stesso criterio potremmo includere a piacimento nella manovra anche quelle per le retribuzioni dei dipendenti pubblici, le pensioni e la spesa sanitaria corrente… Di fronte ad una così plateale contraddizione in termini non c’è bisogno di ulteriori commenti.

C’è poi una seconda voce chiamata pomposamente «eliminazione di nuove tasse», per un valore di 3 md. Qui c’è la semplice disattivazione di una clausola di salvaguardia fiscale introdotta dai precedenti governi, ma nessun taglio di tasse già operanti. Dunque, anche in questo caso, non c’è nessun correttivo previsto per il 2015 rispetto al 2014. Infine, nelle uscite vengono contabilizzati 3,4 md che andranno a costituire una «riserva», il cui scopo – anche se non viene detto con chiarezza – è solo quello di predisporre uno strumento utile a comporre il probabile contenzioso che si aprirà con la Commissione europea sul valore del rapporto deficit/pil.

Ecco come il bomba è arrivato senza troppi sforzi alla fantasiosa cifra di 36 md, sparati a tutto volume per far credere che la sua sia una manovra largamente espansiva, quando invece non c’è una sola voce di incremento degli investimenti pubblici, quando le misure per il rilancio dei consumi sono più che misere, mentre le riduzioni fiscali sono rivolte soprattutto a lorsignori.

Ma la finanziaria di Renzi non è fatta solo di annunci e trovate propagandistiche. Essa ha anche una precisa matrice ideologica ed un altrettanto evidente contenuto di classe. Ed è di questo che ci occuperemo adesso.

Una finanziaria liberista e confindustriale

Uno dei dogmi del neoliberismo è quello che si fonda sull’equazione: meno spese + meno tasse = crescita. Naturalmente, per i neoliberisti le spese da tagliare sono innanzitutto quelle sociali, mentre le tasse da decurtare sono principalmente quelle dei ricchi. Tradotto in termini «filosofici», l’idea è che non debbano esserci (Monti docet) «pasti gratis» per nessuno. Viceversa, la tassazione dovrà essere ridotta soprattutto alle aziende ed alle fasce più ricche, quelle che possono investire e consumare maggiormente.

C’è qualcosa di diverso nella Legge di stabilità (finanziaria) approvata dal governo? A noi non sembra. La parte del leone nel capitolo delle entrate è rappresentato dai tagli alla spesa pubblica, mentre la più importante novità in materia fiscale è costituita dal taglio dell’IRAP, una misura di cui beneficeranno soprattutto le aziende più grandi, quelle con molti dipendenti, come ammette esultante il Sole 24 Ore.

E chi beneficerà della fiscalizzazione degli oneri sociali? Sempre i soliti noti, dato che le grandi aziende hanno quasi tutte una quota di lavoratori a tempo determinato, una parte dei quali passano via via, per le stesse esigenze aziendali, a tempo indeterminato. Bene, ora quello stesso passaggio frutterà un guadagno di circa 25mila euro a lavoratore. Si dirà, un giusto incentivo alla stabilizzazione del rapporto di lavoro. Peccato che esso avvenga in parallelo all’introduzione del Jobs Act, che di fatto precarizza anche i contratti in teoria più stabili. In ogni caso i quasi 2 md previsti ricadranno sulla fiscalità generale, dunque sulle tasche del noto Pantalone…

E su chi ricadrà invece il minor gettito dell’IRAP? Ora, sull’equità di questa tassa è giusto e legittimo discutere, ma è un fatto che essa sia stata istituita principalmente per finanziare la spesa sanitaria. Dunque sappiamo già su chi ricadrà il conto. Del resto alle Regioni – le cui uscite complessive sono fatte per l’80% dalla spesa sanitaria – la finanziaria chiede un risparmio di 4 miliardi.

Eh già, belli i tagli, peccato che poi significhino ospedali chiusi, meno infermiere, esami diagnostici rimandati a quando non servono più, ticket più cari, e chi più ne ha più ne metta.

Ma c’è dell’altro sul fronte fiscale. Già lo stesso Padoan, con un lapsus non sappiamo quanto involontario, ha già detto che «le Regioni potranno aumentare le tasse», agendo in pratica sull’addizionale IRPEF, così come prevedibilmente continueranno a fare anche i Comuni che dispongono anche delle carte chiamate IMU e TASI. Altro che riduzione della pressione fiscale! Qui siamo semplicemente di fronte ad una scaricabarile dal governo centrale a danno delle autonomie locali.

