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La Redazione

 

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LE PREMONIZIONI DELLA GRANDE CRISI

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A cura di Davide
Il 25 Dicembre 2008
51 Views

DI PINO CABRAS
Megachip

Si sprecano le parole di sorpresa per la Grande Crisi in corso. Se ne
parla il più delle volte come di un evento improvviso e
imprevedibile.
In realtà c’era già chi riusciva a
intravedere il tracollo, anche senza andare a spulciare le vecchie
carte americane dei soliti ottimi Nouriel Roubini e Joseph Stiglitz.
Prendiamo ad esempio il compianto Paolo Sylos Labini.

In un appassionato intervento a un convegno della Cgil
nell’ormai lontano 2002 il grande economista italiano fece
una lucida analisi sull’imminente indebolimento del dollaro e
l’insostenibilità del debito pubblico e privato
negli Stati Uniti. Una disamina ricca di dati precisi, cui
corrispondevano analisi poi rivelatesi esatte. Un anno dopo, al momento
di ripubblicare quell’opera, Sylos Labini scriveva:
«esprimevo gravi preoccupazioni sulle prospettive
dell’economia americana, che condiziona fortemente le
economie degli altri paesi e, in particolare, quelle europee. La mia
diagnosi fu giudicata da molti pessimista, ma i fatti, finora, mi hanno
dato ragione. Oggi la mia diagnosi è ancora più
pessimista, ma, giusta o sbagliata che sia, essa si fonda non su
intuizioni o sul fiuto, bensì su un’analisi
approfondita.» La chiave giusta di quello studio era proprio
la profondità. Conviene leggerlo per intero, è
una lettura veramente istruttiva: [QUI]

Contrariamente a quegli economisti-sacerdoti che in questi ultimi anni
hanno officiato i riti e i dogmi neoliberisti, Sylos Labini usava la
memoria plurisecolare delle scienze economiche, interessandosi ai cicli
economici prosperi e a quelli recessivi o perfino depressivi del
capitalismo: «Da almeno due anni avevo notato alcune
rassomiglianze fra la situazione che si era determinata in America
negli anni Venti del secolo scorso, un periodo che sboccò
nella più grave depressione nella storia del capitalismo, e
la situazione che si andava delineando oggi in America»,
ricordava Sylos Labini. « Il motore dello sviluppo ciclico
è costituito dalle innovazioni: più sono
importanti, più sono diffuse le occasioni di investimento
che offrono e più dura la fase di prosperità. Al
tempo stesso, però, sono più vigorose le ondate
speculative, più frequenti sono gli errori dei manager e
più crescono i debiti, le cui dimensioni, cessata la
prosperità, condizionano la durata della crisi.»
Certo, Sylos Labini non era tanto di moda, nelle pagine economiche
della nostra grande stampa, compresa quella economica.
Si preferiva dar retta ai signori del ‘rating’,
quelli che ancora pochi giorni prima che Lehman Brothers sprofondasse
nel gorgo dei debiti, quest’anno, le attribuivano uno
sconsiderato AAA. Per loro era una bestemmia pensare che i manager
potessero commettere errori, per giunta «più
frequenti».

L’analogia con gli anni venti non finiva qui.
L’altra grande affinità (dalle conseguenze enormi,
ricordava Sylos Labini) era la disuguaglianza distributiva:
«si indebolisce la domanda di beni di consumo e vengono
alimentate le operazioni speculative e i debiti contratti per
finanziarle.» Ecco le bolle speculative, che nel capitalismo
di oggi diventano più grosse del PIL mondiale e si
contagiano istantaneamente.
Sylos Labini non riteneva che quei debiti fossero una scatola nera
misteriosa, da tralasciare. Rivendicava anzi la necessità di
una «teoria dell’instabilità finanziaria
fondata sull’indebitamento». Nel mondo bastava una
mano a contare, oltre a lui, gli economisti che se ne occupavano. Ma
era in ottima compagnia: fra questi c’era Paul Krugman,
un signore che poi nel 2008 ha vinto il Nobel per l’Economia.

