FONTE: RIPENSAREMARX
Vi propongo questo articolo dell’analista politico Thierry Meyssan che ho tradotto
dal francese. Si tratta della lunga parabola delle rivoluzioni colorate, a partire da
quella cinese del 1989, finita nel bagno di sangue di Tien An Men, fino al tentativo,
fallito anch’esso, di capovolgere il presidente Ahmadinejad, rieletto a furor di
popolo, con quasi 11 milioni di voti di scarto rispetto al suo avversario, nelle ultime
elezioni iraniane. Un pezzo di rara saggezza e di meticolosa ricostruzione storica
che ha la forza di uno pugno intellettuale sferrato nei denti di chi, soprattutto a
sinistra, si è stracciato le vesti e si è commosso di fronte alla reazione violenta (ma
poteva esserlo di più) dei poteri costituiti iraniani, rei di non essersi inginocchiati al
cospetto dei principi della santissima democrazia (occidentale) e a quelli, ancor più
pretestuosi, dei diritti umani. Tra i neoservi s’iscrive, con un brano farneticante e
illogico (almeno rispetto alla sua precedente produzione teorica) – che non ci
risparmia nemmeno l’uso di un linguaggio conformista e spocchioso, per quanto
appena più sottile – anche Slavoj Zizek, del quale ho spesso, incautamente,
perorato le teorie dalle pagine virtuali di questo blog.
Il filosofo sloveno, che passa per essere un intenditore del pensiero di Marx e di
Lenin, finisce nella rete mediatica ordita dal circuito manipolatore filo-statunitense
come il più sguarnito (di armi critiche) uomo della strada, di colui che affolla
quell’“astrazione indeterminata” comunemente definita pubblica opinione.
Meyssan dà, sotto questo aspetto, una vera e propria lezione di marxismo a Zizek,
sostenendo il punto secondo il quale non si è mai vista una rivoluzione che anziché
puntare alla trasformazione delle strutture sociali (ergo ai rapporti sociali intorno ai
quali queste si condensano) mira a rovesciare fisicamente un gruppo di dominanti
per sostituirli con altri, ma più proni al potere imperiale statunitense (altro che
resurrezione del sogno popolare o utopia della rivoluzione! Sei tu che sei triste e
sconfortante caro Zizek). E Lenin, da par suo, era ancor meno suscettibile ai
rivoluzionarismi spirituali che animano Zizek, tanto da aver ritenuto oggettivamente
rivoluzionaria la lotta dell’emiro afghano (nonostante costui si basasse su principi
pienamente monarchici). Stalin riprende le affermazioni di Lenin nel suo “I principi
del Leninismo”: “Nelle condizioni dell’oppressione imperialistica, il carattere
rivoluzionario del movimento nazionale non implica affatto obbligatoriamente
l’esistenza di elementi proletari nel movimento, l’esistenza di un programma
rivoluzionario o repubblicano del movimento, l’esistenza di una base democratica
del movimento. La lotta dell’emiro afghano per l’indipendenza dell’Afghanistan é
oggettivamente una lotta rivoluzionaria, malgrado il carattere monarchico delle
concezioni dell’emiro e dei suoi seguaci, poiché essa indebolisce, disgrega, scalza
l’imperialismo, mentre la lotta di certi «ultra» democratici e «socialisti»
«rivoluzionari» e repubblicani dello stampo, ad esempio, di Kerenski e Tsereteli,
Renaudel e Scheidemann, Cernov e Dan, Henderson e Clynes durante la guerra
imperialista, era una lotta reazionaria, perché aveva come risultato di abbellire
artificialmente, di consolidare, di far trionfare l’imperialismo”. Non vede dunque
Zizek, in questa congiuntura storica, dove stanno i resistenti all’ordine imperiale e i
veri reazionari? Ed invece, contraddicendo sempre Lenin, l’orda degli intellettuali
infatuati solo dalla loro stessa fama di “radicalissimi”, si mettono completamente a
rimorchio delle parole d’ordine e delle campagne di manipolazione dei peggiori
dominanti, quelli egemoni: “Tutta la storia della democrazia borghese mette a nudo
questa illusione: per ingannare il popolo, i democratici borghesi hanno sempre
lanciato e sempre lanciano ogni sorta di “parole d’ordine”. Si tratta di controllare la
loro sincerità, di mettere a confronto le parole con i fatti, di non appagarsi della
frase idealistica o ciarlatanesca, ma di cercar di scoprire la realtà di classe”. I fatti
sono quelli che ci descrive Meyssan, e non la fandonie propinateci da Zizek. Avete
materiale per giudicare da soli.
Ps. Mi scuso per la traduzione approssimativa, ma non ho tempo per riguardarla
con attenzione.
