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La Redazione

 

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L’E’ NERA

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A cura di Davide
Il 7 Luglio 2008
50 Views

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GIANFRANCO LA GRASSA
Ripensare Marx

Alla recente riunione dell’Aspen Institute la visione della futura crisi mi è sembrata più o meno nera come quella risultante dalle analisi del Leap più volte qui riportate da G.P. Lascerei perdere l’ottimismo di facciata di Kissinger, ridicolmente concentrato sulla “Italia che ce la farà come ce l’ha sempre fatta”, proprio in riferimento ad uno dei paesi più disastratati e attardati del “capitalismo occidentale”. Ancor più lascerei perdere l’ottimismo di quel “buon vecchio padre di famiglia” di Napolitano, che lo ha però fondato sulla capacità di compiere sacrifici (una vecchia solfa cui quelli di tradizione piciista sono affezionatissimi).

Per il resto il coro del pessimismo è stato quasi unanime. Più confusa la situazione seguendo vari Istituti di ricerca internazionali o le società di rating o i vari “guru” (mi riesce inspiegabile il perché si insista ad accreditare economisti e tecnici finanziari che ne indovinano, si e no, una su dieci); ognuno riporta dati (ottimistici o pessimistici) raramente paragonabili fra loro. Ritornando per il momento alla riunione citata in apertura, direi che si sono scontrati, come al solito, due punti di vista ben noti, che possono essere resi “personali” tramite i nomi di Draghi e Tremonti (limitandoci agli italiani).

Il primo non ha detto nulla di più di quanto sostiene abitualmente un liberista: non cadere “nell’errore” di porre limiti al libero commercio internazionale, alla globalizzazione che esalterebbe la competizione e dunque l’efficienza economica in termini di produttività dei vari sistemi e perciò di costi e ricavi, ecc. Il secondo non manifesta alcun entusiasmo per la globalizzazione e il semplice ricorso alle “virtù” (scarse) degli automatismi di mercato al fine di risollevare le sorti delle nostre economie, compromesse invece proprio dall’assenza di qualsiasi controllo in specie sulle istituzioni finanziarie, che hanno fatto il bello e il cattivo tempo a loro totale piacimento; Tremonti ha ribadito che aspetti della crisi come la crescita del prezzo del petrolio (e di altre commodities) non dipendono tanto dall’offerta e dalla domanda quanto da manovre speculative. Solo che poi “casca l’asino”, perché continua a prendersela con la “sleale” concorrenza di cinesi e altri paesi similari. Sarebbe come se, nella vecchia diatriba che oppose, un po’ prima di metà ottocento, i “protezionisti” alla List e i sostenitori del libero commercio internazionale (i ricardiani), i primi avessero proposto dazi sulle materie prime e agricole dei paesi concorrenti della Germania a tal riguardo, invece che sui manufatti industriali dell’Inghilterra (la nation prédominante di quell’epoca, grosso modo assimilabile agli Usa dell’epoca attuale).

Intendiamoci bene: dopo l’alternarsi di pessimi governi di centrodestra e di centrosinistra per buoni quindici anni – e dopo gli ultimi due anni governativi prodiani, veramente catastrofici, in cui hanno giocato un ruolo terrificante gli ambientalisti, che d’ora in poi dovrebbero essere cancellati a qualsiasi costo dal panorama politico di ogni paese industriale moderno – non è certo possibile risalire d’emblée la china con misure realmente strategiche adatte ai tempi lunghi o almeno medi. Tuttavia, se mai si comincia a riflettere su nuove prospettive, mai ci si riprenderà realmente in un qualsiasi modo e con qualsiasi misura. Lasciamo per un momento da parte le incoerenze e incongruenze dei vari “attori” che blaterano di economia e di misure varie di politica economica. Il centrodestra ha però vinto le elezioni anche promettendo “mari e (tre)monti” sulle “tasse” e la diminuzione della spesa pubblica. Circa la riduzione di quest’ultima, lo sfoltimento di consulenti inutili, la campagna (piuttosto agitatoria, scomposta e forse propagandistica) contro i “fannulloni” del “pubblico”, ecc., non si notano al momento grandi risultati (si può obiettare che è troppo presto); circa la pressione fiscale, però, si prevede il suo aggirarsi sempre intorno al 43% fino al 2012-13 (alla faccia de li pescetti!).