Al centro della riflessione era la nuova fabbrica dei debiti, gli Stati
Uniti. L’insostenibilità dei tanti modi
d’indebitarsi compresenti nel sistema statunitense, per i
comuni cittadini come per il sistema-Paese, era evidente a uno sguardo
attento. Il Nobel dell’economia Joseph Stiglitz
lo faceva in qualche modo notare, ma rimaneva anche lui inascoltato.
Stiglitz ricordava che nel gli USA prendevano a prestito dal resto del
mondo oltre due miliardi di dollari
al giorno: «è improbabile che si possa andare
avanti così; […] rimane vero che qualsiasi cosa
sia insostenibile non è sostenibile per sempre».

Il mainstream preferiva amplificare le enunciazioni autogratificanti
dell’amministrazione Bush che vantavano una crescita
economica sostenuta del prodotto interno lordo USA. Invece la
qualità dell’occupazione era in decadimento, la
produzione interna crollava e l’economia nel suo complesso si
riorientava verso la guerra. Il debito con l’estero
già da anni era a un livello critico, senza precedenti per
un paese industrializzato. I giornali ignoravano perfino allarmi del
Fondo Monetario Internazionale (FMI), che vedevano in questa situazione
– ad oggi precipitata – un serio pericolo per l’economia
mondiale
.

Non ammaestrati dalla crisi delle borse dopo la bolla della New
Economy, i media riportavano acriticamente i comunicati trionfali
diffusi a fine 2003 dal Dipartimento del Commercio USA, proprio nel
momento in cui i tassi d’interesse erano minimi e partiva la
bolla immobiliare, così come decollavano alla grande i fondi
d’investimento che si portavano in pancia una finanza opaca e
incomprensibile che rendeva illeggibili i rischi e i debiti, la finanza
dei derivati e delle «posizioni su veicoli di investimento
strutturati». Con un rialzo dell’8,2% del PIL per
il terzo trimestre, si magnificava il fatto che il paese non avesse mai
conosciuto una crescita così forte da 19 anni. La stampa
salutava «il ritorno della crescita negli Stati
Uniti».
Sylos Labini smontava già allora pezzo per pezzo questa
euforia irresponsabile.
Alle osservazioni dell’economista possiamo aggiungere il
nostro senno di poi. Intanto aumentava la disoccupazione. Ma
soprattutto l’entusiasmo rimuoveva due questioni di
eccezionale importanza. E cioè il fatto che le performance
di crescita del PIL erano legate a una spirale
d’indebitamento e a una riallocazione della enorme spesa
pubblica in direzione del settore militare.
L’incapacità operativa di fronte
all’uragano Katrina – che nel 2005
spazzò via New Orleans – è uno dei
più terribili sintomi di questa riallocazione delle
priorità. Obama punterà molte carte sulla
manutenzione. Aumenterà la domanda aggregata di beni e
darà segni tangibili di cura del bene comune.

La base della crescita degli Stati Uniti prima del Grande Crollo
borsistico del 2008 si è fondata finanziariamente
sull’indebitamento. Mentre negli anni della presidenza di
Bill Clinton si arrivò addirittura a un forte surplus, nel
2002, per la prima volta dal 1997 gli USA scontarono di nuovo un
deficit di bilancio. Era all’1,5% nel 2002, al 3,5% nel 2003,
al 4,2% nel 2004. L’aumento delle spese militari non si
bilanciava nemmeno con i pesanti tagli sociali, come
l’abbattimento del sistema di assistenza sanitaria Medicare.
Negli ultimi mesi del 2008 questi parametri impazziscono. È
come se si buttassero banconote dagli elicotteri. Il deficit schizza
verso l’alto, la massa monetaria esplode, e per il momento
viene accalappiata dalla più tipica “trappola
della liquidità” keynesiana. Ma è una
bomba a tempo.