Giovanni Petrosillo
DI THIERRY MEYSSAN
voltairenet.org
“La rivoluzione verde„ di Teheran è l’ultimo avatar “delle rivoluzioni colorate„ che
hanno permesso agli Stati Uniti di imporre governi al loro soldo in molti paesi senza
dover ricorrere alla forza. Thierry Meyssan che ha consigliato due governi di fronte
a queste crisi, analizza tale metodo e le ragioni del suo fallimento in Iran.
“Le rivoluzioni colorate„ stanno alle rivoluzioni come il Canada Dry sta alla birra. Vi
somigliano, ma ne non hanno il sapore. Sono cambiamenti di regime aventi
l’aspetto di una rivoluzione, poiché mobilitano vasti segmenti popolari, ma
dipendendo dal colpo di Stato non mirano a cambiare le strutture sociali, ma
sostituire un’elite a un’altra per condurre una politica economica e estera pro-USA.
“La rivoluzione verde„ di Teheran è l’ultimo esempio
L’origine del concetto
Questo concetto è apparso negli anni 90, ma trova le sue origini nei dibattiti USA
degli anni 70-80. Dopo le rivelazioni a catena circa i colpi di Stato fomentati dalla
CIA nel mondo, e la grande vetrina delle commissioni parlamentari Church e
Rockefeller (1), l’ammiraglio Stansfield Turner fu incaricato dal presidente Carter di
ripulire l’agenzia e cessare ogni sostegno “alle dittature sasalinghe„. Furiosi, i social
democratici statunitensi (SD/USA) lasciarono il partito democratico e raggiunsero
Ronald Reagan. Si trattava di brillanti intellettuali trotskisti (2), spesso legati alla
rivista Commentary. Quando Reagan fu eletto, affidò loro il compito di proseguire
l’ingerenza US, ma con altri mezzi. Così creano nel 1982 il National Endowment for
Democracy (NED) (3) e, nel 1984, l’United States Institute for Peace (USIP). Le
due strutture sono organicamente legate: amministratori del NED seggono nel
consiglio d’amministrazione del USIP e viceversa.
Giuridicamente, la NED è un’associazione senza scopo di lucro, di diritto US,
finanziata da una sovvenzione annuale votata dal congresso all’interno del bilancio
del Dipartimento di Stato. Per condurre le proprie azioni, le fa cofinanziare dall’US
Agency for International Development (USAID), essa stessa collegata al
Dipartimento di Stato. In pratica, questa struttura giuridica è soltanto un paravento
utilizzato congiuntamente dalla CIA, dal MI6 britannico e dall’ASIS australiano (e
occasionalmente dai servizi canadesi e neozelandesi). La NED si presenta come
un organo “di promozione della democrazia„. Interviene sia direttamente; sia con i
suoi quattro tentacoli: uno destinato a corrompere i sindacati, un secondo incaricato
di corrompere i patronati, un terzo per i partiti di sinistra ed un quarto per quelli di
destra; sia ancora tramite fondazioni amiche, come Westminster Foundation for
Democracy (Regno Unito), International Center for Human Rights and Democratic
Development (Canada), Fondation Jean-Jaurès e Fondation Robert-Schuman
(Francia), International Liberal Center (Svezia), Alfred Mozer Foundation (Paesi
Bassi), Friedrich Ebert Stiftung, Friedrich Naunmann Stiftung, Hans Seidal Stiftung
e Heinrich Boell Stiftung (Germania). La NED rivendica di avere corrotto così più di
6.000 organizzazioni nel mondo in una trentina di anni. Tutto ciò, naturalmente,
essendo camuffato sotto l’aspetto di programmi di formazione o d’assistenza.
La USIP, da parte sua, è un’istituzione nazionale statunitense. È sovvenzionata
annualmente dal Congresso nel bilancio del Dipartimento della Difesa. A differenza
della NED, che funge da copertura ai servizi dei tre stati alleati, la USIP è
esclusivamente statunitense. Sotto la copertura di ricerca in scienze politiche, può
pagare personalità politiche estere. Appena ha potuto disporre di risorse, la USIP
ha finanziato una nuova e discreta struttura, l’Albert Einstein Institution (4). Questa
piccola associazione di promozione della non-violenza era inizialmente incaricata di
prefigurare una forma di difesa civile per le popolazioni dell’Europa dell’Ovest in
caso d’invasione da parte dei paesi del Patto di Varsavia. Essa ha rapidamente
preso la sua autonomia ed ha modellizzato condizioni nelle quali un potere statale,
di qualunque natura esso sia, può perdere la sua autorità e crollare.
