DI WILLIAM ROBINSON
Truthout
Pochi giorni prima delle sette settimane di assedio a Gaza nel Luglio e nell’Agosto passati, che hanno provocato 2.000 vittime, 11.000 feriti e 100.000 persone senza casa, la parlamentare israeliana Ayelet Shaked, funzionaria veterana del partito CasaEbrea, che fa parte della coalizione di governo in Israele, pubblicava su Facebook che “tutto il popolo palestinese è il nemico… inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrastrutture”. Il messaggio continuava dicendo che “dietro ogni terrorista ci sono decine di uomini e donne, senza i quali non avrebbe potuto partecipare al terrorismo. Tutti loro sono combattenti nemici e il sangue coprirà le loro teste. Ora questo include anche le madri dei martiri, che li mandano all’inferno con fiori e baci. Loro devono seguire i loro figli, niente sarebbe più giusto. Devono andarsene come anche le loro case nelle quali hanno allevato serpenti. In caso contrario creeranno più serpenti in esse”.
La pagina Facebook della Shaked fu condivisa più di 1000 volte, e ottenne quasi 5000 “mi piace”. Alcune settimane dopo, in data 1° Agosto, il “The Times of Israel” pubblicava un articolo di opinione di Yohanan Gordan intitolato “Quando si approva un genocidio”. Gordan affermava che “dovrà arrivare un momento nel quale Israele si senta sufficientemente minacciato da non aver altra opzione che rifiutare le avvertenze internazionali”. Continuava: “Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo”? Il primo ministro Benjamin Netanyahu dichiarò all’inizio dell’incursione che il suo obiettivo era ricostruire una tranquillità sostenibile per i cittadini di Israele… Se i dirigenti politici e gli esperti militari determinano che l’unica maniera per raggiungere l’obiettivo della pacificazione è tramite un genocidio, sarà allora esso ammissibile per raggiungere questi obiettivi responsabili?”
Facendosi eco di questo sentire, il vicepresidente del parlamento israeliano Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecitava l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via. “Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene. Questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele”, ha detto Feiglin.
“L’esercito israeliano conquisterà tutta la striscia di Gaza utilizzando tutti i mezzi necessari a minimizzare qualsiasi danno ai nostri soldati, senza nessun altra considerazione… La popolazione che è innocente e che si è separata dai terroristi armati sarà trattata in conformità al diritto internazionale e le si permetterà di andar via”.
Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza. Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra bruscamente negli ultimi anni, tanto che ora è palpabile un ambiente fascista nella vita quotidiana del Paese. Ad agosto, a Tel Aviv, alcuni manifestanti di estrema destra che attaccavano la manifestazione di sinistra contro l’assedio a Gaza, andavano vestiti con simboli e foto neonazi, comprese magliette con il lemma “Good night left side” (buona notte “lato sinistro”), uno slogan neonazi popolare in Europa ai concerti di Rock con bande di estrema destra, come risposta alla consegna antifascista originale: “Good night white pride” (buona notte “orgoglio bianco”). Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei Palestinesi e la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei territori occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid, secondo un sondaggio del 2012.
Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul New York Times del 25 Agosto che esprimeva allarme per “la estrema disumanizzazione razzista dei Palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile”. La carta continuava: “Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese”.
Il progetto sionista potrebbe essere fondato (ora lo sappiamo grazie a una quantità di studi storici fatti negli ultimi anni) sulla pulizia etnica sistematica e il terrorismo contro i Palestinesi. L’articolo 2 della convenzione dell’ONU del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”. Non ci sono dubbi che stiamo assistendo all’attività pregenocida di Israele in Palestina.
Quali sono le radici strutturali soggiacenti all’ economia politica israeliana che provocano tali pressioni genocide?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un passo indietro di alcuni anni per concentrarci sui maggiori cambiamenti strutturali associati alla globalizzazione capitalista e alla integrazione di Israele e del Medio Oriente nel nuovo ordine mondiale. La globalizzazione del Medio Oriente alla fine del XX secolo cambiò radicalmente la struttura sociale di Israele e l’economia politica del suo progetto coloniale. La ristrutturazione alla luce della globalizzazione capitalista ha provocato un importante cambiamento riguardo ai Palestinesi in questo progetto e le condizioni che fanno sì che nella destra israeliana sia più facile la crescita dello spettro del genocidio.
