DI BIFO
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Un paio di mesi fa su Il Foglio è uscito un articolo di Adriano Sofri
intitolato “Lettera aperta un aspirante assassino”. Sofri analizza i
passaggi che possono portare un giovane dall’elaborazione ideologica
antagonista, all’enunciazione di propositi sovversivi fino all’esecuzione
di azioni violente, e ricostruisce il modo in cui ideologia parola e azione
possono concatenarsi in modo quasi automatico portando a scelte
irreversibili.
Si tratta di un articolo molto bello e largamente condivisibile, ma del
tutto inutile. Sofri infatti si rivolge a una persona che non esiste
più. La visione di una dialettica necessaria che giustifica qualsiasi
violenza e qualsiasi sofferenza nella prospettiva dell’inevitabile
progresso storico, portò in un tempo lontano migliaia di persone a compiere
la scelta di una militanza ideologizzata che comportava anche l’uso delle
armi. Ma quella visione non esiste più nella coscienza della nuova
generazione, né più si manifesta quel tipo di concatenazione ideologica,
enunciativa, e quindi pratica dell’azione violenta.
Con ciò non voglio dire che la violenza, l’omicidio o la strage siano
spariti dall’orizzonte attuale. E’ vero il contrario. Quella che sta
crescendo nel mondo, però, è un’ondata di violenza che non somiglia in
nulla a quella che Sofri vuole scongiurare.
Basta leggere le dichiarazione dei brigatisti arrestati in febbraio: ciò
che li motiva non è affatto una analisi ideologica o una strategia
politica, quanto la tristezza infinita della vita contemporanea, la
disperazione la solitudine la miseria esistenziale.Basta leggere le dichiarazione dei brigatisti arrestati in febbraio: ciò
che li motiva non è affatto una analisi ideologica o una strategia
politica, quanto la tristezza infinita della vita contemporanea, la
disperazione la solitudine la miseria esistenziale.
Provate a guardare la foto di quel dodicenne afghano che si arruola nelle
milizie suicide di Al Qaida. Nel suo viso dolcissimo e stravolto dall’odio
vi è una determinazione che nessuna predica non violenta può scalfire. A
chi pensa quel ragazzino mentre prende il voto di uccidersi uccidendo? A un
fratello ucciso da un bombardamento della Nato? Quante migliaia (quanti
milioni) di ragazzini afghani, pakistani, palestinesi, iraqeni egiziani si
stanno preparando a vendicare l’oltraggio la violenza l’umiliazione che
l’occidente infligge a un miliardo di uomini donne bambini?
Non capiamo nulla della violenza politica contemporanea e del terrorismo
che tende a diventare un fenomeno di massa, se lo trattiamo come un
problema ideologico. E’ un problema psicopatologico. Il che non significa
affatto che si tratti di un problema marginale, perché la psicopatia non è
più (se mai è stata) un problema marginale. La decisione ideologica di
altri tempi fu di pochissimi che si autonominarono avanguardia. La
sofferenza disperata dei ragazzi che crescono nelle metropoli arabe o nei
campi profughi o nelle banlieux europee o nella precarietà e nello
sfruttamento non è di pochi, è un fenomeno epidemico.
In rete ha girato recentemente un testo di Sergio Bologna intitolato
“Uscire dal vicolo cieco”. E’ ora di piantarla, dice Bologna, con l’idea
che il precariato sia come il morbillo, una malattia adolescenziale che
passa quando diventiamo grandi. Il precariato non è una marginale
escrescenza ma la forma tendenzialmente generale del lavoro nell’epoca in
cui le nuove tecnologie rendono possibile una disseminazione dello
sfruttamento in ogni frammento spaziotemporale dell’esistenza umana.
La precarietà non è un carattere provvisorio della relazione produttiva ma
il cuore nero del processo di produzione capitalista nella sfera della rete
globale. In essa circola un flusso continuo di info-lavoro frattalizzato e
ricombinante. La precarietà è l’elemento trasformatore di tutto il ciclo di
produzione: trasforma anche il lavoro di coloro che hanno un posto di
lavoro fisso, ma sono costretti ad accettare un salario sempre più basso
perché il lavoro precarizzato abbassa la forza contrattuale di tutti.
Sergio Bologna invita a considerare il precariato in termini di classe, non
in termini di generazione. Questo invito va accolto, ma il problema resta.