Primi tentativi
Il primo tentativo “di rivoluzione colorata„ è fallito nel 1989. Si trattava di
capovolgere Deng Xiaoping appoggiandosi su uno dei suoi parenti collaboratori, il
segretario generale del Partito comunista cinese Zhao Ziyang, in modo da aprire il
mercato cinese agli investitori statunitensi e fare entrare la Cina nell’orbita USA. I
giovani partigiani di Zhao invasero piazza Tienanmen (5). Furono presentati dai
mass media occidentali come studenti a-politici che si battevano per la libertà di
fronte all’ala tradizionale del partito, mentre si trattava di un dissenso all’interno
della corrente di Deng tra nazionalisti e filo-statunitensi. Dopo avere a lungo
resistito alle provocazioni, Deng decise di concludere con la forza. La repressione
fece tra i 300 e i 1000 morti secondo le fonti. 20 anni più tardi, la versione
occidentale di questo colpo di Stato mancato non è cambiata. I mass media
occidentali che hanno coperto recentemente quest’anniversario presentandolo
come “una sommossa popolare„ si sono stupiti del fatto che i pechinesi non
abbiano conservato memoria dell’evento. È che una lotta di potere nell’ambito del
partito non aveva nulla “di popolare„. Non si sentivano toccati.
La prima “rivoluzione colorata„ riesce nel 1990. Mentre l’Unione Sovietica era in
corso di smembramento, il segretario di Stato James Baker si recò in Bulgaria per
partecipare alla campagna elettorale del partito pro-USA, abbondantemente
finanziato dalla NED (6). Tuttavia, nonostante le pressioni del Regno Unito, i
bulgari, spaventati dalle conseguenze sociali del passaggio dall’URSS all’economia
di mercato, commisero l’imperdonabile errore di eleggere al Parlamento una
maggioranza di post-comunisti. Mentre gli osservatori della Comunità europea
certificarono la regolarità dello scrutinio, l’opposizione pro-USA urlò alla frode
elettorale e scese in strada. Installò un accampamento al centro di Sofia ed
immerse per sei mesi il paese nel caos, fino a che il Parlamento elesse a
presidente il filo-USA Zhelyu Zhelev.
“La democrazia„: vendere il proprio paese agli interessi stranieri all’insaputa della
propria popolazione
Da allora, Washington non ha cessato di organizzare cambiamenti di regime, un po’
ovunque nel mondo, mediante l’agitazione di piazza piuttosto che con giunte
militari. Occorre qui circoscrivere i giochi. Al di là del discorso lenitivo “sulla
promozione della democrazia„, l’azione di Washington mira all’imposizione di regimi
che gli aprono senza condizioni i mercati interni e si allineano alla sua politica
estera. Ma, se questi obiettivi sono conosciuti dai dirigenti “delle rivoluzioni
colorate„, non sono mai discussi ed accettati dai dimostranti che mobilitano. E,
qualora questo colpo di Stato riesca, i cittadini non ritardano a rivoltarsi contro le
nuove politiche che si impongono loro, anche se è troppo tardi per ritornare
indietro. D’altra parte, come si può considerare “democratiche„ quelle opposizioni
che, per prendere il potere, vendono il loro paese ad interessi stranieri all’insaputa
della loro popolazione?
Nel 2005, l’opposizione kirghisa contesta il risultato delle elezioni legislative e porta
a Bichkek dei dimostranti del Sud del paese. Fanno cadere il presidente Askar
Akaïev. È “la rivoluzione dei tulipani„. L’assemblea nazionale elegge a presidente il
filo-USA Kourmanbek Bakiev. Non riuscendo a controllare i suoi supporters che
saccheggiano la capitale, dichiara di avere cacciato il dittatore e finge di volere
creare un governo d’unità nazionale. Fa uscire di prigione il generale Felix Kulov,
ex sindaco di Bichkek, e lo nomina il ministro dell’interno, quindi primo ministro.
Quando la situazione si è stabilizzata, Bakaiev si sbarazza di Kulov e vende, senza
gara d’appalto e con i logici sotto banco, alcune risorse del paese a società USA ed
installa una base militare USA a Manas. Il tenore di vita della popolazione non è
mai stato così basso. Felix Kulov propone di sollevare il paese federandolo, come
in passato, alla Russia. Non tarda a tornare in prigione.
Un male per un bene?