OSLO E LA GLOBALIZZAZIONE DI ISRAELE
La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ’80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ’93 e che naufragarono negli anni seguenti. I poteri forti transnazionali, dato che la guerra fredda affondò l’economia capitalista globale emergente che non si poté stabilizzare e si dovette assicurare l’accumulazione di capitale transnazionale nel bel mezzo di violenti conflitti regionali in tutto il mondo, cominciarono a premere per il piano di “soluzione dei conflitti” o la soluzione negoziata dei conflitti acuti regionali, dal Centro America fino all’Africa del sud. Appoggiati e spinti dagli USA, dai poteri forti transnazionali come anche da potenti gruppi capitalisti israeliani, i dirigenti israeliani cominciarono negoziati con i dirigenti palestinesi nella decade dei ’90, primariamente come risposta all’aumento della resistenza palestinese sotto forma della prima Intifada (1987-1991). Il processo di Oslo si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente (un’ integrazione che costituisce anche il contesto strutturale dalla primavera araba, anche se questa è un’altra storia).
Gli accordi di Oslo, firmati nel 1993, concessero una certa autonomia all’autorità palestinese (AP) riguardo gli insediamenti palestinesi nei territori occupati, dei quali si auspicava un periodo di transizione di 5 anni, entro il quale i negoziati sarebbero continuati fino ad arrivare a uno “statuto finale” dei temi in questione, lo statuto dei rifugiati (e il loro diritto al ritorno), il tema Gerusalemme, l’acqua, le frontiere definitive e una ritirata di Israele dai ter
ritori occupati. Nonostante ciò, durante il periodo di Oslo (1991-2003, quando il processo fallì totalmente), l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente.
Perché fallì il processo di pace?
In primis, il processo non era destinato a risolvere la difficile situazione dei Palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei territori occupati. Si è dimostrato, di fatto, che la formazione di classi in Palestina durante questo periodo implicava un aumento dei capitali transnazionali palestinesi per integrarli coi capitali del Golfo e in altri luoghi e con la speranza di convertire un nuovo stato palestinese in una piattaforma per il proprio consolidamento di classe.
Si sperava che la AP servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei territori occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta.
In secundis, l’economia israeliana globalizzata si basa su un complesso militare e di sicurezza altamente tecnologico, la cui importanza diventa manifesta. Si produsse una compenetrazione ogni volta più profonda del capitale israeliano col capitale corporativo transnazionale di USA, Europa, Asia ed altri luoghi. Effettivamente, il capitale israeliano si è integrato strettamente nei circoli globali del capitale. Oslo aiutò durante questo processo, facilitando una presenza capitalista transnazionale israeliana in tutto il Medio Oriente e oltre; in parte, nel permettere che i regimi arabi conservatori applicassero un boicottaggio economico regionale di Israele e in parte per l’ apertura di negoziati per la creazione di un’Area di Libero Commercio per il Medio Oriente (MEFTA-Middle East Free Trade Area) che inserisce l’economia israeliana nelle reti economiche regionali (comprendendo, per esempio, Egitto, Turchia e Giordania) integrando tutta la regione molto più profondamente nel capitalismo globale.
In fine, strettamente correlato, Israele visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ’90, anche se la situazione cambierà poi nel secolo XXI.
Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ’80, la relazione di Israele coi Palestinesi rifletteva il classico colonialismo nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare sfruttandoli. Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il nord Africa e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi.
LA GLOBALIZZAZIONE FA DIVENTARE I PALESTINESI “UMANITA’ ECCEDENTE”
L’economia israeliana soffrì due ondate di ristrutturazione mano a mano che si integrava nel capitalismo globale, come Nitzan e Bichler mostrano nel loro studio, “L’Economia Politica Di Israele“. La prima negli anni ’80 e ’90, fu una transizione dall’agricoltura tradizionale e l’economia industriale verso una basata sull’informatica e la tecnologia dell’informazione (TIC), alta tecnologia delle telecomunicazioni, le tecnologie della rete e così seguendo. Tel Aviv e Haifa si convertirono nel “fronte del Medio Oriente” di Silicon Valley, nell’anno 2000, il 15% del PIL di Israele e la metà delle esportazioni avevano origine dal settore dell’alta tecnologia.
Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”. Israele è stato la patria di imprese pioniere nella tecnologia della così chiamata “industria della sicurezza”. Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare. Gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana.
“Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di $ annuali, secondo quanto riporta da Naomi Klein nel suo saggio “La Dottrina Dello Shock”. “Nel 2006 le esportazioni della difesa del paese raggiunsero il record di 3.400 miliardi di $ (rispetto ai 2.600 miliardi di $ del 1992).