Possiamo solo immaginare quale sarebbe stato lo sguardo di Sylos Labini
di fronte al pauroso grafico che segue, che mostra l’aumento
della base monetaria negli Stati Uniti a partire dalla prima guerra
mondiale. Alti e bassi, com’è ovvio. Eppure mai –
neanche durante la costosissima seconda guerra mondiale – la Federal
Reserve aveva osato espandere la crescita della base monetaria a tassi
del 300% su base annua, come è avvenuto nel 2008.
Praticamente un asintoto.

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Citato QUI

Tutta questa immane massa di moneta resta oggi disperatamente congelata
nei buoni del tesoro statunitensi. Poiché oggi questi buoni
perdono meno rispetto ad investimenti alternativi, le banche li
comprano, anche per mostrarsi meno avventuriste rispetto al passato. Il
fatto è che se i buoni del tesoro a breve non rendono o
addirittura fanno perdere qualcosa, tanto vale ricorrere al vecchio
materasso: non guadagni interessi da una banconota, ma di sicuro non ne
perdi. Nessuno presta denaro, e questo per ora si traduce in
deflazione. Ma per quanto? L’acquisto dei titoli del debito
pubblico statunitense è l’ennesima bolla, forse la
più devastante delle “bolle atomiche”.

Nel corso del 2009 gli Stati Uniti per poter sperare di reggere in
qualche modo dovranno emettere nuovi titoli per un valore di 2 trilioni
(due milioni di milioni) di dollari. I compratori sono ormai pochi e
stanno fuori dagli Stati Uniti. Pretenderanno che ci sia un certo
rendimento. Ecco perché non è da escludere che si
avvii la macchina trituratrice dell’inflazione, in grado di
far collassare il sistema basato sul dollaro. Quando la bolla
scoppierà potrà interagire con le altre terribili
bolle compresenti e da tutti temute. Salteranno in aria gli hedge
funds. Non potranno reggere molti soggetti finanziari che emettono
carte di credito, per le troppe insolvenze dei debitori (un buco
previsto con valori che oscillano intorno ai cento miliardi di
dollari).
Non dimentichiamo che il valore nozionale dei derivati finanziari –
ossia futures, options, swaps, tutta la materia cosiddetta “Over the Counter
(OTC) in gestione fuori dai bilanci supera varie volte il PIL di tutto
il mondo.

Non parliamo dell’esplosione del debito estero. In questo
quadro, un’anomalia pur gigantesca rischia di apparire poca
cosa.

Le tendenze convergono dunque per l’indebitamento privato e
per quello pubblico. Nel 2004, secondo l’Ufficio di Bilancio
del Congresso, il debito avrebbe dovuto spingersi fino a 14mila
miliardi entro il 2014. L’ex Ministro del Tesoro Paul
O’Neill – oggi una figura molto critica nei
confronti dell’amministrazione Bush, perfino sul punto
dell’11 settembre – aveva fatto proiezioni ancora
più pessimistiche. Tutte queste previsioni hanno avuto una
brusca accelerazione.

È prevedibile che ancora per un po’, la
“bolla estrema” riesca daccapo ad assorbire buona
parte dell’extra-risparmio dei paesi con attivo delle partite
correnti.
Fino al 2000 i risparmiatori del resto del mondo finanziavano la
crescita degli investimenti americani. Dopo l’11 settembre la
crescita dei consumi. Ora sono chiamati a finanziare la crescita dei
debiti che tentano disperatamente di salvare il sistema in panico,
mentre si prosciuga la possibilità di finanziare
investimenti produttivi.
Se non si troveranno più acquirenti per questi titoli si
stamperà moneta. Il famoso elicottero di Ben Bernanke che
volteggerà a lanciare banconote su Main Street.