Si obietta a volte, nel caso di Stati sottoposti a regimi repressivi, che se queste
“rivoluzioni colorate„ portano soltanto una democrazia di facciata, procurano
tuttavia benessere alle popolazioni. Ma, l’esperienza mostra che nulla è meno
sicuro. I nuovi regimi possono risultare più repressivi dei vecchi. Nel 2003,
Washington, Londra e Parigi (7) organizzano “la rivoluzione delle rose„ in Georgia
(8). Secondo uno schema classico, l’opposizione denuncia frodi elettorali in
occasione delle elezioni legislative e scende in strada. I dimostranti forzano il
presidente Edouard Chevardnadze a fuggire e prendono il potere. Il suo
successore Mikhail Saakachvili apre il paese agli interessi economici USA e rompe
con il vicino russo. L’aiuto economico promesso da Washington per sostituirsi
all’aiuto russo non arriva. L’economia, già compromessa, crolla. Per continuare a
soddisfare i suoi accomandanti, Saakachvili deve imporre una dittatura (9). Chiude i
mass media e riempie le prigioni, cosa che non impedisce assolutamente alla
stampa occidentale di continuare a presentarlo come “democratico„. Condannato
alla fuga in avanti, Saakachvili decide di rifarsi una popolarità lanciandosi in
un’avventura militare. Con l’aiuto dell’amministrazione Bush e di Israele al quale ha
affittato basi aeree, bombarda la popolazione dell’Ossezia meridionale, facendo
1600 morti, di cui la maggior parte ha la doppia nazionalità russa. Mosca risponde.
I consulenti statunitensi e Israeliani fuggono (10). La Georgia è devastata.
Quanto basta!
Il meccanismo principale “delle rivoluzioni colorate„ consiste nel mettere a fuoco
l’insoddisfazione popolare sull’obiettivo che si vuole abbattere. Si tratta di un
fenomeno di psicologia di massa che spazza tutto al suo passaggio ed al quale
nessun ostacolo ragionevole può essere opposto. Il capro-espiatorio è accusato di
tutti i mali che affliggono il paese almeno da una generazione. Più resiste, più la
rabbia della folla cresce. Sia che ceda o schivi, la popolazione ritrova i suoi
fantasmi, le spaccature tra i suoi partigiani ed i suoi oppositori riappaiono. Nel
2005, nelle ore che seguono l’assassinio del primo ministro Rafik Hariri, in Libano si
diffonde la voce che è stato ucciso “dai Siriani„. L’esercito siriano – che in virtù
dell’Accordo di Taëf – mantiene l’ordine dalla fine della guerra civile, viene
contestato. Il presidente siriano, Bachar el-Assad, è personalmente messo in
discussione dalle autorità statunitensi, cosa che è già una prova per l’opinione
pubblica. A quelli che fanno osservare che – nonostante momenti tempestosi Rafik
Hariri è sempre stato utile alla Siria e che la sua morte priva Damasco di un
collaboratore essenziale, si risponde che “il regime siriano„ è così cattivo in sé che
deve uccidere anche i suoi amici. I libanesi auspicano uno sbarco delle GI’s per
cacciare i Siriani. Ma, con generale sorpresa, Bachar el-Assad, ritenendo che il suo
esercito non è più il benvenuto in Libano mentre il suo spiegamento costa caro,
ritira i suoi uomini. Vengono organizzate elezioni legislative che vedono il trionfo
della coalizione “anti-siriana„. È “la rivoluzione dei cedri„. Quando la situazione si
stabilizza, ciascuno si rende conto che, se i generali siriani hanno in passato
saccheggiato il paese, la partenza dell’esercito siriano non cambia nulla
economicamente. Soprattutto, il paese è in pericolo, non ha più i mezzi per
difendersi di fronte all’espansionismo del vicino israeliano. Il principale capo “anti-
siriano„, il generale Michel Aoun, si ravvede e passa all’opposizione. Furiosa,
Washington moltiplica i progetti per assassinarlo. Michel Aoun si allea allo
Hezbollah attorno ad una piattaforma patriottica. Era tempo: Israele attacca.
In tutti i casi, Washington prepara in anticipo il governo “democratico„, cosa che
conferma bene che si tratta di un colpo di Stato mascherato. La composizione del
nuovo gruppo è tenuta segreta il più a lungo possibile. È per questo che la
designazione del capro-espiatorio è realizzata senza mai evocare un’alternativa
politica. In Serbia, i giovani “rivoluzionari„ filo-USA hanno scelto un logo che
appartiene all’immaginario comunista (il pugno teso) per mascherare la loro
subordinazione agli Stati Uniti. Hanno preso come slogan “egli è finito! „, federando
così gli insoddisfatti contro la personalità di Slobodan Milosevic che hanno ritenuto
responsabile dei bombardamenti del paese, tuttavia effettuati dalla NATO. Questo
modello è stato duplicato, ad esempio il gruppo Pora! in Ucraina, o Zubr in
Bielorussia.
Un non-violenza di facciata
I comunicatori del Dipartimento di Stato vegliano sull’immagine non violenta “delle
rivoluzioni colorate„. Davanti a tutte, le teorie di Gene Sharp, fondatore di Albert
Einstein Institution. Ma, la non-violenza è un metodo di combattimento destinato a
convincere il potere a cambiare politica. Affinché una minoranza si impadronisca
del potere e lo eserciti, gli occorre sempre, prima o poi, l’uso della violenza. E tutte
“le rivoluzioni colorate„ lo hanno fatto.