C’è poi un altro aspetto non certo irrilevante, e riguarda la voce «rendite finanziarie» perché, per quel che se ne sa, il capitolo più importante dal quale verranno attinte le risorse previste è quello della previdenza integrativa, che si prevede di tassare non più all’11,5 bensì al 20%. Siamo sempre stati contrari alle pensioni integrative, dato che sono servite solo a fornire un alibi alla distruzione di quelle pubbliche, e tuttavia chi sarà danneggiato da questa misura se non i milioni di lavoratori (specie giovani) che sono stati spinti verso la pensione complementare come l’unica (per quanto ben poco efficace) alternativa ad una vecchiaia da fame?

Ed infine il TFR, l’ultima trovata propagandistica di Renzi. Qui la truffa fiscale è completa e garantita a 360 gradi. Se la finanziaria passerà così com’è stata presentata ci troveremo di fronte ad un autentico esproprio di una parte del salario. Un esproprio presentato come un generoso arricchimento della busta paga, un gioco assai perverso teso a nascondere il persistente calo del salario reale al quale il governo (vedi il Jobs act) lavora alacremente.

Ma in cosa consiste la truffa? Semplice, dal 2015 i lavoratori avranno tre possibilità: mantenere il TFR così com’è, farselo versare in busta paga, versarlo in un fondo pensione integrativo. Nel primo caso avranno una tassazione della rivalutazione annuale aumentata dall’11 al 17%; nel secondo non solo rinunceranno alla rivalutazione, ma si ritroveranno con aliquote fiscali (quelle Irpef ordinarie) assai più alte del trattamento previsto per il TFR; nel terzo – come abbiamo già visto – si vedranno applicare una tassazione quasi raddoppiata rispetto all’attuale.

A questo punto si sarà forse capito che quella della riduzione della pressione fiscale per le fasce popolari è sostanzialmente una balla. Una balla solo parzialmente compensata dai famosi «80 euro», i quali ci sono comunque soltanto per i lavoratori dipendenti, con l’esclusione delle altre categorie (pensionati, lavoro autonomo) a cui era stata promessa nei mesi scorsi l’estensione.

Che l’insieme della manovra renziana sia liberista e confindustriale è chiaro al di là di ogni ragionevole dubbio. Per i duri di comprendonio possiamo solo consigliare l’ascolto o la lettura delle grida di gioia che arrivano dal fronte padronale. Quando mai avete visto un presidente di Confindustria così estasiato da una legge finanziaria? Io personalmente non ne ricordo uno. Ci sarà un motivo.

Una finanziaria recessiva

A giustificazione dell’operazione renziana viene naturalmente portato il suo carattere presuntamente «espansivo». Come dire, i regalini ai soliti noti ci sono, ma del resto sono loro che devono investire, e solo così potremo avere più crescita e più occupazione.

Quanto innocenti e disinteressate siano questi ragionamenti lo giudichino i lettori. Sta di fatto – e ora cercheremo di dimostrarlo – che questa finanziaria non è per niente espansiva. Intanto, se tutto andrà bene, gli elevati livelli della pressione fiscale resteranno mediamente del tutto inalterati. Se invece, come prevedibilmente accadrà, le cose andranno peggio – da quanti anni le previsioni economiche non vengono riviste sistematicamente al ribasso? – possiamo tranquillamente aspettarci (la TASI insegna) un ulteriore incremento della pressione fiscale, magari dispersa nelle mille forme delle tassazioni comunali e regionali

Ma facciamo finta che così non sia. Facciamo finta che ai 15 md di tagli previsti corrispondano tagli più o meno equivalenti delle tasse. Bene, cioè malissimo, se cosi fosse avremmo un effetto negativo sul Pil di quasi un punto percentuale.

Di cosa si tratta molti ormai lo sanno. Il moltiplicatore della spesa (fonte Fmi) viene ormai calcolato, per un paese come l’Italia, in una fase recessiva come l’attuale, a quota 1,3 (altri si spingono a 1,5 ma vogliamo essere generosi). Viceversa, il moltiplicatore delle tasse viene stimato a 0,3. Dunque per ogni miliardo di taglio alle spese si ha una contrazione del Pil di 1,3 md. La parallela riduzione fiscale di un miliardo dà invece solo una crescita di 0,3 md. Ne consegue, ovviamente all’ingrosso, che per ogni miliardo di tagli si abbia una riduzione equivalente (sempre di 1 md) del Pil.

