LE MILLE VITE DI EUROPA

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DI GIANLUCA FREDA
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“Dolce è il bacio di Europa, anche se tocca appena le labbra, dolce anche se sfiora appena la bocca; non è alle labbra che s’accosta, ma preme la bocca, e dal profondo rapisce l’anima intera”.
(Rufino, poeta greco del II sec. d.C., Antologia Palatina)

Dotti, medici e sapienti s’affollano torvi e neri al capezzale dell’Europa. La colossale paziente giace immobile e cerea sul suo giaciglio tettonico, col termometro infilato nello Stretto di Gibilterra e la borsa dell’acqua calda deposta sulla Lapponia. Un drappello di ghignanti becchini attende, appena fuori dall’uscio, la notizia del decesso, pronto a spartirsi le spoglie della millenaria carogna con i monatti arrivati in tutta fretta da Wall Street. Fioccano le diagnosi, le prognosi, le anamnesi, tutte morbosamente incentrate sull’analisi della pandemia economico-finanziaria che ha condotto la paziente al suo “settimo giorno” in un decorso cronico progressivo, ormai virtualmente irrecuperabile, salvo interventi miracolosi dall’Empireo. Si ipotizzano scenari patologici di peste ateniese, influenza spagnola, febbre asiatica e parvovirosi africana. Si maledice e si benedice l’Euro, impalpabile anticorpo che, secondo il diverso punto di vista dei luminari, sarebbe da reputarsi cagione dell’affezione mortifera oppure, secondo altri, un’estrema ratio immunitaria, in grado di offrire l’ultima flebile speranza di recupero ad un’inferma ormai rantolante.

Eppure a me la paziente sembra già cadavere, stecchita come un baccalà norvegese. E sebbene io non abbia alcuna intenzione di sottovalutare la pandemia finanziaria che attanaglia tutti noi, le cause del decesso mi sembra siano da ricercare nella sfera politica e culturale, più che in quella puramente economica. L’Europa è morta di Unione Politica Europea, ancor più che di bolle speculative e di credit-crunch. Per quanto angosciosa sia la crisi odierna, il nostro continente, nei suoi millenni di storia, ne aveva viste e superate di altrettanto gravi e perfino peggiori, riuscendo sempre a ristabilirsi in tempi (storicamente) non eccessivi. Senza dover sempre citare il solito 1929, si potrebbero ricordare: la grande crisi economica trecentesca, che portò alla bancarotta i colossi bancari europei dei Peruzzi e dei Bardi, anch’essi “too big to fail”, come gli istituti creditizi contemporanei; la spaventosa crisi economica di metà ‘500, che ridusse in cenci l’impero di Filippo II; o la crisi industriale e agraria, con annessa spirale deflazionistica, che impazzò per l’Europa tra il 1873 e il 1895. In tutti questi casi, l’Europa non morì e si rimise in piedi in breve tempo. Perché oggi, dunque, l’encefalogramma del vecchio continente si mostra piatto, apparentemente al di là di qualunque speranza di resurrezione?

Per rispondere a questa domanda, vale la pena riprendere in mano il bellissimo saggio di Federico Chabod Storia dell’idea d’Europa (Edizioni Feltrinelli), che racchiude gli appunti per un corso universitario tenuto a Milano nell’anno accademico 1943-44. Proprio mentre l’Europa si preparava a perdere la propria millenaria centralità nella storia del mondo, Chabod rifletteva sul significato che la coscienza di ”essere europei” aveva assunto per i popoli del nostro conteninente dall’età ellenistica fino alla modernità. “Coscienza europea”, scrive Chabod, “significa infatti differenziazione dell’Europa, come entità politica e morale, da altre entità, cioè, nel caso nostro, da altri continenti o gruppi di nazioni; il concetto di Europa deve formarsi per contrapposizione, in quanto c’è qualcosa che non è Europa, ed acquista le sue caratteristiche e si precisa nei suoi elementi, almeno inizialmente, proprio attraverso un confronto con questa non-Europa”.