Nel 2000, nonostante il mandato del presidente Slobodan Milosevic durasse ancora
per un anno, convocò elezioni anticipate. Lui stesso e il suo principale oppositore,
Vojislav Koštunica, si trovarono al ballottaggio. Senza attendere il secondo giro di
consultazioni, l’opposizione gridò alla frode e scese nelle strade. Migliaia di
dimostranti affluirono verso la capitale, tra i quali minatori di Kolubara. I loro giorni
di lavoro erano indirettamente pagati dalla NED, senza che loro fossero a
coscienza di essere remunerati dagli Stati Uniti. Essendo la pressione della
manifestazione insufficiente, i minatori attaccarono gli edifici pubblici con i bulldozer
che avevano trasportato, da cui il nome “di rivoluzione dei bulldozer„. Qualora la
tensione si perpetui e vengano organizzate contro-manifestazioni, la sola soluzione
per Washington è di immergere il paese nel caos. Agenti provocatori sono allora
inviati tra i due campi per colpire la folla. Ogni parte può constatare che quelli di
fronte hanno colpito mentre avanzavano in modo pacifico. Il confronto si
generalizza. Nel 2002, la borghesia di Caracas scende in strada per contestare la
politica sociale del presidente Hugo Chavez (11). Con abili montaggi, le televisioni
private danno l’impressione di una marea umana. Sono 50.000 secondo gli
osservatori, 1 milione secondo la stampa ed il Dipartimento di Stato. Si verifica
allora l’incidente del ponte Llaguno. Le televisioni mostrano chiaramente filo-
chavisti, armi alla mano, che sparano sulla folla. In una conferenza stampa, il
generale della guardia nazionale ed il vice-ministro della sicurezza interna
conferma che “le milizie chaviste„ hanno sparato sul popolo facendo 19 morti. Si
dimette e chiama al capovolgimento della dittatura. Il presidente non tarda ad
essere arrestato dai soldati insorti. Ma il popolo a milioni scende nella capitale e
ristabilisce l’ordine costituzionale. Un’indagine giornalistica successiva ricostituirà in
dettaglio il massacro del ponte Llaguno. Metterà in evidenza un ingannevole
montaggio delle immagini, il cui ordine cronologico è stato falsificato come
attestano i quadranti degli orologi dei protagonisti. In realtà, sono i chavisti ad
essere stati attaccati e questi, dopo aver ripiegato, tentavano di liberarsi utilizzando
armi da fuoco. Gli agenti provocatori erano poliziotti locali formati da un’agenzia US
(12).
Nel 2006, la NED riorganizza l’opposizione al presidente kenyano Mwai Kibaki.
Finanzia la creazione del partito arancione di Raila Odinga. Quest’ultimo riceve il
sostegno del senatore Barack Obama, accompagnato da specialisti della
destabilizzazione (Mark Lippert, attuale capo di gabinetto del consigliere della
sicurezza nazionale, ed il generale Jonathan S. Gration, attuale inviato speciale del
presidente US per il Sudan). Partecipando ad una riunione di Odinga, il senatore
dell’Illinois si inventa un vago legame di parentela con il candidato filo-USA.
Tuttavia Odinga perde le elezioni legislative del 2007. Sostenuto dal senatore John
McCain, in qualità di presidente del IRI (prolungamento repubblicano della NED),
contesta la sincerità dello scrutinio e chiama i suoi partigiani a scendere in strada.
È mentre SMS anonimi sono inviati in massa agli elettori di etnia Luo. “Cari Keniani,
Kikuyu ha rubato il futuro dei nostri bambini… noi dobbiamo trattarli nel solo modo
che comprendono… la violenza„. Il paese, tuttavia uno dei più stabile dell’Africa, si
infiamma improvvisamente. Dopo giorni di sommosse, il presidente Kibaki è
costretto ad accettare la mediazione di Madeleine Albright, in qualità di presidente
del NDI (il prolungamento democratico della NED). Viene creato un posto di primo
ministro con il reintegro di Odinga. Ci si chiede, gli SMS dell’odio, non essendo stati
inviati da impianti keniani, quale potenza straniera abbia potuto spedirli.
La mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale
Negli ultimi anni, Washington ha avuto occasione di lanciare “rivoluzioni colorate„
con la convinzione che pur fallendo a prendere il potere esse consentissero di
manipolare l’opinione pubblica e le istituzioni internazionali. Nel 2007, numerosi
Birmani insorgono contro l’aumento dei prezzi del combustibile domestico. Le
manifestazioni degenerano. I monaci buddisti prendono la testa della
contestazione. È “la rivoluzione zafferano„ (13). In realtà, Washington non è
interessata al regime di Rangoon; ciò che le interessa, è di strumentalizzare il
popolo birmano per fare pressione sulla Cina che ha interessi strategici in Birmania
(condutture e base militare di informazioni elettroniche). Di conseguenza,
l’importante è mettere in scena la realtà. Immagini prese da telefoni portatili
appaiono su YouTube. Sono anonime, inverificabili e fuori contesto. Precisamente,
la loro apparante spontaneità gli dà credibilità. La Casa-Bianca può imporre la sua
interpretazione dei video. Più recentemente, nel 2008, manifestazioni studentesche
paralizzano la Grecia a seguito dell’omicidio di un giovane ragazzo di 15 anni da
parte di un poliziotto. Rapidamente rompitori fanno la loro comparsa. Sono stati
reclutati nel vicino Kosovo e trasportati su autobus. I centri delle città saccheggiati.
Washington cerca di fare fuggire i capitali verso altri cieli e di riservarsi il monopolio
degli investimenti nei terminali gaziferi in costruzione. Una campagna stampa
dunque farà passare il governo ansante Karamanlis per quello dei colonnelli.
Facebook e Twittter sono utilizzati per mobilitare la diaspora greca. Le
manifestazioni si estendono ad Istanbul, Nicosia, Dublino, Londra, Amsterdam, La
Haye, Copenaghen, Francoforte, Parigi, Roma, Madrid, Barcellona, ecc.
La rivoluzione verde
L’operazione condotta nel 2009 in Iran si iscrive in questo lungo elenco di pseudo
rivoluzioni. In primo luogo, il congresso vota nel 2007 un finanziamento di 400
milioni di dollari “per cambiare il regime„ in Iran. Questo si aggiunge ai bilanci ad
hoc del NED, del USAID, della CIA e tutti quanti [NDR in italiano nel testo]. Si
ignora come questo denaro è utilizzato, ma tre gruppi principali ne sono destinatari:
la famiglia Rafsandjani, la famiglia Pahlevi, e i Moudjahidin del popolo.
L’amministrazione Bush prende la decisione di finanziare “una rivoluzione colorata„
in Iran dopo avere confermato la decisione dello stato maggiore non di attaccare
militarmente questo paese. Questa scelta è convalidata dall’amministrazione
Obama. Per difetto, si riapre dunque la cartella “di rivoluzione colorata„, preparata
nel 2002 con Israele nell’ambito dello American Enterprise Institute. All’epoca
avevo pubblicato un articolo su questo metodo (14). Basta farvi riferimento per
identificare i protagonisti attuali: è stato poco modificato. È stata aggiunta una parte
riguardante il Libano con la previsione di un sollevamento a Beyrouth in caso di
vittoria della coalizione patriottica (Hezbollah, Aoun) alle elezioni legislative, ma
essa è stato annullata. Lo scenario prevedeva un sostegno massiccio al candidato
scelto dall’ ayatollah Rafsandjani, la contestazione dei risultati dell’elezione
presidenziale, degli attentati globali, il capovolgimento del presidente Ahmadinejad
e della guida suprema l’ayatollah Khamenei, l’installazione di un governo di
transizione diretto da Mousavi, quindi il restauro della monarchia e l’installazione di
un governo diretto da Sohrab Sobhani.
Come immaginata nel 2002, l’operazione è stata supervisionata da Morris Amitay e
Michael Ledeen. Ha mobilitato in Iran le reti dello Irangate. Qui piccoli cenni storici
sono necessari. L’Irangate è una vendita di armi illecita: la Casa-Bianca desiderava
rifornire in armi i Contras nicaraguensi (per lottare contro i sandinisti) da un lato e
l’Iran dall’altro (per far durare fino all0esaurimento la guerra Iran-Iraq), ma cià era
proibito dal congresso. Gli Israeliani proposero allora di dare in subappalto le due
operazioni allo stesso tempo. Ledeen che ha la doppia nazionalità
statunitense/israeliana funge da agente di collegamento a Washington, mentre
Mahmoud Rafsandjani (il fratello dell’ayatollah) è il suo corrispondente a Teheran. Il
tutto su un fondo di corruzione generalizzata. Quando scoppia lo scandalo negli
Stati Uniti, una commissione d’indagine indipendente viene diretta dal senatore
Tower ed il generale Brent Scowcroft (il mentore di Robert Gates). Michael Ledeen
è un vecchio gitante delle operazioni segrete. Lo si trova a Roma in occasione
dell’assassinio di Aldo Moro, lo si trova nell’invenzione della pista bulgara in
occasione del tentativo d’assassinio di Giovanni Paolo II, o più recentemente
nell’invenzione dell’approvvigionamento di uranio nigeriano da parte di Saddam
Hussein. Lavora oggi allo American Enterprise Institute (15) (al fianco di Richard
Perle e Paul Wolfowitz) ed alla Foundation for the Defense of Democracies (16).