Questo fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito. Israele ha più azioni tecnologiche quotate alla borsa Nasdaq (molte delle quali collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero. E ha più brevetti di alta tecnologia registrati negli USA di Cina e India unite. Il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, e in maggior misura, all’industria della sicurezza.
In altre parole, l’economia israeliana si alimentò della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e le disuguaglianze. Le sue principali imprese hanno finito per dipendere dal conflitto e la guerra in Palestina, nel medio Oriente e in tutto il mondo, e fomenta questi conflitti attraverso la sua influenza sul sistema politico israeliano e sullo stato. Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli USA e di tutta l’economia mondiale globalizzata. Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come USA e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina.
L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo“.
La popolazione palestinese dei territori occupati costituisce fino al decennio dei ’90, una forza lavoro a basso costo per Israele. Però con gli incentivi all’immigrazione di ebrei di tutto il mondo e con il collasso della vecchia Unione Sovietica, una gran affluenza di insediamenti ebrei si è stabilita negli ultimi anni, includendo un milione di ebrei sovietici, spesso loro stessi resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica. In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare mano d’opera immigrante transnazionale dall’Africa, Asia e altri luoghi, dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo mondo.
Il sorgere di nuovi sistemi di mobilità lavorativa transnazionale e la contrazione (economica ndt) han reso possibile ai gruppi dominanti di tutto il mondo la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie private dei loro diritti e facili da controllare. Nonostante questo sia un fenomeno mondiale, esso si è tramutato in un’opzione particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di mano d’opera palestinese politicamente problematica. Oltre 300.000 lavoratori immigranti provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, allo stesso modo nel quale la mano d’opera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense e nella stessa condizione precaria di supersfruttamento e discriminazione. Il razzismo che molti Israeliani hanno mostrato nei confronti dei Palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigranti in generale, man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista.
Dato che l’ immigrazione ha eliminato la necessità di Israele di avere mano d’opera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. Klein segnala che: “Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici, Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese così come la California non potrebbe funzionare senza i messicani… Circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei territori”.
Non ci deve sembrare strano, quindi, che precisamente nel 1993 (l’anno in cui si firmarono gli accordi di Oslo) Israele impose la sua nuova politica, conosciuta come di “chiusura”, ossia, il confinamento dei Palestinesi nei territori occupati, la pulizia etnica e un forte aumento degli insediamenti. Nel ’93, l’anno nel quale cominciò la politica di “chiusura”, il reddito procapite nei territori occupati crollo del 30%. Nel 2007 il tasso di disoccupazione e povertà arrivavano al 70%. Dal ’93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno stato palestinese, i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese.
Il collasso degli accordi di Oslo e la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali e alcuni dei suoi omologhi israeliani che desiderano trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti. Vista dalla logica dei settori dominanti del capitale militarizzato incrostato nell’economia israeliana e internazionale, questa situazione non costituisce una tragica perdita di opportunità per la soluzione di conflitti; anzi, è un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno.
Una volta che dissipiamo la nebbia ideologica e la retorica, sono questi potenti interessi economici quelli che sono arrivati a esercitare un’influenza decisiva sulla politica statale di Israele. “La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desider
io nei i settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore” osservava Klein già vari anni fa “così come una chiara strategia per ridefinire il loro conflitto con i palestinesi non come una battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti, ma come parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente in obiettivi di distruzione”.
In un articolo d’opinione dell’anno 2009 intitolato “Israele sa che la pace non rende” pubblicato da Haaretz, il “periodico israeliano di riferimento”, Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani, commentò che l’industria della sicurezza è un importante settore dell’esportazione, armi, munizioni, e miglioramenti che si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania… la protezione degli insediamenti richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot”. Hass continua “Questi sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche , le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni”.
LA SOCIOLOGIA DEL RAZZISMO E DEL GENOCIDIO: DA FERGUSON AI TERRITORI OCCUPATI
La sociologia delle relazioni etniche/razziali identifica 3 tipi distinti di strutture razziste, ossia le relazioni strutturali tra i gruppi dominanti e le minoranze. Una è quella che è stata chiamata delle “minoranze di intermediari” . In questa struttura, il gruppo minoritario ha una relazione di mediazione tra il dominante e i gruppi subordinati. Questa è stata storicamente l’esperienza dei commercianti cinesi d’oltremare in Asia, dei Libanesi e Siriani nell’Africa occidentale, degli indiani nell’est Africa, dei meticci in Sudafrica e degli ebrei in Europa. Quando le “minoranze di intermediari” perdono la loro funzione mano a mano che cambiano le strutture, possono essere assorbite dal nuovo ordine o possono diventare capri espiatori, o addirittura subire un genocidio.