Un altro economista che non si era fatto ammaliare dal mainstream, lo
statunitense Robert Freeman, nel 2004 – mentre osservava
l’aumento eccessivo del debito che sormontava di gran lunga
la solvibilità del paese – si chiedeva quali possibili strategie
d’uscita
avrebbe potuto usare
l’amministrazione statunitense.

Sopra tutte le strategie, ciascuna con le sue specifiche
controindicazioni (aumentare le imposte, stampare dollari, privatizzare
gli asset nazionali e svenderli all’estero in un perfetto
contrappasso del Washington Consensus,
rifiutarsi di onorare i debiti secondo una sorta di
‘soluzione bolscevica’) Freeman vedeva una
strategia più estrema: il saccheggio: «Quando il
rimborso del debito di una nazione diviene così imponente
che diventa impossibile rassicurare i creditori, questo paese deve
cercare una qualche sorgente di ricchezza, non importa quale sia la
fonte.»
Non dimentichiamo che la vera uscita dalla Grande Depressione avvenne
con una guerra mondiale.

Nella brochure della UK Defence Conference, tenutasi a Londra il 10
settembre 2007, sul tema “Defence in 2020 and
beyond” (La Difesa nel 2020 e oltre, ndt), il testo
riassumeva le sfide affrontate – anche con errori –
in materia di politica di Difesa, e proiettandosi sul 2020 lasciava
cadere, come se niente fosse, la seguente frase:
«Il Joint Doctrine and Concepts Centre delle forze armate
britanniche prevede un collasso generale dell’ordine globale
nel prossimo decennio, e altri pensatori strategici sono parimenti
pessimistici.»
Il Joint Doctrine and Concepts Centre è l’organo
più importante di pianificazione e valutazione preventiva
delle forze armate del Regno Unito. Con una certa noncuranza ci ha
informati sul fatto che i grandi strateghi intendono prepararsi al
peggio.

Di sicuro c’è un senso paralizzante di attesa
anche nei piani alti della finanza. In un’intervista

a «El Pais» del 21 dicembre 2008, il governatore
della Banca di Spagna, Miguel Ángel Fernández
Ordóñez, lamenta che «la sfiducia
è totale» e teme un collasso generale, nel momento
in cui la velocità di circolazione della moneta è
spaventosamente bassa.

Molti elementi portano a fare previsioni, ma non sono in gioco soltanto
variabili strettamente finanziarie. Da sempre in molti raccomandano
“Never Bet Against FED”, mai scommettere contro la
banca centrale federale degli USA.

Allora torniamo all’opera di Paolo Sylos Labini. Era una
critica competente dei difetti del sistema, ma conteneva molti
apprezzabili elementi di prudenza che non spingevano la sua analisi
sino a studiare la scena ancora ipotetica di un crollo sistemico.
Esprimeva semmai un ragionamento sull’intervento pubblico,
che avrebbe prodotto grandi risultati se fosse stato applicato per
tempo. Abbiamo invece visto che l’improvvisa corsa allo
statalismo da parte delle ex vestali del liberismo è stata
disordinata e sbigottita.

Sylos Labini citava la prospettiva, deprimente, fatta da John Maynard
Keynes nella sua Teoria generale,
quando osservava che «una caratteristica preminente del
sistema economico nel quale viviamo è che […]
esso sembra capace di rimanere in una condizione cronica di
attività inferiore al normale per un periodo considerevole,
senza una tendenza decisa verso la ripresa o verso la rovina
totale».

Quale soluzione pubblica, dunque? Per Sylos Labini «Il
problema centrale, che a mio parere rende incerta e probabilmente
lontana la ripresa, è quello dei debiti a lungo termine,
ossia degli immobilizzi. Non credo che convenga riesumare la formula
IRI, come pare voglia fare il Giappone. Forse bisognerà
pensare a un’altra soluzione, in cui tuttavia
l’intervento pubblico svolga pur sempre un ruolo di rilievo
per rendere sostenibili i debiti a lungo termine, promuovendo
attivamente, nello stesso tempo, misure per la ripresa. Si potrebbero
ottenere effetti importanti attraverso un accordo fra i principali
paesi industrializzati volto a stimolare l’espansione
reciproca dei mercati: penso a una serie coordinata di trattati
commerciali, che fra loro s’intarsino e promuovano una
politica opposta a quella del protezionismo emulativo (beggar-my-neighbour policy),
adottata dai paesi industrializzati negli anni Trenta e ripescata da
Bush con le sue misure protezionistiche. Per uscire dalla crisi penso
anche a misure di tipo keynesiano, con un forte aumento delle spese
pubbliche in deficit e tagli fiscali.»