Draghi polemizza infatti con Tremonti e il centrodestra, insistendo sulla necessità della riduzione di questa pressione ormai certo al limite. Tremonti si toglie la soddisfazione di dichiarare: “Nel 2007 la Banca d’Italia diceva che la crisi finanziaria globale era solo un turbamento. Ancora nella relazione [quella del Governatore Bankitalia il 31 maggio] la si considerava quasi superata e priva di ogni impatto sull’economia reale. Prendiamo atto della conversione di tutte queste posizioni sulle nostre. Sappiamo bene che i redditi sono oggetto di un’erosione ma sappiamo anche che questo dipende dalla speculazione”. Benissimo, parole sacrosante, che danno soddisfazione a qualcuno dei “sapienti” nella loro più o meno scoperta o sotterranea polemica reciproca; ma che non aiutano gran che a dare nuovo respiro al sistema sociale ed economico nemmeno in una prospettiva di periodo relativamente lungo.

Lasciamo pur perdere ormai ogni polemica contro il rozzo, e ridicolissimo, economicismo dei poveri avanzi rancidi del “marxismo” scolastico, che aspettano sempre il crollo del capitalismo per anarchia mercantile e finanziaria o caduta (tendenziale; sic!) del saggio di profitto e altri “culti misterici” consimili. In fondo, non fanno più male delle varie “sette sataniche”, anche se irritano chi si è fatto veramente il culo su Marx e il marxismo. Comunque, con sforzo, ignoriamoli per sempre come bambini che non cresceranno mai.

La deviazione economicistica è in realtà comune a tutti gli ideologi dei dominanti in date fasi storiche come quella odierna. Ci sono i veri cultori degli automatismi del mercato, che dovrebbe essere lasciato libero di funzionare secondo le sue “leggi virtuose”. Ci sono quelli che comprendono l’importanza di determinate regolamentazioni, a volte anche energiche; le politiche che propugnano non vanno però generalmente oltre quelle economiche. L’importante è fornire un sostegno al mercato, che a volte langue se lasciato a se stesso; e inoltre rendere in qualche modo più ordinata la competizione onde evitare che qualcuno si avvantaggi con pratiche (giudicate) scorrette, ecc. Ci si guarda bene dal porre in luce quali sono le determinanti fondamentali – certo anche in termini di dotazione di beni strumentali che debbono essere prodotti dai settori economici – del conflitto che oppone i vari gruppi dominanti, sia all’interno delle nazioni sia sul piano internazionale, allo scopo di acquisire una supremazia, che è il loro fine ultimo nella formazione capitalistica (non meno che in tutte le altre formazioni sociali storicamente conosciute).

Paradigmatica l’interpretazione (o interpretazioni) sempre data della crisi del 1929. Non sto a correre dietro alle varie tesi; comunque, si incentravano sulla rottura dei circuiti finanziari anche per l’eccesso di “economia cartacea” (come oggi), caduta della domanda (consumi e investimenti) che non assorbivano la cospicua produzione di cui le economie avanzate erano potenzialmente capaci, ecc. ecc. L’importante è che si è consegnata alla storia la favola (solo in parte vera; e ogni verità parziale è una sostanziale balla) che la crisi è stata risolta dalla spesa pubblica sostituitasi alla domanda privata. La crisi, nei suoi aspetti più gravi, si è “sfogata” come si sfoga infine – dopo tanto vomito e diarrea – una grave indigestione. Per tutti gli anni trenta non si uscì però mai da una fase di incertezza, di brevi ondulazioni ora in su ora in giù; tanto è vero che furono in quegli anni, o poco dopo, formulate tutte le varie tesi stagnazioniste più note. Solo il regolamento di conti della seconda guerra mondiale, con l’emergere degli Usa quale paese predominante dell’intero capitalismo avanzato, impresse per un’intera fase storica un certo sviluppo al sistema (per quanto con periodiche crisi “minori” dette recessioni), rendendolo anche capace di affermarsi definitivamente sul suo (presunto) storico avversario.

