LE SOCIETA’ LIBERALI INTRAPPOLATE DAL TERRORISMO

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DI ALAIN DE BENOIST
Diorama

Ad oggi, sono state date oltre centodieci definizioni diverse del terrorismo. Nessuna è unanimemente accolta. Molte sono semplici tautologie («il terrorismo mira a provocare il terrore»), altre sono più descrittive che esplicative. Tutti concordano, ovviamente, nel riconoscere che il terrorismo associa obiettivi politici, un ricorso illegale alla violenza e un danno indiscriminato alle popolazioni, ma non tutte le forme di violenza politica (a partire dalla guerra o dalla guerriglia) hanno a che vedere con il terrorismo.

Il terrorismo prende frequentemente di mira dei civili – nel linguaggio dei media, degli “innocenti”, costruzione linguistica che consiste nell’esprimere sul terrorismo un semplice giudizio morale senza peraltro spiegarlo – ma le stesse guerre convenzionali continuano a colpire un numero sempre maggiore di civili. È una forma di azione illegale, ma l’uso illegale della violenza non è necessariamente terrorismo. Cerca di destabilizzare i pubblici poteri, ma non si confonde con la sovversione o con la semplice propaganda attraverso l’azione. Cerca anche di provocare paura, ma molte cose sono suscettibili di suscitare paura. Commette dei crimini, ma raramente i criminali cercano di destabilizzare la società, perché ciò non andrebbe a loro profitto.
Il termine rimane dunque vago, e per ciò stesso passibile di ogni sorta di strumentalizzazioni opportunistiche o di utilizzazioni metaforiche che rischiano di spogliarlo del suo significato. La diversità di ciò che poniamo sotto il termine “terrorismo” rende inoltre di scarso interesse le discussioni oziose sulla possibilità o l’impossibilità di «trovare una giustificazione al terrorismo» (è il vecchio dibattito sul “diritto” di punizione collettiva e sul fine che «giustifica i mezzi»).

L’importanza assunta oggi dal terrorismo non è connessa al numero delle sue vittime – la maggior parte dei conflitti armati ne fa molte di più senza provocare le stesse reazioni – bensì al fatto che il suo avvento su scala globale segna l’ingresso in un’altra epoca della guerra e dell’inimicizia.

Il terrorista globale non ha più granché a che vedere con il partigiano tradizionale. Contrariamente al guerrigliero, il suo scopo non è impadronirsi del potere né controllare fisicamente un territorio considerato come una base logistica o un bacino di reclutamento. Egli conduce una lotta asimmetrica, nella quale i computer e i telefoni portatili contano tanto quanto le armi e le munizioni. Prendendosela sia con i militari sia con i civili, dando spesso ampio spazio al concetto di “resistenza senza leader”, cioè senza legami di comando verticali e centralizzati (“Al-Qaeda” diventa un semplice marchio depositato), fa saltare tutte le tradizionali distinzioni della guerra classica. Inoltre è altrettanto mobile quanto una multinazionale: nell’espressione “terrorismo internazionale”, la parola che conta è “internazionale”. Ciò significa che il fronte sul quale si batte non è mai localizzato, e nel contempo dappertutto e in nessun luogo. La sua azione non conosce assegnazione territoriale, linee geografiche chiare. Più che la Terra, il suo ambito è lo spazio.

È un fenomeno la cui portata è prima di tutto psicologica. Cercando di provocare contemporaneamente paura, inquietudine e sospetto, di colpire l’immaginazione suscitando reazioni emotive forti, il terrorismo globale rappresenta con ogni evidenza un attacco di ordine psicologico, che va molto al di là delle vittime che può causare. Esso del resto dissocia le vittime immediate e i veri bersagli, l’impatto materiale e l’impatto psicologico, non essendo il primo nient’altro che lo strumento del secondo. Già nel 1962, Raymond Aron diceva: «Un’azione violenta viene denominata terrorista quando i suoi effetti psicologici sono sproporzionati ai suoi risultati puramente fisici».

Nella misura in cui la violenza terroristica è una violenza riflessiva, il cui reale obiettivo è più ampio dell’obiettivo immediato, essa è connessa anche alla mediologia: mira ad inviare un messaggio – e il danno è tale messaggio. Un attentato terroristico fa sempre meno vittime di quanti sono i suoi spettatori; da ciò la relazione intima e traumatizzante, che si stabilisce fra il terrorista e l’opinione pubblica. Il terrorismo dipende infatti strettamente da quel che se ne dice e da quel che se ne mostra: soltanto la diffusione mediatica conferisce all’atto terroristico la sua portata, il che vuoi dire che i media fanno essi stessi parte del terrore. In questo senso, il terrorismo è effettivamente figlio della società della comunicazione e dello spettacolo. Alla società dello spettacolo corrisponde il terrorismo dello spettacolo – il terrorismo in quanto spettacolo. Proprio per questo motivo, questa società è vulnerabile alla sua propagazione virale tanto quanto lo è ad altri virus.

Infine, il terrorismo è una violenza simbolica, nel senso forte del termine. Una violenza simbolica associata a strutture operative e che cerca di destabilizzare gli animi provocando un eccesso di realtà, che si sostituisce alle forme correnti del reale. Tramite il suo carattere imprevedibile, il terrorismo stupisce una società per la quale l’esercizio della politica passa attraverso l’esclusione della violenza, avendo dimenticato che la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi.

