L’economia politica del Coronavirus

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Il mondo, e l’Italia in particolare, è ormai stravolto dall’emergenza Coronavirus (Covid-19). Non è certo questa la sede per discutere degli aspetti medici dell’epidemia, con quasi 100.000 contagiati dalla Cina (80.000) alla Germania (400), dall’Iran (3.500) agli Stati Uniti (150). Ma non tutto è appannaggio dei tecnici della medicina, e la gestione dell’epidemia da parte del Sistema Sanitario Nazionale (SSN) ha una dimensione economica, dunque politica, profonda.

L’importanza della dimensione economica del problema si coglie immediatamente a partire da una semplice considerazione. Nel discutere degli effetti del contagio del Covid-19, si usa prendere come un dato il tasso di letalità (ossia il rapporto tra deceduti e contagiati), indicato nell’ordine del 3,4% dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tuttavia, posta una determinata mortalità intrinseca della malattia, quel dato dipende in misura importante dalla capacità del SSN di gestire la diffusione del virus: quel tasso di mortalità corrisponde infatti ad una situazione, quale quella iniziale, in cui le strutture sanitarie sono in grado di accogliere i pazienti e garantirgli un trattamento adeguato alla gravità dello stato di salute. I dati del Ministero della Salute sulla diffusione del virus in Italia ci dicono che il Covid-19 impone al 10% dei contagiati la terapia intensiva, e a un altro 50% il ricovero ospedaliero con sintomi, con un tasso di letalità che nel caso italiano raggiunge il 3,8%.

Secondo le notizie più recenti (dati al 6 marzo 2020) in Italia ci sarebbero, a due settimane dalla comparsa del virus, 3.916 persone attualmente positive al Covid-19. Se invece consideriamo il numero complessivo di contagiati (4.636) – comprensivo di guariti dimessi e deceduti – ed escludiamo coloro che sono rimasti in isolamento domiciliare (1.060), otteniamo il numero di persone che hanno potuto finora usufruire del servizio sanitario pubblico: 3.576. Ipotizzando, per semplicità, che il contagio proceda al ritmo medio di questo primo periodo, avremmo circa 240 nuovi contagiati giornalieri a carico del SSN. Ne discende che ogni giorno la sola emergenza Covid-19 occuperebbe circa 24 posti letto in più in terapia intensiva (dato che il 10% dei contagiati abbisognerebbe di terapia intensiva) e 120 nuovi posti letto base. Qualora l’epidemia dovesse diffondersi ancora, potrebbe saturare le strutture ospedaliere del sistema sanitario nazionale. In questo scenario, non saremmo più in grado di garantire il trattamento medico corrispondente allo stato di salute dei contagiati: pazienti con necessità di un semplice ricovero sarebbero costretti a rimanere a casa, senza alcuna assistenza medica, e pazienti che necessitano di un ricovero in terapia intensiva sarebbero trattenuti presso i reparti di base, senza i macchinari utili a combattere le difficoltà respiratorie che il virus impone (non a caso, qualche ora fa sono state diramate delle raccomandazioni per l’ammissione a trattamenti intensivi). Tutto questo si rifletterebbe ragionevolmente in un aumento del tasso di mortalità: un aumento che non dipende affatto dall’aggressività specifica del Covid-19, ma sarebbe determinato unicamente dalle carenze del sistema sanitario nazionale. Un problema tutto politico.

Se guardiamo al SSN, in Italia ci sono circa di 191.000 posti letto: 3,6 ogni 1.000 abitanti, contro i 4,7 della media OCSE, i 5 della Francia e gli 8 della Germania. Di questi, solo 5.090 sono posti letto in terapia intensiva. Se il contagio procedesse esattamente agli stessi ritmi con cui il virus si è propagato fino ad oggi, impegnerebbe circa 24 nuovi posti in terapia intensiva al giorno: nell’arco di circa 200 giorni i malati di Covid-19 occuperebbero tutti i posti esistenti oggi. Ovviamente la situazione è peggiore di questa ipotesi semplificatrice, per due ragioni principali: da un lato, buona parte dei posti letto in terapia intensiva è già impegnata da pazienti che hanno altre malattie, e dall’altro nulla ci garantisce che il ritmo del contagio non acceleri (come pare avvenire giorno dopo giorno). Per di più, dobbiamo considerare che i posti letto sopra citati includono anche quelli presenti nelle strutture private, sempre più numerose soprattutto nelle regioni settentrionali che hanno subito le sciagurate politiche di privatizzazione implementate da Lega e Forza Italia. In definitiva, se le misure varate dal governo per circoscrivere il contagio non dovessero rivelarsi efficaci, il sistema sanitario nazionale sarebbe saturato nel giro di pochi mesi.