Certuni si sforzarono di adattare questo andamento alle tesi dell’importanza decisiva della spesa pubblica, vedendo nel riarmo, nella “guerra fredda”, nelle guerre “terzomondiste” ai margini dei due campi, ecc. la causa di un aumento della domanda in grado di sostenere lo sviluppo. In realtà, stava avanzando una nuova “rivoluzione industriale”, una nuova fase di distruzione creatrice. Chi non se ne accorse a sufficienza, e continuò a premere sulla vecchia industria automobilistica (si pensi al Giappone che credé per un momento di poter diventare il vero antagonista degli Usa), prese una botta di non poco momento. Oggi, solo i paesi come Russia, Cina, India, che hanno capito l’antifona e danno forte impulso ai settori d’avanguardia, stanno emergendo come possibili competitori in una nuova epoca che sembra tendere al policentrismo. Si legga a questo proposito il documento strategico americano che abbiamo pubblicato pochi giorni fa; si impara molto di più da quello che da tutte le fesserie degli economicisti.

Questi ultimi potrebbero cercare di trincerarsi ancora dietro il fatto che anche i settori di punta sono economici, che essi contano per gli investimenti (quindi la domanda) cui danno innesco. Sarebbe ripetere le tesi fasulle dei vecchi keynesiani (alcuni anche marxisteggianti). Certo che determinate strumentazioni bisogna produrle; e questo riguarda l’economia. Ciò che conta è però l’uso fattone per la conquista di una predominanza mediante un complesso conflitto di strategie. Possibile che non ci si ponga un quesito? La crisi del 1929 colpì con maggior virulenza proprio gli Usa. Non ci si confonda pensando alla Repubblica di Weimar, in crisi da anni e anni (e per ben altri motivi), in cui il ’29 dette un’ulteriore spinta, non fu la causa principale della crisi rovinosa subita dalla Germania; del resto, se così non fosse stato, come sarebbe potuta uscire quest’ultima dalla crisi, ed entrare in pieno sviluppo, nel giro di poco più di un anno dalla presa del potere da parte dei nazionalsocialisti? Dunque, gli Usa furono l’epicentro della crisi e ne subirono le più violente conseguenze. Eppure….eppure dopo poco più di dieci anni emersero come la nation prédominante della nuova fase monocentrica in cui entrò il campo capitalistico avanzato, quello che poi sconfisse il suddetto (presunto) avversario storico nel 1989-91.
Gli Stati Uniti raggiunsero tale risultato perché erano di gran lunga il più avanzato paese della “rivoluzione industriale” basata sul taylorismo-fordismo. Dobbiamo però trarne allora conclusioni ancora una volta economicistiche e tecnicistiche? Saremmo ben sciocchi. Quel tipo di superiorità fu lo strumento non la causa prima della supremazia Usa. Questi uscirono vincitori da un conflitto strategico per la supremazia tramite un processo storico che ha molte concause. In ultima analisi, fu la politica, sempre mirante alla potenza e alla supremazia – e il cui successo esige anche, in ogni occasione, perfino un pizzico di caso e di fortuna (non era deterministicamente inscritto nella Storia che gli “Alleati” e l’Urss dovessero vincere la guerra) – a decidere la preminenza degli Stati Uniti, con tutte le conseguenze, anche economiche e di sviluppo del sistema capitalistico, che ne sono derivate.