Morris Amitay è ex direttore dello l’American Israel Public Affairs Committee
(AIPAC). È oggi vicepresidente del Jewish Institute for National Security Affairs
(JINSA) e direttore di un consiglio di gabinetto per grandi ditte d’armamento. Il 27
aprile scorso, Morris e Ledeen organizzavano un seminario sull’Iran allo American
Enterprise Institute a proposito delle elezioni iraniane, attorno al senatore Joseph
Lieberman. Il 15 maggio scorso, nuovo seminario. La parte pubblica consisteva in
una tavola rotonda animata dall’ambasciatore John Bolton a proposito del “grand
marchandage„: Mosca accetterebbe di lasciare cadere Teheran in cambio della
rinuncia di Washington allo scudo anti-missile in Europa centrale? L’esperto
francese Bernard Hourcade partecipava a questi scambi. Simultaneamente,
l’istituto lanciava un sito Internet destinato alla stampa nella crisi a venire:
IranTracker.org. Il sito include una rubrica sulle elezioni libanesi. In Iran, spettava
all’ayatollah Rafsandjani capovolgere il suo vecchio rivale, l’ayatollah Khamenei.
Proveniente da una famiglia di agricoltori, Hachemi Rafsandjani ha fatto fortuna
nella speculazione immobiliare sotto lo Scià. È diventato il principale grossista di
pistacchi del paese ed ha arrotondato la sua fortuna durante l’Irangate. I suoi averi
sono valutati in molti miliardi di dollari. Diventato l’uomo più ricco dell’Iran, è stato
successivamente presidente del Parlamento, presidente della repubblica ed oggi
presidente del Consiglio di discernimento (organo arbitrale tra il Parlamento ed il
Consiglio dei custodi della costituzione). Rappresenta gli interessi del bazar, cioè i
commercianti di Teheran. Durante la campagna elettorale, Rafsandjani aveva fatto
promettere al suo ex-avversario diventato il suo puledro, Mirhossein Mousavi, di
privatizzare il settore petrolifero. Senza connessione alcuna con Rafsandjani,
Washington ha fatto appello ai Moudjahidines del popolo (17).
Quest’organizzazione protetta dal pentagono è considerata come terrorista dal
Dipartimento di Stato e da parte dell’Unione Europea. Ha effettivamente condotto
operazioni terribili negli anni 80, fra cui un mega-attentato che costò la vita
all’ayatollah Behechti, a quattro ministri, a sei ministri aggiunti ed a un quarto del
gruppo parlamentare del partito della repubblica islamica. L’organizzazione è
comandata da Massoud Rajavi, che sposa in prime nozze la figlia del presidente
Bani Sadr, quindi Myriam la crudele in seconde nozze. La sua sede è installata
nella regione parigina e le sue basi militari in Iraq, inizialmente sotto la protezione di
Saddam Hussein, quindi oggi sotto quella del dipartimento della difesa. Sono i
Moudjahidin che hanno garantito la logistica degli attentati durante la campagna
elettorale (18). Spetta a loro di causare incidenti tra i militanti pro e anti-
Ahmadinejad, quel che hanno probabilmente fatto.
Qualora il caos si fosse rafforzato, la guida suprema avrebbe potuto essere
capovolta. Un governo di transizione, diretto da Mirhussein Mousavi avrebbe
privatizzato il settore petrolifero ed avrebbe ristabilito la monarchia. Il figlio del
vecchio Scià, Reza Cyrus Pahlavi, sarebbe risalito sul trono ed avrebbe designato
Sohrab Sobhani come primo ministro. In questa prospettiva, Reza Pahlavi ha
pubblicato in febbraio un libro di interviste con il giornalista francese Michel
Taubmann. Quest’ultimo è direttore del bureau d’information parisien d’Arte e
presiede il Cercle de l’Observatoire, il club dei neo-conservatori francesi. Ci si
ricorda che Washington aveva previsto in modo identico il ristabilimento della
monarchia in Afganistan. Mohammed Zaher Shah doveva riprendere il suo trono a
Kaboul e Hamid Karzai doveva essere suo primo ministro. Purtroppo, a 88 anni, il
pretendente era diventato demente. Karzai diventò dunque presidente della
repubblica. Come Karzai, Sobhani ha la doppia nazionalità statunitense. Come lui,
lavora nel settore petrolifero del Caspio. Dal lato della propaganda, il metodo
iniziale era affidato al gabinetto Benador Associates. Ma è evoluto sotto l’influenza
dell’assistente del segretario di Stato per l’istruzione e la cultura, Goli Ameri.
Questo iraniano-statunitense è un ex collaboratore di John Bolton. Specialista dei
nuovi mass media, ha organizzato programmi di mezzi e di formazione ad Internet
per gli amici di Rafsandjani. Ha anche sviluppato radio e televisioni in lingua farsi
per la propaganda del dipartimento di Stato ed in coordinamento con la BBC
britannica.