Ora, noi possiamo immaginare come una politica di questo tipo, sebbene
sospinta dalla necessità, potrebbe essere resa inefficace
dalle strutture corrotte del potere di un paese come
l’Italia, in deficit di morale e perciò segnato in
troppe sue fibre da amoralità, immoralità e
demoralizzazione.
Sylos Labini ricordava che comunque era necessaria una grande e
mobilitante riforma intellettuale e morale, perché
«tale strategia comporterebbe l’impegno di tante e
tante persone per attività, retribuite e volontarie, e
potrebbe offrire ideali degni di essere perseguiti dalle nuove
generazioni, in luogo dell’ossessiva caccia ai soldi che oggi
domina e immiserisce la vita sociale dei paesi sviluppati: i giovani
hanno un bisogno addirittura biologico di ideali.»

Il 2009 inaugurerà una crisi durissima che
colpirà pesantemente il lavoro. Non ci sono ricette per
uscirne magicamente. Siamo entrati in un territorio senza mappe, dove
non funzionano i GPS. È il momento in cui riacquistano
dignità pensieri e idee trascurate, nonché
studiosi di straordinario spessore, che ridanno un’anima alla
“scienza triste”, l’economia. Sylos
Labini è fra questi. E ci sarebbe anche un autore da lui
citato, Irving Fisher,
un economista eclettico che aveva studiato a fondo il problema del
debito e della velocità di circolazione della moneta
(proprio quel che oggi si è quasi fermato). Fisher era
arrivato a scrivere un librettino di straordinario interesse
Stamp Scrip»)
che conteneva la proposta di instaurare la moneta deperibile, un
sistema con le banconote bollate. Fisher propose a Franklin D.
Roosevelt si sperimentare il sistema in dimensione nazionale. Ogni
banconota andava bollata ogni settimana, recando un bollo pari al 2%
del valore facciale. Era impossibile speculare con una simile moneta,
intaccata dal punto di vista della funzione di riserva di valore,
ma sicuramente si risvegliava la velocità di circolazione.
Alcuni esperimenti realizzati in Austria avevano funzionato
così bene da essere spenti bruscamente dalle
autorità monetarie.
Il Congresso bocciò un disegno di legge che proponeva
l’adozione del sistema.
Si badi che Fisher non era un “eretico”, ma un
economista capace di inserirsi bene nel sistema. Soprattutto aveva una
conoscenza profonda dell’economia, capace di scardinare le
pretese dogmatiche di “teologi” di scarsa scienza.
Altre sue proposte andavano in direzione di una finanza più
ancorata alla dotazione materiale dell’economia, senza i
sostituti monetari che l’ingegneria finanziaria è
in grado di creare in totale contiguità con poteri forti e
intrinsecamente criminali.

Mentre aspettiamo Godot, cioè la nuova Bretton Woods, le
banche centrali lanciano la loro liquidità dagli elicotteri,
non tanto al cittadino comune, quanto ai soliti speculatori. Basterebbe
una legge di un solo articolo per porre fine allo scempio. Ma il Grande
Casinò vive alla giornata, e rinvia ancora, di poco, il
conto più salato, che intanto iniziano a pagare milioni di
persone.

Pino Cabras
Fonte: www.megachip.info
Link: http://www.megachip.info/modules.php?name=Sections&op=viewarticle&artid=8452
23.12.08

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