I poteri pubblici sostengono spesso di «fare la guerra al terrorismo», ma la guerra mira sempre a far cedere una volontà politica. E del resto non esiste guerra senza un nemico riconosciuto. Ma, contrariamente alla guerra convenzionale e alla guerriglia, il terrorismo non ha uno status giuridico secondo il diritto internazionale. Il terrorismo non può essere oggetto di riconoscimento da parte degli Stati. Con esso non si pone il problema di negoziare o di concludere un trattato di pace. Non essendo un nemico riconosciuto, è abbassato ad un livello infrapolitico, dal quale sono escluse tutte le regole del gioco politico. Di conseguenza, viene trattato esclusivamente come una impresa criminale, che ha a che vedere con l’azione della polizia, con la conseguenza o di negarne il carattere politico o di generare una nuova forma di criminalizzazione della politica. Da ciò l’equivoco della «guerra al terrorismo», dato che dichiarare guerra al terrorismo significa riconoscergli lo status, che per altri versi gli si nega. E che gli si nega a torto, perché il terrorismo è prima di tutto effettivamente un fenomeno politico. Né “assurdo” né “gratuito”, ha cause politiche e persegue obiettivi politici. Si può lottare contro di esso a valle con mezzi di polizia, ma si può venirne a capo a monte solo politicamente.

Per il momento, la più grande vittoria dei terroristi è stata senza dubbio l’aver condotto le società liberali a smascherarsi come società capaci di ricorrere, per lottare contro di loro, a tutti i provvedimenti d’eccezione – sorveglianza generalizzata della popolazione, ricorso alla tortura, agli internamenti arbitrari e alle prigioni segrete – che il loro discorso ufficiale smentisce. La loro più grande vittoria è nel fatto di essere stati elevati al rango di nemici assoluti da coloro che essi stessi considerano tali, costringendoli così a collocarsi sul loro stesso terreno. L’idea dominante è infatti che, poiché i terroristi sono capaci di tutto, tutto è egualmente consentito contro di loro. Hannah Arendt distingueva fra il “nemico oggettivo” e il “sospetto”.

La lotta antiterrorista ha l’effetto di abolire sempre più questa distinzione. Le libertà politiche fanno già sin d’ora parte delle sue vittime collaterali. «Colpirne uno per educarne cento», diceva Stalin, buon conoscitore della questione.

David C. Rappoport, professore all’Università della California a Los Angeles nonché fondatore della rivista “Terrorism and Political Violence”, distingue nella storia moderna quattro grandi ondate di terrorismo.

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La prima, che comincia in Russia negli anni Ottanta del XIX secolo e si espande rapidamente nei Balcani e in Europa occidentale, è opera soprattutto di anarchici. Il passaggio dal XIX al XX secolo sarà «l’età dell’oro dell’assassinio politico». Queste prime azioni terroristiche dei tempi moderni sono associate allo sviluppo della stampa quotidiana, allo sviluppo dei mezzi di trasporto e all’invenzione del telegrafo.

La seconda ondata è l’ondata anticolonialista, che comincia attorno al 1920 e prosegue per una quarantina d’anni, avendo il suo culmine intorno agli anni Sessanta. Sarà essa ad accreditare l’idea che i terroristi sono prima di tutto “combattenti della libertà”.

La terza ondata, di ampiezza minore, è quella delle organizzazioni di ultrasinistra che, dopo la morte del “Che” Guevara, predicano la guerriglia urbana: Brigate rosse (Italia), Action directe (Francia), Rote Armée Fraktion (Germania), ma anche Tupamaros (Uruguay), Montoneros (Argentina) ecc. Questa ondata, oggi ritiratasi nella maggior parte dei Paesi occidentali, sopravvive ancora in Nepal, in Perù, in Colombia ecc.

L’ultima è l’attuale ondata di un terrorismo globale a dominante “islamista”. Essa vede generalizzarsi le azioni suicide, assai impropriamente chiamate kamikaze (dato che i kamikaze giapponesi della seconda guerra mondiale erano truppe perfettamente regolari, che per giunta non hanno mai preso di mira bersagli civili), senza tuttavia averle inventate (già nel XIX secolo, l’assalitore che usava la dinamite era spesso ucciso dalla sua bomba). Alcuni autori fanno risalire quest’ultima ondata all’estate del 1968, data in cui il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina di George Habbash aveva dirottato due aerei della compagnia israeliana El Al. Tuttavia, a quel tempo non si può ancora parlare di “terrorismo globale”.

Il 1979 ha invece segnato una svolta essenziale, poiché ha visto (oltre all’inizio di un nuovo secolo dell’era islamica) nel contempo la rivoluzione iraniana e l’invasione sovietica dell’Afghanistan. La rivoluzione islamica di Teheran fu essenzialmente antiamericana, ma gli Stati Uniti non esitarono a sostenere e a finanziare i combattenti islamici afgani, la cui azione avrebbe condotto dieci anni dopo, nel 1988, al ritiro dell’Armata rossa. Dopo la caduta del Muro di Berlino e lo smantellamento del sistema sovietico, alcuni combattenti islamisti formati in Afghanistan proseguirono la loro lotta in Algeria e nelle ex repubbliche sovietiche a forte popolazione musulmana (Cecenia Uzbekistan, Kirghisistan, Tagikistan, Azerbaijan ecc.) poi in Iraq e altrove. All’epoca della guerra fredda, si riteneva che spesso i gruppi terroristici fossero manipolati dal Kgb sovietico. La scomparsa del Kgb non ha tuttavia fatto regredire il terrorismo, tutt’altro.

Alain De Benoist (Diorama)
Fonte: http://www.ariannaeditrice.it/
Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=10192
12.04.2007

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