DI FRANCO BERARDI BIFO
Qualche anno fa mi trovavo a Vancouver per visitare il mio amico Andrew che lavorava alla Electronic Arts, un’azienda di produzione di videogames.
Andai a trovarlo in azienda, e mi portò a fare un giro per i reparti. Al collaudo c’erano alcune decine di ragazzi che otto ore al giorno collaudavano le nuove produzioni, giocando ininterrottamente davanti allo schermo. Il mio amico mi disse: «Sai, l’altro giorno ho dato un passaggio a uno di loro, e prima di salutarlo gli ho chiesto: “E questa sera che fai?”. Lui mi ha detto, tranquillo tranquillo: “Gioco con i miei videogames”. “Possibile? Dopo otto ore che lo fai per lavoro torni a casa e continui a giocare?”. Lui mi ha guardato con un sorrisetto triste e mi ha detto: “Beh, sai, nell’ultimo mese mi è arrivata una sola telefonata, era di un tizio che aveva sbagliato numero”».Quando Andrew mi raccontò quella storia, per un attimo trattenni sbalordito il respiro: tutto mi appariva improvvisamente più chiaro. La prima generazione videoelettronica, quella che ha imparato più parole dalla macchina televisiva che dalla mamma non può essere ridotta a nessuna definizione univoca, come nessuna generazione, mai. Ho pensato al racconto di Andrew sentendo la notizia dei due ragazzi di Lecco. Alla loro storia e a come è stata raccontata.
E’ difficile non rendersi conto del fatto che qualcosa è accaduto e sta accadendo nelle profondità dell’inconscio macchinizzato di coloro che oggi raggiungono la maggiore età. Sono cresciuti negli anni in cui i papà e le mamme erano sempre meno disponibili a occuparsi di loro perché l’orario di lavoro diventava sempre più lungo e flessibile in nome della competitività. Nella loro vita quotidiana si è aperto un abisso di tristezza e solitudine, riempito dalla competizione nel conformismo, dalle misere trasgressioni di chi non conosce altro che la miseria, e talvolta dalla violenza e dall’aggressività.
Ogniqualvolta leggo un episodio di cronaca di questo genere ciò che mi viene in mente è il deserto interiore: l’occupazione del tempo di vita da parte di quantità sempre più massicce di lavoro mal-salariato, l’intensificazione del ritmo degli impulsi mediatici a cui la mente infantile è esposta quotidianamente, la cancellazione progressiva dei luoghi che rendono possibile una qualche socialità.
I due ragazzi che a Lecco hanno ammazzato un benzinaio fanno parte di una galleria sempre più lunga, ormai quasi interminabile di automi irresponsabili. Quelli che uccidono finiscono sui giornali per qualche giorno, ma non sono che un piccolo segnale di una devastazione enormemente più ampia.
La mente della prima generazione videoelettronica sembra investita da un vero e proprio processo di mutazione psichica, percettiva, linguistica, comportamentale. La velocità del bombardamento videoelettronico rende impossibile una elaborazione discorsiva del vissuto emozionale. Il corpo della madre non esiste più per le carezze e il toccamento perché è risucchiato nel quotidiano caos della sopravvivenza metropolitana. E la scomparsa del corpo della madre distrugge, isterilisce l’affettività ed il piacere della corporeità. L’alterità sensibile, il corpo dell’altro diviene una realtà fastidiosa, inaccessibile. Il passaggio all’atto avviene in condizioni di semi-sonnambulismo, come ha raccontato benissimo Gus Van Sant, nel suo Elephant, il film dedicato al massacro della scuola di Columbine.
Fra tutte le devastazioni che l’assolutismo del capitale sta producendo da un paio di decenni quella che investe la mente collettiva è la più sottile, la più difficile da investigare, ma certamente la più disastrosa, perché ha i caratteri dell’irreversibilità. Gli psichiatri consigliano il Ritalin, martellate sulla testa dei bambini disattenti a scuola, ottundimento sistematico della sensibilità. In America sette milioni di bambini sono sottoposti a questa cura di disattivazione dell’intelligenza. In compenso quest’estate abbiamo saputo dai giornali che nelle acque che sgorgano dai rubinetti di Londra ci sono ingenti quantità di prozac. Ventiquattro milioni di britannici (uno su quattro) si riprogramma consumando quelle pillole che permettono di tollerare l’oceano di miseria psichica in cui affoga il suddito del capitalismo totale.
Importanti dignitari politici fanno a gara per portare a casa un po’ di consenso, discutendo di repressione e di taglie, aizzando l’odio come se non ce ne fosse abbastanza, incrementando l’insensibilità e l’ignoranza. Ciò significa soltanto che non dispongono né della sensibilità né dell’intelligenza necessari per capire qualcosa di quel che sta accadendo nelle profondità psichiche in cui si forma il comportamento sociale.
Ma è un po’ sconsolante anche il fatto che i commenti giornalistici in larghissima maggioranza, anzi nella loro quasi totalità, riguardino soltanto le miserabili elucubrazioni strumentali di questi razzisti semianalfabeti che occupano qualche poltrona ministeriale. La chiacchiera politica in questi casi raggiunge il diapason della vacuità della strumentalità. Solo dei miserabili possono pensare di perimetrare un mutamento antropologico di tale profondità, che richiede ben altra attenzione e ben altre scelte politiche.
Franco Berardi Bifo
Fonte:www.liberazione.it
14.12.04
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