Perché l’Italia si trova a dover fronteggiare un’emergenza del genere con infrastrutture sanitarie di base così inferiori alla media dei principali paesi europei? Il recente Rapporto GIMBE sulla sostenibilità del SSN contiene molte delle risposte a questa domanda, perché descrive il violento processo di definanziamento della sanità attuato nell’ultimo decennio. Un numero riassume questo declino: 37 miliardi di euro di finanziamento pubblico sottratti al Servizio Sanitario Nazionale. In altre parole, abbiamo sacrificato sull’altare dell’austerità fiscale la nostra capacità di garantire cure adeguate alla popolazione: dieci anni di tagli alla spesa pubblica, dieci anni di rigida applicazione del dogma del pareggio di bilancio, hanno ridotto in macerie uno dei pilastri dello stato sociale del nostro Paese, il suo servizio sanitario, col pretesto della crisi dei conti, sotto il ricatto del debito pubblico.

I cani da guardia dell’austerità possono sbraitare quanto vogliono contro le presunte fake news sui tagli alla sanità, ma negli ultimi dieci anni i numeri parlano chiaro: se consideriamo i dati sui finanziamenti reali al SSN invece di quelli nominali, ossia i dati depurati dall’inflazione, vediamo chiaramente che i finanziamenti si sono ridotti nell’arco del decennio. Se ciò non bastasse, basta osservare tutte le altre statistiche rilevanti: per lo studio Anao-Assomed dello scorso febbraio, il numero degli istituti di cura è passato da 1.165 (2010) ai 1.000 del 2017 (-14%) e il numero dei posti letto da 245.000 (2010) ai circa 210.000 del 2017. A tutto questo, dobbiamo aggiungere l’effetto devastante del blocco del turnover sull’organico del SSN, sul numero di medici e infermieri, a fronte di un invecchiamento della popolazione che richiederebbe invece nuove assunzioni: l’ISTAT ha stimato che il gap occupazionale con l’UE (15) ammonta a quasi 1,5 milioni di addetti nel settore della sanità e dell’assistenza sociale. Un’enormità.

Davanti all’emergenza odierna dobbiamo reagire rivendicando un Sistema Sanitario Nazionale realmente universale, cioè capace di garantire cure adeguate e di far fronte alle emergenze. In queste ore il Governo parla di un aumento del deficit pubblico di circa 7,5 miliardi di euro. In termini assoluti sembrano una cifra consistente, ma il Rapporto GIMBE ci permette di coglierne la reale portata: la cifra che, a quanto pare, dovrebbe essere messa sul tavolo dal Governo deve servire non solo a rafforzare il sistema sanitario, ma anche a sostenere famiglie e imprese in tutto il paese, specie negli ambiti economici devastati dalle conseguenze indirette dell’epidemia. Se anche immaginassimo che queste risorse venissero destinate esclusivamente al SSN, questa cifra sarebbe un quinto di quello che l’applicazione dei vincoli di bilancio europei hanno sottratto al sistema sanitario italiano. Le solite briciole. Il Governo sa che quella cifra non basterà, ma la sua priorità è la compatibilità con il progetto di integrazione europeo, è il rispetto delle regole fissate dall’Unione europea, e quelle regole ammettono pochi margini per la flessibilità dei conti per i casi di emergenza.

Alle misure insufficienti finora implementate dal governo, si aggiunge, peraltro, l’atteggiamento vergognoso delle istituzioni europee, le quali hanno tardato fino ad oggi a rispondere alle richieste di flessibilità. La questione qui si fa davvero paradossale: anche di fronte a un’emergenza sanitaria di queste proporzioni, qualsiasi governo che volesse intervenire per limitare i danni sanitari ed economici dell’epidemia si troverebbe nella condizione di presentarsi davanti alla Commissione Europea, con il cappello in mano, a chiedere il permesso di utilizzare risorse pubbliche per affrontare la situazione.

La tutela della salute dei cittadini impone di rompere lo schema del rigore dei conti imposto dai trattati europei, e ci costringe, fin dall’immediato, a muoverci fuori da quella compatibilità. Dobbiamo riprenderci il servizio sanitario che avevamo prima dell’esplosione della crisi, prima che i governi dell’austerità ci puntassero la pistola dello spread alla tempia. Dobbiamo anzitutto riprenderci quei 37 miliardi di euro. Ma non è sufficiente: a emergenza conclusa, dobbiamo fare tesoro dell’amara lezione di questa vicenda per riporre con urgenza, sul tavolo politico, la centralità di un sistema sanitario gratuito, universale, capillare ed efficace per tutti, dopo anni di privatizzazione, ticket odiosi e scarsità di investimenti. È una questione di civiltà.

Fonte: L’economia politica del Coronavirus

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