Il fronte del lavoro non è mai stato così debole in termini di capacità
contrattuale, in termini di organizzazione.
Occorre porsi una domanda: quali sono le forme di azione (di comunicazione,
di lotta, di organizzazione e di sabotaggio) capaci di restituire forza al
fronte del lavoro contro il fronte del capitale?
Serve a qualcosa andare in piazza in mille o in centomila, dato che non
abbiamo fermato la guerra quando eravamo centomilioni?
Serve a qualcosa rafforzare elettoralmente la sinistra quando è evidente
che il Parlamento non dispone più di alcuna forza effettiva di decisione?
La democrazia rappresentativa non serve a niente, e nulla di ciò che i
movimenti hanno fatto dopo l’inizio della crisi dei social forum ha avuto
qualche utilità.
Dobbiamo tornare a porci una domanda fondamentale: quali sono gli obiettivi
di un movimento che si proponga l’autonomia della vita sociale dal dominio
del capitale? e quali le forme di azione sono efficaci?
La questione delle forme di lotta è sempre stata decisiva. La lotta operaia
non avrebbe mai ottenuto nessun risultato se gli operai non avessero avuto
una forza capace di danneggiare materialmente il profitto.
Fin quando il lavoro non è in grado di minacciare l’accumulazione la sua
forza equivale a zero, e il padronato può fare qualsiasi cosa. La legge non
esiste, non significa nulla e non può fermare la violenza padronale. Solo
la forza conta.
Una delle colpe del terrorismo stalinista degli anni ’70, e non la più
lieve, consiste proprio in questo: nell’aver condotto a un discredito etico
totale ogni discorso sulla forza identificandola con la violenza, l’azione
omicida, il terrore.
Nel dibattito pubblico si fa un uso illegittimamente estensivo della parola
violenza.
Due ragioni sconsigliano in generale l’uso della violenza nell’azione
politica dei movimenti.
La prima ragione è semplice, quasi triviale.
Nella società moderne esistono organizzazioni professionali specializzate
nell’esercizio della violenza, strutture altamente addestrate dotate di
armi letali e di tecnologie pervasive di controllo e di annientamento,
strutture che addestrano al disconoscimento di ciò che vi è di umano in sé
e negli altri. Organizzazioni criminali al servizio dello stato e
dell’economia.
Nessuna persona che desideri mantenere il rispetto di se stessa può
affrontare la violenza dello stato e dell’economia sul terreno del
confronto armato, se non una organizzazione decisa al suicidio.
Come sappiamo l’armata dei suicidi è in crescita costante, e la guerra
infinita è una macchina di riproduzione del suicidio micidiale.
Chiunque non aspiri al suicidio capisce che la strada della violenza è
tecnicamente interdetta per cause di forza maggiore.
La seconda ragione che sconsiglia la violenza ha carattere meno triviale.
La violenza contro l’altro inibisce la possibilità stessa di percepire
felicemente il sé. La ferita inferta sul corpo altrui lascia una traccia
che distrugge le facoltà stesse di congiunzione con l’altro.
La violenza è azione che colpisce ciò che è umano nell’altro, la sua debolezza.
Poiché l’altro è l’estensione psichica della mia mente, poiché l’altro non
è dissociabile dalla mia sensibilità, la violenza colpisce chi la compie,
lo ferisce e lo infetta in ciò che ha di più umano, la sua tenerezza.
Chi giustifica la violenza in nome di valori superiori (che ne so, la
legalità o la rivoluzione, la civiltà occidentale o l’antimperialismo)
compie un’operazione che è sempre truffaldina. Ma anche coloro che si
sperticano nella condanna politica della violenza e nell’esaltazione dei
valori della non violenza compiono un’operazione truffaldina.
E’ come esaltare o condannare il mal di denti.
L’espressione non violenza è una cattiva traduzione della parola
Satyagraha, parola che per Gandhi significa conversione dell’altro per
mezzo dell’amore. Per essere più precisi: Satya è la verità dell’essere,
agraha è l’andare verso. Andare (insieme) verso la verità dell’essere.
Nella versione jainista che ne offre il Mahatma, questa conversione passa
attraverso l’ahimsa, che significa sofferenza cosciente.