Dunque, anche nel 2015 avremo un Pil col segno meno. Peccato che la Snai non accetti scommesse. Del resto il governo lo sa benissimo, altrimenti non avrebbe messo nella nota di aggiornamento del DEF, del 1° ottobre scorso, un miserrimo + 0,6% come previsione per il prossimo anno. Ora, tutti sanno come queste previsioni siano sistematicamente abbellite, ed altrettanto sistematicamente smentite a consuntivo. Del resto, si sa, in fondo al tunnel c’è sempre una luce. E in fondo, in fondo, in parte per ragioni ideologiche in parte per la rilevanza assegnata al fattore fortuna, probabilmente i Renzi e i Padoan un po’ finiscono per crederci davvero.

Sta di fatto che il Pil 2014 era stimato ancora a +0,8 ad aprile, per scendere al -0,3% di inizio ottobre. In meno di sei mesi sono scomparsi come noccioline circa 18 miliardi. E per il 2015? Ad aprile si prevedeva un +1,3; ad ottobre, come detto, siamo a meno della metà con il +0,6%. A questo punto la probabilità di un quarto anno consecutivo di recessione, una cosa che sembrava quasi impossibile, ha buone possibilità di realizzarsi.

E, del resto, se la spesa pubblica cala, se quella delle famiglie non potrà certo riprendersi, se gli investimenti pubblici e privati rimangono in calo, pensiamo forse che la luce potrà accendersi solo grazie alle esportazioni? Certo, nell’idea mercantilista – il modello è effettivamente quello tedesco – le cose potrebbero in teoria funzionare. Ma in pratica non è così, sia perché i venti di crisi spirano anche fuori dall’Europa, sia per il deficit di competitività imposto dall’euro proprio nel confronto con il principale competitor: la Germania. Detto in altre parole, nell’euro non c’è posto per due germanie. C’è posto, semmai, soltanto per alcune appendici purché subordinate all’economia tedesca.

Ma allora, su cosa spera l’ipercinetico Renzi? Su buoni appoggi (quelli di una parte della finanza, specie d’oltreoceano) e – l’abbiamo già detto – sulla buona sorte. Il tutto condito dalla granitica quanto infantile certezza della bontà del sistema capitalistico, un sistema che nella sua visione da scout non potrà che riprendersi prima o poi. E, nell’attesa, bisogna pur tirare a campare.

Questo era una dei motti preferiti da Giulio Andreotti: «è sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Oggi però la situazione è diversa dai tempi di Andreotti, e tirare a campare è più difficile, richiedendo una continua navigazione tra gli imperativi sistemici, le regole della gabbia europea e le esigenze del consenso. In questo complesso slalom Renzi ha dimostrato fino ad oggi di non avere rivali. Dunque, guai a sottovalutarlo come avversario.

All’Europa non basterà

Proprio per queste esigenze Renzi ha interrotto la catastrofica serie Monti-Letta. Ve l’immaginate i risultati elettorali del pisano – di quelli del bocconiano già sappiamo tutto – alle europee di maggio? La sostituzione del nipote dello zio con l’amico di Verdini, al di là dei continui giochi di potere a cui rimanda, è stata una vera e propria esigenza sistemica. Da qui la forza, la spudoratezza, l’arroganza di Matteo Renzi. Il quale – ma di questo riparleremo presto – aggiunge a tutto ciò i potenti legami con l’establishment americano.

A differenza dei suoi predecessori Renzi non appare affatto succube della Merkel. Ed in effetti non lo è. Il renzismo non nasce come mera continuità della politica austeritaria di chi l’ha preceduto. Se non ci capisce questo non si può comprendere il suo diverso appeal verso larghi settori di massa. Certo, nel consenso di cui gode c’è un po’ di tutto: la forza di quel che appare «nuovo», la potenza mediatica che lo sostiene, il fatto di essere vissuto come ultima spiaggia, l’idea che la «rottamazione» sia l’unica fonte di salvezza, ed infine la debolezza senza precedenti delle opposizioni istituzionali. Ma saremmo davvero pigri se non vedessimo che tutto ciò è sostenuto da un reale senso di cambiamento dopo troppi anni di stagnazione.