La destabilizzazione dell’Iran è fallita perché la principale molla “delle rivoluzioni
colorate„ non è stata correttamente attivata. MirHussein Mousavi non è riuscito a
cristallizzare l’insoddisfazione sulla persona di Mahmoud Ahmadinejad. Il popolo
iraniano non si è fuorviato, non ha reso il presidente uscente responsabilie delle
conseguenze delle sanzioni economiche statunitensi sul paese. Di conseguenza, la
contestazione si è limitata alla borghesia delle zone del nord di Teheran. Il potere si
è astenuto da opporre le manifestazioni le une contro le altre ed ha lasciato i
complottatori scoprirsi. Tuttavia, occorre ammettere che l’intossicazione dei mass
media occidentali ha funzionato. L’opinione pubblica straniera ha realmente creduto
che due milioni di iraniani fossero scesi in strada, quando la cifra reale è almeno
dieci volte inferiore. Il mantenimento sul posto dei corrispondenti della stampa ha
facilitato queste esagerazioni dispensandoli di fornire le prove delle loro
imputazioni. Avendo rinunciato alla guerra e fallito nel tentativo di capovolgere il
regime, quale carta resta nelle mani di Barack Obama?
Versione originale
Thierry Meyssan
Fonte: www.voltairenet.org/
Link: http://www.voltairenet.org/article160721.html
24.06.2009
Versione italiana:
Fonte: http://ripensaremarx.splinder.com/
Link: http://ripensaremarx.splinder.com/post/20853654/LE+RIVOLUZIONI+COLOR+MERDA+%28co
28.06.2009
Traduzione a cura di GIOVANNI PETROSILLO
NOTE
[1] Les multiples rapports et documents publiés par ces commissions sont disponibles en ligne sur le site
The Assassination Archives and Research Center. Les principaux extraits des rapports ont été traduits en
français sous le titre Les Complots de la CIA, manipulations et assassinats, Stock, 1976, 608 pp.
[2] « Les New York Intellectuals et l’invention du néo-conservatisme », par Denis Boneau, Réseau
Voltaire, 26 novembre 2004.
[3] « La NED, nébuleuse de l’ingérence démocratique », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 22 janvier
2004.
[4] « L’Albert Einstein Institution : la non-violence version CIA », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 4
janvier 2005.
[5] « Tienanmen, 20 ans après », par le professeur Domenico Losurdo, Réseau Voltaire, 9 juin 2009.
[6] À l’époque, la NED s’appuie en Europe orientale sur la Free Congress Foundation (FCF), animée par
des républicains. Par la suite, cette organisation disparaît et cède la place à la Soros Foundation, animée
par des démocrates, avec laquelle la NED fomente de nouveaux « changements de régime ».
[7] Soucieux d’apaiser les relations franco-US après la crise irakienne, le président Jacques Chirac tente
de se rapprocher de l’administration bush sur le dos des Géorgiens, d’autant que la France a des intérêts
économiques en Géorgie. Salomé Zourabichvili, n°2 des services secrets français, est nommée
ambassadrice à Tbilissi, puis change de nationalité et devient ministre des Affaires étrangères de la
« révolution des roses ».
[8] « Les dessous du coup d’État en Géorgie », par Paul Labarique, Réseau Voltaire, 7 janvier 2004.
[9] « Géorgie : Saakachvili jette son opposition en prison » et « Manifestations à Tbilissi contre la
dictature des roses », Réseau Voltaire, 12 septembre 2006 et 30 septembre 2007.
[10] L’administration Bush espérait que ce conflit ferait diversion. Les bombardiers israéliens devaient
simultanément décoller de Géorgie pour frapper l’Iran voisin. Mais, avant même d’attaquer les
installations militaires géorgiennes, la Russie bombarde les aéroports loués à Israël et cloue ses avions
au sol.
[11] « Opération manquée au Venezuela », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 18 mai 2002.
[12] Llaguno Bridge. Keys to a Massacre. Documentaire d’Angel Palacios, Panafilms 2005.
[13] « Birmanie : la sollicitude intéressée des États-Unis », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 5
novembre 2007.
[14] « Les bonnes raisons d’intervenir en Iran », par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 12 février 2004.
[15] « L’Institut américain de l’entreprise à la Maison-Blanche », Réseau Voltaire, 21 juin 2004.
[16] « Les trucages de la Foundation for the Defense of Democracies », Réseau Voltaire, 2 février 2005.
[17] « Les Moudjahidin perdus », par Paul Labarique, Réseau Voltaire, 17 février 2004.
[18] « Le Jundallah revendique des actions armées aux côtés des Moudjahidines du Peuple », Réseau
Voltaire, 13 juin 2009.