La preminenza della politica non cambia in nulla la difficoltà o impossibilità di evitare, in date occasioni, l’esplodere di gravi crisi e la larga imprevedibilità del loro evolvere; non è che le decisioni di dati gruppi sociali siano in grado di guidare gli avvenimenti così come essi vorrebbero. Gli economicisti attribuiscono questo andamento degli eventi alle “leggi” (anarchiche) dell’economia capitalistica. In realtà, esso si presenta con simili caratteristiche a causa dello scontro strategico tra gruppi dominanti, soprattutto quand’esso raggiunge determinati livelli di acutezza. Ho detto altra volta che il terremoto – in quanto movimento incontrollato della superficie terrestre che provoca distruzioni e lutti – è provocato dall’urto di falde tettoniche in zone profonde della crosta terrestre. Quest’urto è precisamente il conflitto strategico tra dominanti per la supremazia; il terremoto si presenta “in superficie” con modalità varie: da quelle economiche (finanziarie e produttive) a quelle belliche, ecc.

Indubbiamente, la finanza consente, nel capitalismo, una notevole flessibilità e una più fluida articolazione del conflitto in questione, poiché è certamente elemento non minore di quella mobilità dominante che costituisce uno dei quattro principi strategici fondamentali citati nel documento militare statunitense di cui ho già parlato (e da noi pubblicato). Del resto, essa contribuisce a “lubrificare” e rendere “scorrevoli” anche gli altri tre: ingaggio puntuale, logistica focalizzata, protezione a tutto campo; ovviamente, si deve essere elastici e non vedere l’applicazione di tali principi alla sola guerra, che continua ad essere – con buona pace degli stolti in vena di “novità” superflue – la continuazione della politica.
Inoltre, data la relativa autonomia di ogni comparto sociale capitalistico, la finanza – anch’essa strutturata secondo gruppi (imprenditoriali) interconflittuali – “parte per la tangente”, concresce su se stessa, assumendo quell’aspetto parassitario e di “escrescenza cartacea” che alla fine crolla “su se stessa”. Tuttavia, bisognerà studiare molto più attentamente le forme di manifestazione del conflitto strategico per capire come ci si inserisce in esso, senza l’illusione di poter governare i processi di crisi verso gli sbocchi che si pretenderebbe di raggiungere; le delusioni di chi crede di tutto potere sono la costante della storia. Ciò non toglie che, in congiunture date, si possa raggiungere con le opportune strategie una parte non indifferente degli obiettivi voluti, soprattutto nel breve e medio periodo (alla lunga, si va abbondantemente “fuori strada”).