Gli ebrei occuparono storicamente questo ruolo di “minoranza di intermediari” nell’Europa feudale e nel capitalismo in nuce. La struttura dell’Europa feudale assegnò agli ebrei certe funzioni vitali per l’espansione della società feudale europea. Queste includevano la gestione del commercio a lunga distanza e il prestito di denaro. Queste attività furono vietate dalla Chiesa Cattolica e non erano parte normale delle relazioni tra padrone-servo nel cuore del feudalesimo; nonostante ciò erano vitali per il mantenimento del sistema. Quando il capitalismo si sviluppo nei secoli XIX e XX, nuovi gruppi capitalisti assunsero le funzioni di commercio e bancarie, perciò il ruolo degli ebrei risultò superfluo per le nuove classi dominanti. Come risultato gli Ebrei in Europa soffrirono intense pressioni mano a mano che il capitalismo si sviluppava e sporadicamente soffrirono il genocidio, come capro espiatorio delle difficoltà del capitalismo, la perdita del loro ruolo economico che prima era vitale, la crisi mondiale del 1930 e la ideologia e il programma nazista.
Un secondo tipo di struttura razzista è quella che chiamiamo “il supersfruttamento e/o la disorganizzazione della classe operaia”. Questa è una situazione nella quale il settore razziale subordinato e oppresso dentro la classe sfruttata occupa i gradini più bassi dell’economia e della società, in particolare dentro una classe operaia razziale o etnicamente stratificata. Il concetto chiave qui è che il lavoro del gruppo subordinato (i loro corpi, la loro esistenza) è necessario per il sistema dominante, anche se il gruppo sperimenta emarginazione culturale e sociale e la privazione dei diritti politici. Questa fu l’esperienza storica schiavista degli afroamericani in USA, così come quella degli irlandesi in Inghilterra, dei latini attualmente in USA, degli indios Maya in Guatemala, degli africani in SudAfrica sotto l’apartheid e così successivamente. Questi gruppi sono con frequenza subordinati sociali, culturali e politici sia che questo sia di fatto o per legge. Rappresentano il settore dei supersfruttati e discriminati, lavorativamente , razzialmente e etnicamente divisi e situati nelle classi popolari. Questa fu l’esperienza dei palestinesi nell’economia politica israeliana fino a poco tempo fa e nelle circostanze uniche di Israele e della Palestina nel XX secolo.
La struttura razzista finale è l’esclusione e l’appropriazione delle risorse naturali. Questa è una situazione nella quale il sistema (gruppo ndt) dominante necessita delle risorse del gruppo subordinato, ma non del loro lavoro (né dei loro corpi, né della loro esistenza fisica).
Questa è la struttura razzista che più facilmente conduce a un genocidio. Fu l’esperienza dei nativi americani nell’America del nord. I gruppi dominanti necessitavano della loro terra, però non del loro lavoro o dei loro corpi, dato che gli schiavi africani e gli europei già offrivano la mano d’opera necessaria per il nuovo sistema, e pertanto furono vittime del genocidio. E’ stata l’esperienza dei gruppi indigeni dell’Amazzonia. Lì furono scoperte, nella loro terra, nuove e enormi risorse minerarie e energetiche. E nondimeno e letteralmente, (questi indigeni ndt) anche se non sono necessari, interpongono i loro corpi nel cammino del capitale verso le risorse. Per questo attualmente ci sono pressioni per riattivare il genocidio.
Questa è la situazione più recente che gli afroamericani affrontano negli USA. Molti afroamericani passarono dallo stare nel settore dei supersfruttati della classe operaia all’emarginazione quando i datori di lavoro cambiarono la mano d’opera sfruttata afroamericana per quella degli immigranti latini che diventarono i supersfruttati. Come gli afrostatunitensi, in quantità significativa, diventarono strutturalmente emarginati; sono oggetto di una crescente privazione dei loro diritti, di criminalizzazione, della falsa “guerra contro le droghe”, della incarcerazione di massa e del terrore della polizia e dello stato. Sono visti dal sistema come necessari per controllare una popolazione non necessaria e ribelle.