Scrive Gandhi:
“Le nazioni come gli individui si costruiscono attraverso l’agonia della
croce e in nessun altra maniera. La gioia nasce non dall’infliggere dolore
sugli altri, ma dal dolore che volontariamente generiamo in noi.”
Per Gandhi dunque Satyagraha implica e presuppone Brahmacharia, cioè la
rinuncia alla passione, l’assenza di desiderio, la sospensione del flusso
illusorio del maja.
Si tratta di una visione essenzialmente sacrificale, che ben difficilmente
può tradursi in un’etica laica, e affermarsi nella vita quotidiana.
Ma io penso che si possa far discendere Satyagraha dal sentimento
contrario: dal sentimento di piacere che nasce dalla condivisione sensuale
degli infiniti corpi. Il piacere di sentire gli altri, che permette di
sentire con piacere sé stessi.
La continuità dei diecimila esseri, la condivisione del medesimo spazio
ecomentale, della medesima psicosfera non è solo la quintessenza del
Buddhismo, ma è anche il senso profondo del pensiero di Baruch Spinoza.
Se non vuole ridursi a pura retorica l’etica non può fondarsi su null’altro
che sulla consapevolezza sensibile del carattere estensivo del nostro
corpo-mente. E’ un’etica estetica, quella che dobbiamo fondare. Un’etica
che non sia basata sulla rinuncia al sé, ma proprio su un edonismo
estensivo, capace di riconoscere il carattere condiviso dell’ambiente in
cui è immerso l’organismo sensibile.
Nel discorso politico-giornalistico occidentale il pensiero del Satyagraha
(che è insieme realismo politico ed etica del piacere di sé) viene
abusivamente usato per affermare un principio legalitario: non violenza
viene tradotto abusivamente come rispetto della legge esistente, come
sottomissione al potere. La non violenza diventa allora un’arma brandita
contro gli oppressi, un ricatto schifoso. Coloro che sistematicamente usano
la violenza predicano alle vittime la necessità della non violenza.
La legge, solo la legge – dicono i legalisti – può regolare i rapporti fra
gruppi sociali. Il conflitto non deve uscire dai limiti della legge. Chi
dice questo ignora (o finge di ignorare) che la legge è forma determinata
di un rapporto di forze, che solo la forza la fonda e solo la forza la
rende operativa. Le corporation globali lo sanno bene, dato che il
capitalismo distrugge sistematicamente le regolazioni esistenti per
aumentare lo sfruttamento.
La forza, non la legge, permette al capitale di imporre condizioni precarie
di lavoro, riduzione del salario, rinvio della pensione e così via. La
forza ha permesso al capitalismo di costruire condizioni schiavistiche di
sfruttamento. La cosiddetta libertà di mercato altro non è che lo spazio
libero di scatenamento della forza violenta del capitale nel rapporto con
la debolezza del lavoro.
Solo quando i lavoratori sono forti, uniti, consapevoli, autonomi, il loro
rapporto con il capitale pone limiti alla violenza.
Grazie al rapporto di forza creato con le lotte il movimento operaio ha
potuto realizzare un quadro regolativo capace di limitare l’arbitrio del
capitale e di imporre condizioni eque di salario. Il benessere diffuso e le
condizioni di democrazia sociale che si affermarono in larga parte del
mondo nella seconda metà del Novecento furono il prodotto di una
imposizione operaia. E quel che oggi rimane delle garanzie sociali per i
lavoratori è l’eredità non ancora interamente erosa e cancellata di quelle
lotte.
Senza gli scioperi, senza il sabotaggio, senza il ricatto costante che il
lavoro seppe esercitare sulle forze proprietarie, le condizioni del lavoro
sono quelle dello sfruttamento bestiale, della miseria e della prepotenza.
Oggi quelle forme di azione hanno perduto efficacia. Cosa significa
sciopero per i lavoratori precari?
Dobbiamo scientificamente ricercare forme attuali di azioni che siano
capaci di colpire a fondo l’accumulazione di capitale, e quindi capaci di
ricostituire la forza contrattuale del lavoro.
L’illusione legalitaria crede che la regola costituzionale abbia in sé
forza impositiva.
Ma il potere è sempre assoluto. Non esiste alcun potere costituzionale,
perché la limitazione del potere non è esercitata dalle regole ma dalla
forza capace di imporre le regole (o di trasformarle).