Torniamo adesso a questa squallida fase e al nostro disgraziato paese (che ha avuto, in definitiva, il peggior partito comunista occidentale, diventato la più lurida, corrotta e dannosissima sinistra d’Europa; in linea del resto con le nostre parassitarie e serve classi dirigenti economico-finanziarie, e con una destra “ufficiale” e parlamentare di una insipienza ineguagliabile). La subordinazione agli Usa non consente alcun discorso veramente strategico. Ecco perché dilaga l’economicismo degli sciocchi “guru” che si paludano da economisti o esperti di finanza, ecc. Intendiamoci: non contesto che questi ultimi siano anche preparati nel loro campo specifico. Solo che si tratta di cervelli volutamente limitati a questioni minime, tecnicistiche, prive di ampiezza di visuale.
Non potendo nemmeno sfiorare l’organizzazione del campo capitalistico che vede la preminenza centrale degli Usa, essi lasciano da parte ogni problema di reale politica di potenza (ivi comprese le determinanti economiche e produttive della stessa) e puntano sempre tutto sulla domanda. Ecco allora che compaiono, ad esempio, le richieste di aumenti retributivi e di abbassamento della pressione fiscale per “rilanciare” l’economia (senza disturbare il predominio dei “padroni imperiali”). Bisogna essere contrari a simili richieste? No, certamente; ma non tanto per rilanciare l’economia, quanto invece per una immediata e improrogabile questione di “sollievo sociale”, in una situazione di grave arretramento del reddito e delle condizioni di vita di quote consistenti (e quasi sicuramente maggioritarie oggi) della popolazione.
Queste misure debbono essere presentate per quello che sono: una panacea, giusta ma momentanea e che non risolve i problemi di fondo. Così come non li risolve l’enfasi posta sulla “produzione” se si limita a predicare la ricostituzione di condizioni di migliore competitività (“globale”) in essa, insistendo sulla mera efficienza economica (ricavi, costi) e dunque sulla richiesta di una maggiore produttività del lavoro (che verrebbe così strizzato di più sventolando l’acciughina di aumenti salariali miserabili, finora mai realizzati), di una più alta flessibilità e precarizzazione dello stesso (per renderlo “malleabile”), ecc. Infine – approfittando del fatto che si tratta comunque di problemi sussistenti e sentiti – si insiste sulla sicurezza, sulle regole da porre all’immigrazione, sulla lotta ai “fannulloni” del “pubblico”, ecc.
Personalmente, non mi opporrei frontalmente a misure simili come fanno i cretini buonisti di sinistra; così come arriverei ad un decisiva resa dei conti con quei farabutti che tentano di rivitalizzare un giustizialismo eversivo, che indebolisce ulteriormente il paese. Tuttavia, attaccherei a fondo il “minimalismo” (filoamericano) della “destra” (parlamentare), sostenendo la necessità di compiere mosse ben diverse da quella, ad esempio, della “Robin Hood tax”; si tratta semmai di arrivare, certo mediante gli opportuni scontri (anche con la sinistra), ad un’autentica riarticolazione del potere tra gruppi dominanti tale da mettere la finanza (in gran parte appunto legata alla sinistra) al servizio della produzione; ma non una qualsiasi, non per continuare a finanziare la Fiat o per salvataggi tipo quello (ormai improbabile del resto) dell’Alitalia (a meno che non lo si inserisca in un qualche discorso di ampio respiro; ma quale? Dov’è?), ecc.

L’abbiamo detto più volte; occorre la “produzione” di potenza, che non è solo quella economica, che non riguarda la mera efficienza competitiva interimprenditoriale. Adesso non ripeto le solite cose, su cui del resto parleremo a lungo e in pratica sempre. Ricordo soltanto, per l’ennesima volta, che non si combina nulla con questa destra, ma tanto meno con questa sinistra, che ha reso l’Italia il regno dell’antiscientificità, della diffidenza verso la modernità anche tecnologica. Figurati se i pacifisti capiscono l’importanza di una Finmeccanica. Figurati se gli ambientalisti capiscono ‘na mazza dei problemi dell’energia, che non può essere ottenuta solo con Sole, vento, ecc.; e magari favorendo la speculazione su alimenti come la pasta con la scusa che si punta troppo sul bioetanolo, ecc.
Abbiamo bisogno di una autentica rivoluzione culturale in questo paese; ma non si otterrà se non si mettono in condizioni di non nuocere mai più quei coglioni e farabutti che allignano, per i tre quarti, a sinistra. Rivoluzione culturale, si; ma dopo aver liberato il terreno da coltivare della sterpaglia rappresentata da un certo numero di pensatori fasulli solo capaci di chiacchierare di etica, di buoni sentimenti, di “armonie prestabilite” tra gli “esseri umani”, e di tante altre fesserie da professorini delle Università e delle varie scuole di ogni ordine e grado, ancora in mano a questi antimodernisti di epoche antidiluviane. Con questa zavorra non si procede, se non verso il Nulla. Non è certo il Berlusconi a poterci liberare di questa melma. Quanto alla Lega, siamo al “piccolo piccolo”, magari laborioso ma senza testa, senza strategia, solo la richiesta miserrima di un po’ di spazio per fare sghei; il suo mitico federalismo diventa allora una micragnosa restrizione di quegli spazi più ampi, in cui dovrebbe operare invece un’autentica forza strategica capace di superare l’economicismo e di ridare alla politica il suo significato più alto e “allargato”.

Gainfranco La Grassa
Fonte: http://ripensaremarx.splinder.com/
Link: http://ripensaremarx.splinder.com/post/17724326/L’E’+NERA++di+G.+La+Grassa
6.07.08

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