Il problema è vedere qual è il segno, o come direbbe lui il «verso» di questo cambiamento. E non c’è dubbio che il segno sia quello di questa finanziaria: un liberismo sfrenato e sfrontato quanto il personaggio che lo interpreta. E tuttavia, questo è il punto, un liberismo che non è targato Merkel.

E’ normale dunque che Renzi non venga percepito come un servo dell’eurocrazia di Bruxelles, ed in questo modo egli capitalizza astutamente la diffusa consapevolezza di massa anti-eurocratica che si è sviluppata in questi anni. In un certo senso, così come egli sfrutta la polemica anti-casta del M5S, allo stesso modo utilizza quella anti-UE, alla quale noi stessi contribuiamo da sempre. Ovviamente, lo fa a modo suo e per i suoi obiettivi.

Tutto ciò non deve sorprendere. La politica è fatta (anche) in questo modo. E, come ha già scritto Piemme, queste vicende ci ricordano che con l’euro e con l’UE si può rompere in vari modi. Per semplificare, da destra o da sinistra. Più esattamente: nell’interesse delle classi popolari, come in quello di certi pescecani della finanza; in nome dell’uguaglianza e dei diritti sociali, come in quello delle virtù del mercato.

Evidentemente, il modo con il quale Renzi si contrappone, o quantomeno si distingue dall’eurocrazia austeritaria è diverso ed opposto al nostro. Esso è tuttavia un fatto dal quale è impossibile prescindere. Un fatto che se non altro ci parla della crisi dell’Unione europea.

Abbiamo visto come la manovra varata da Renzi non è espansiva come si vorrebbe far credere, ma di certo non è neppure quella che avrebbe voluto la Commissione europea. Entrano qui in ballo gli 11 miliardi di cui abbiamo già parlato. Un incremento della spesa in deficit, piuttosto sostanzioso rispetto ai precedenti impegni presi dall’Italia. Un netto smarcamento rispetto al tradizionale rigorismo europeo in materia di conti pubblici. E su questo punto decisivo l’Italia non è sola, vista la posizione del governo francese. Su tutto ciò ho già scritto in abbondanza QUI.

La verità è che lo scontro è iniziato. Gli interessi tra i principali paesi europei sono troppo confliggenti per trovare una vera composizione. Al tempo stesso, manca ai protagonisti la caratura necessaria per affrontare a viso aperto l’indispensabile processo di uscita dalla moneta unica. Sul versante italiano, questa palese contraddizione ha prodotto una finanziaria che, considerata da questo punto di vista, non è né carne né pesce. E’ così che si spiega il parto di un mostriciattolo ancora recessivo, ma non sufficiente a placare il rigorismo del triangolo della morte Berlino-Francoforte-Bruxelles.

Il problema per la triade Merkel-Draghi-Juncker è che le finanziarie italiana e francese mettono in discussione alla radice (e non solo per il 2015) il Fiscal compact, vero architrave di quella convergenza dei debiti senza la quale non potrà esservi nessuna unione fiscale e di bilancio, decretando in questo modo la manifesta insostenibilità dell’euro.

Su questo non solo i tedeschi, ma la suddetta triade al completo, non possono proprio mollare. E’ per questo, non per Renzi od Hollande, che crediamo che lo scontro sia nei fatti.

Naturalmente, tanto più in considerazione della posta in gioco, uno scontro non esclude momenti di tregua e di pace armata. In altre parole non escludiamo affatto che nelle prossime settimane l’ennesima quadratura del cerchio venga trovata, magari con qualche rettifica delle finanziarie di Roma e Parigi. Ma la tregua, se davvero avrà luogo, sarà solo il preludio ad uno scontro ben più aspro, quello che porterà alla definitiva resa dei conti.

Il problema è sempre il solito: chi giocherà quello scontro? Sarà solo interno al blocco dominante, o vedrà finalmente il protagonismo delle classi popolari e quello di una soggettività politica in grado di guardare più avanti, ad una prospettiva di sganciamento dal capitalismo-casinò? Questa è la posta in gioco. Hic Rhodus, hic salta!

Leonardo Mazzei
18.10. 2014
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