Il legalismo attribuisce alle regole una forza che le regole non hanno,
perché non c’è nessuna regola che dica che occorre rispettare le regole.
E il padronato lo sa.
L’ipercapitalismo è un’economia criminale non tanto perché si fonda sulla
violazione delle regole stabilite dalla contrattazione tra lavoro e
capitale. La violazione delle regole non è un crimine (se non nella visione
autolesionista dei legalisti). Il crimine sta nell’esercizio illimitato
della forza, quando alla forza non si contrappone alcuna altra forza. Il
crimine è la violenza dell’imposizione lavorativa, la sottomissione del
sesso, dell’affettività, del tempo mentale, la repressione dell’autodifesa
operaia. Il crimine è la normalità dell’economia del nuovo millennio.
Gomorra, il libro di Roberto Saviano, il più importante testo di economia
politica contemporanea che io conosca, descrive molto bene il modo in cui
il crimine ha raggiunto il cuore stesso della crescita capitalista.
Il problema della forza non potrà non riproporsi nei movimenti sociali se
essi vorranno uscire dalla pura e semplice denuncia e se vorranno creare
condizioni efficaci di difesa e di nuova regolazione. Ma il problema della
forza non dovrà porsi mai più negli antichi termini della violenza
materiale, sui quali mai nessuna battaglia potrà mai essere vinta
dall’umano contro il disumano.
Il problema della forza si pone nei termini del sabotaggio intelligente nei
confronti della rete immateriale dello sfruttamento.
Solo quando l’immaginazione collettiva sarà capace di sottrarsi al ricatto
economico e consumista diverrà possibile esercitare una forza capace di
sabotare bloccare e sovvertire i circuiti dello schiavismo postmoderno.
Solo quando l’umanità schiavizzata saprà distinguere tra la ricchezza e la
merce si ricostituiranno le condizioni di una forza capace di resistere
alla violenza del capitale.
Non ci resta da svolgere altro lavoro che questo: l’organizzazione della
forza, cioè della tenerezza, della pigrizia, dell’assenteismo di massa.
Solo la forza può opporsi alla forza economica mediatica e militare di cui
dispone il capitale.
Ma la forza cos’è?
La società è forte di fronte al potere quando riconosce la illegittimità
dei poteri esistenti.
Ridere del potere è la prima condizione per distruggerlo.
Ogni occasione in cui il potere si organizza andrebbe ridicolizzata, non
solo i vertici del G8 ma anche le locali riunioni della Confindustria, le
riunioni del Senato accademico, e qualsiasi altra occasione in cui si
normalizza l’infamia.
Ma ridicolizzare on basta, occorre interrompere il flusso economico di
riproduzione del potere.
Lo sciopero è stato nel corso di un secolo e mezzo la forma più importante
di Satyagraha. “io non ti dò il mio lavoro fin quando non accetti di
pagarmi un salario più alto, finché non sono realizzate sul lavoro
condizioni umane.”
Ma la trasformazione del processo lavorativo ha reso lo sciopero inefficace
(perché le catene produttive sono flessibili) e impossibile perché il
lavoro è precario frattale ricombinato e sovrabbondante.
Il Semiocapitalismo ha bisogno dell’attenzione di un’umanità iperconnessa.
L’azione che accumula forza è lo sciopero dell’attenzione, il rifiuto
massiccio della partecipazione politica, la messa in circolo di virus
comunicativi capaci di indurre nella maggioranza tendenziale una nuova
percezione della ricchezza.
La ricchezza cos’è? E’ godimento del tempo, sfrenatezza intensiva, piacere
di sé. Un’onda di rilassatezza e di rallentamento del ritmo della
produzione dipendente, un’onda di frenesia an-economica.
La felicità è sovversiva quando si fa collettiva.
Trasformando la felicità in una promessa sempre rinviata il capitalismo ha
azzerato la capacità di godere dell’adesso.
La questione del godimento e della frustrazione, dell’ansia accumulativa e
della frugalità felice è la condizione per uno sciopero dell’attenzione che
tolga al capitale gli strumenti del suo ricatto e della sua forza.
Franco Berardi “Bifo”
Fonte: http://www.rekombinant.org/
Link: http://permalink.gmane.org/gmane.culture.internet.rekombinant/2233
11.07.07