Allora, come i nativi americani prima di loro ( e a differenza dei sudafricani neri) i corpi palestinesi non sono più necessari e semplicemente stanno intralciando lo stato sionista, i gruppi dirigenti, i coloni e gli aspiranti coloni che necessitano delle risorse palestinesi, specificamente la terra, però non dei palestinesi. In verità, anche se i lavoratori palestinesi vengono eliminati dall’economia israeliana, migliaia di palestinesi di Cisgiordania ancora lavorano in Israele. Gli immigranti ebrei russi e altri che sostituirono la mano d’opera palestinese in Israele nella decade dei ’90 continuarono negli anni seguenti confidando nel proprio privilegio razziale per entrare nella classe media israeliana, dato che non vogliono occupare posti di lavoro relazionati con gli arabi. Così successe che gli Africani, gli Asiatici e altri immigranti del sud globalizzato continuarono ad arrivare in Israele. Questo cambio di direzione volta a farli divenire “l’umanità in eccesso” sembra essere più avanzato per gli abitanti di Gaza, che rimangono bloccati e relegati nel campo di concentramento nel quale Gaza si è convertita. I Palestinesi di Gaza appaiono come il primo gruppo che affronta il tormento del genocidio.
I sionisti e i difensori di Israele considerano come una grande offesa qualsiasi analogia tra i nazisti e le azioni dello stato di Israele, inclusa l’accusa di genocidio, in parte a causa del fatto che l’olocausto ebreo è utilizzato dallo stato di Israele e del progetto sionista politico come meccanismo di legittimazione; perciò parlare di queste analogie significa rivelare il discorso di legittimazione israeliano. E’ cruciale indicare ciò, perché questo discorso è arrivato poco a poco a legittimare le politiche o le proposte israeliane in corso che dimostrano una similitudine ogni volta più allarmante con altri esempi storici di genocidio.
Il notevole storico israeliano Benny Morris, professore dell’università Ben Gurion del Negev, che si identifica strettamente con Israele, concesse una lunga intervista al periodico Haaretz nel 2004, dove si riferiva al genocidio dei nativi americani al riguardo di ciò che sono oggi gli Stati Uniti d’America con il fine di suggerire che il genocidio può essere accettabile. Disse nell’intervista “anche la grande democrazia statunitense non poté essere creata senza l’ annichilazione degli indios. Ci sono casi nei quali il bene finale globale giustifica atti aggressivi e crudeli che si commettono nel corso della storia”. Successivamente, fece un richiamo alla pulizia etnica dei palestinesi, dicendo, “bisogna costruire per loro qualcosa di simile a una gabbia. So che suona terribile. E’ realmente crudele. Però non c’è
altra opzione. C’è un animale selvaggio che bisogna rinchiudere in un modo o nell’altro”.
Le opinioni di Morris non rappresentano il consenso dentro Israele, molto meno nell’ambito internazionale e ci sono varie divisioni, punti di tensione e contraddizioni tra i gruppi di potere israeliani e transnazionali. C’è anche un crescente movimento mondiale di boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni (BDS) che fanno pressione sui gruppi dominanti per arrivare a un accordo che difenda i loro propri interessi economici. Questo è un momento imprevedibile. Ci siano o no pressioni strutturali in favore del genocidio, in realtà la materializzazione del progetto di genocidio dipenderà dalla congiuntura storica della crisi, dalle condizioni politiche e ideologiche che fanno del genocidio una possibilità e un agente dello stato con i mezzi e la volontà per attuarlo. Visibilmente a Gaza è già cominciato un genocidio al rallentatore, dove ci sono stati assedi israeliani per mesi ogni pochi anni che mietono migliaia di morti, decine di migliaia di feriti, centinaia di migliaia di profughi e tutta la popolazione privata delle condizioni basilari di vita, con l’eclatante appoggio pubblico israeliano che appoggia queste campagne. Queste condizioni generali necessarie a un progetto di genocidio sono lontane dal materializzarsi, però certamente in questo momento si stanno infiltrando. Tocca alla comunità internazionale lottare a fianco dei Palestinesi e degli Israeliani decenti per evitare tale risultato.
Mi piacerebbe ringraziare Yousef Baker e Mariam Griffin per i loro commenti e suggerimenti alle precedenti bozze di questo articolo.
William I. Robinson è professore di sociologia, studi globali e latinoamericani nell’università di California a Santa Barbara. Il suo libro più recente è “Il Capitalismo Globale e la Crisi dell’Umanità”.
Fonte: www.truth-out
19.09.2014
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MATTANZA