La “non-Europa” in contrapposizione alla quale viene formandosi l’identità europea è naturalmente l’Asia, rispetto alla quale gli occidentali provano e teorizzano un crescente senso di estraneità, che raggiunge il suo culmine dopo la conquista turca di Costantinopoli nel 1453. E’ comunque solo a partire dagli albori dell’Umanesimo che la formulazione dell’idea di Europa come di una collettività che possieda connotazioni specifiche sul piano morale e politico acquisisce una sua rilevanza. Fino al XIV secolo, il termine “Europa” viene utilizzato in senso puramente geografico. Ciò che definisce e unifica i popoli che abitano il continente non è la condivisione di una prospettiva laica sul mondo o di un impianto politico comune, ma l’appartenenza alla “christianitas”, cioè alla collettività dei fedeli che professano una stessa religione, quella della Chiesa. In questo senso, tale collettività religiosa continentale esclude, ad esempio, la penisola iberica, sottoposta al dominio dell’Islam; mentre tende ad includere, sia pure nella tempesta di scismi e controversie cristologiche che opponevano Oriente e Occidente, l’Asia Minore e perfino alcune zone dell’Africa orientale (come il Regno Cristiano di Etiopia, il cui sovrano si proclamava discendente di re Salomone e la cui figura aveva dato vita alla leggenda del “prete Gianni”, mitologico imperatore i cui domìni, nell’immaginario popolare, si sarebbero estesi fino al cuore dell’Asia).

Ancora nel 1122, scrivendo all’imperatore Enrico V dopo la firma del Concordato di Worms, papa Callisto II mostra di intendere il termine “Europa” come mera espressione geografica, quando afferma: “…quantum diutina ecclesiae imperiique discordia Europae fidelibus intulerit detrimentum”. Ciò che in questa proposizione connota la collettività continentale è naturalmente il termine “fidelibus”, mentre il termine “Europae” è utilizzato soltanto per fornire una generica localizzazione territoriale, dai contorni poco definiti, a tale comunità religiosa.

Il cambiamento di prospettiva inizia ad affermarsi col Rinascimento. E’ Niccolò Machiavelli il primo a concepire l’Europa come un’entità non solo geografica, ma dotata di specifiche peculiarità a carattere laico, soprattutto – come non è difficile immaginare, visto l’ambito speculativo prediletto dall’autore – sul piano della politica. E’ nel capitolo IV del Principe che Machiavelli presenta le sue considerazioni sulle differenze specifiche che contrappongono la vita politica europea a quella delle entità non-europee:

“…e’ principati, de’ quali si ha memoria, si truovano governati in dua modi diversi: o per uno principe e tutti li altri servi, e’ quali, come ministri per grazia e concessione sua, aiutono governare quello regno; o per uno principe e per baroni, li quali, non per grazia del signore, ma per antiquità di sangue, tengano quel grado… Li esempli di queste dua diversità di governi sono, ne’ nostri tempi, el Turco et il re di Francia. Tutta la monarchia del Turco è governata da uno signore; gli altri sono sua servi;… Ma el re di Francia è posto in mezzo di una moltitudine antiquata di signori, in quello stato riconosciuti da’ loro sudditi e amati da quelli: hanno le loro preeminenzie; non le può il re torre loro sanza suo periculo”.

Ciò che secondo Machiavelli distingue politicamente l’Europa dalle altre realtà continentali è dunque la dinamicità interna ai singoli stati. La necessità dei sovrani europei di confrontarsi con gli interessi molteplici della nobiltà, spesso in conflitto con le direttive di gestione del potere che i sovrani stessi intendono perseguire, crea all’interno delle realtà statali europee, secondo Machiavelli, una dialettica incessante, la necessità di comporre le conflittualità attraverso la ricerca di denominatori politici comuni. Ciò che rende grande la realtà europea di fronte al dispotismo asiatico sono quindi le molte limitazioni che il sovrano europeo incontra nell’esercizio del proprio potere e che lo costringono a lasciare spazio a leggi, usi e consuetudini che un potere senza vincoli non esiterebbe a disconoscere. Machiavelli ribadisce questa sua visione della “lotta tra partiti” come cifra distintiva della vitalità di una nazione, applicandola alla Roma repubblicana, anche nel IV capitolo del libro I dei Discorsi, intitolato appunto “Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica”:

“…e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da’ Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio e radissime sangue. […] Debbesi, adunque, più parcamente biasimare il governo romano; e considerare che tanti buoni effetti, quanti uscivano di quella republica, non erano causati se non da ottime cagioni. E se i tumulti furano cagione della creazione de’ Tribuni, meritano somma laude, perché, oltre al dare la parte sua all’amministrazione popolare, furano constituiti per guardia della libertà romana […] ”.

Se davvero la linfa vitale europea è stata rappresentata per secoli da questa conflittualità virtuosa tra opposti interessi, possiamo dire che la Seconda Guerra Mondiale e l’avvento del dominio statunitense avevano già seriamente compromesso – senza però ancora spegnerlo – questo dinamismo, imponendo poco alla volta ai paesi sconfitti il modello “democratico” americano; nel quale le rivalità permanevano, ma solo nello scontro tra élite che operano dietro le quinte. Alla guida diretta degli stati sconfitti venivano insediate, in qualità di subdominanti, entità partitiche, le cui divergenze erano incentrate sulla spartizione degli ambiti di potere superstiti, ma solo entro i limiti consentiti dai conquistatori. La permanenza di un forte “secondo polo” d’attrazione politica (l’URSS) consentì comunque, ancora per oltre un quarantennio, una certa percentuale di agibilità di movimento a questi residui di dinamismo statale europeo. La caduta dell’URSS e il perfezionamento delle strutture dell’UE, ha spento completamente – e nonostante le apparenze del contrario – la conflittualità interna tra i diversi attori delle politiche nazionali. Il controllo dei dominanti sui singoli stati si è potenziato e irrigidito, con l’istituzione di una gerarchia politico-economica centralizzata. I subdominanti nazionali di un tempo sono divenuti meri esecutori di una strategia politica imposta dall’esterno. Non più duellanti per la conquista di poteri settoriali nell’ambito di nazioni con una loro (sia pur limitata) autonomia, ma sguatteri in lotta fra loro per ostentare ai padroni il maggior livello possibile di piaggeria. Non più dinamismo conflittuale, ma mero volo di avvoltoi addestrati che si accaniscono sul corpo di nazioni agonizzanti, i cui destini sono totalmente nelle mani di entità sovranazionali esterne. Esattamente come l’impero del Turco, di cui parlava Machiavelli, oggi l’Europa “è governata da uno signore; gli altri sono sua servi”.

Ancor più letale dell’estinzione delle dinamiche interne agli stati, è stata per l’Europa la soppressione della varietà di forme, di poteri, di sistemi di organizzazione sociale che contrapponevano e differenziavano stato e stato. Nella prima metà dell’Ottocento, in pieno Romanticismo, lo storico francese François-Pierre-Guillaume Guizot, nel suo Cours de l’histoire moderne (che riuniva le sue due opere Histoire générale de la civilisation en Europe e Histoire de la civilisation en France) identificava la cifra distintiva della civiltà europea nella diversità delle civiltà nazionali, che si limitavano e arricchivano l’un l’altra in un continuo interscambio culturale e in un’incessante opera di contenimento reciproco che non aveva eguali in nessun’altra realtà continentale. In Europa, scrive Guizot:

“…coesistono tutte le forme, tutti i princìpi di organizzazione sociale; i poteri spirituale e temporale, gli elementi teocratico, monarchico, aristocratico, democratico, tutte le classi, tutte le situazioni sociali si frammischiano e premono l’una sull’altra; vi sono infiniti gradi nella libertà, nella ricchezza, nella influenza. E queste forze diverse sono fra loro in uno stato di lotta continua, senza che nessuna riesca a soffocare le altre ed a prendere da sola possesso della società. […] L’Europa moderna offre esempi di tutti i sistemi, di tutti gli esperimenti di organizzazione sociale; le monarchie pure o miste, le teocrazie, le repubbliche più o meno aristocratiche vi hanno vissuto simultaneamente, fianco a fianco le une alle altre; e malgrado la loro diversità, esse hanno tutte una certa somiglianza, una certa aria di famiglia che è impossibile disconoscere. […] Perciò, anche, mentre le altre civiltà hanno conosciuto soltanto la tirannia, che si è esercitata nelle forme più varie ed in nome dei princìpi più diversi, anche nell’apparente democrazia delle città greche, perché ogni tendenza diversa da quella dominante era proscritta, l’Europa moderna è la madre delle libertà: che significa impossibilità per una sola forza di soffocare le altre: non potendo determinarsi, i princìpi diversi hanno dovuto vivere assieme, venire a transazione, accontentarsi ciascuno solo di una parte di dominio: la libertà è stata così il risultato della varietà degli elementi della civiltà europea”.

Questa molteplicità di forme è stata annichilita dalla sottomissione dell’Europa ad un’unificazione artificiale ed eterodiretta che l’ha immobilizzata in una gabbia politica ed ideologica comune. L’organizzazione sociale è accuratamente definita e pianificata, per tutti gli stati membri, da direttive centralizzate, le quali, oltretutto, muovono da considerazioni puramente economiche, tralasciando qualsiasi altra problematica; tutte le forme di governo si sono cristallizzate intorno ad un’asfittico “modello democratico”, i cui connotati sono peraltro modellati su quelli della fasulla “democrazia” alternata americana, senza alcuna possibilità di deviare dallo standard; l’omologazione culturale è anch’essa imposta attraverso normative centrali, le quali pretendono di legiferare su ogni minimo ambito dell’esistenza, imponendo per legge dimensioni delle zucchine e dei cetrioli
, criteri per l’allestimento di stalle per bovini , età minima necessaria per far scoppiare un palloncino ; si sono omologati i sistemi legislativi, la moneta, i parametri di valutazione con cui si definiscono la ricchezza e la stabilità delle nazioni, le norme sul commercio internazionale, la politica estera, le strutture militari… non c’è ambito né angolo del vecchio continente che sia sfuggito all’appiattimento terminale di quella che era un tempo la sua vivifica poliedricità.

Prima ancora di rappresentare l’esautorazione dei governi e l’immiserimento dei popoli, l’Unione Europea è l’annichilimento di ciò che rendeva il nostro continente un’entità culturalmente riconoscibile. La lotta tra poteri, interessi e classi diverse era ciò che rendeva “mobile” e operosa l’Europa; ed era questa mobilità che il Guizot contrapponeva all’immobilismo dell’Asia, nella quale un’unica classe dominante aveva trionfato.

Per Guizot la “tirannia” si configura non tanto come dominio violento e dispotico di un unico centro decisionale, ma piuttosto come rarefazione del movimento, omologazione delle diversità, dominio esclusivo di un unico gruppo o tendenza. Non importa che esso si attribuisca il nome di “democrazia” o che si abbellisca di proclami morali: il prevalere assoluto e totale di un solo principio è per Guizot la quintessenza della tirannide, il dispotismo di un’unica visione del mondo che si erge a casta, cristallizzando in una sola prospettiva la vita politica e sociale. Rileggendo le pagine della Histoire générale che Guizot dedica alla descrizione dell’Asia, sembra di sentir descrivere l’Europa odierna, con la sua politica centralizzata, le sue istituzioni imperiali, la sua intoccabile ideologia “democratica”, mutata oggi in un dogma orwelliano ossimorico che consente a Sarkozy e alla Merkel di definire “sconvolgente” la banale istituzione di un referendum che consenta ai greci di esprimersi sul proprio destino.

Questa morte culturale dell’Europa rende il suo cadavere preda di usi, tradizioni e religioni aliene, provenienti soprattutto dalla cultura dei dominanti, che sciamano per il territorio senza che le culture locali possiedano più forza per arginare la deriva. Qualcuno si ricorda, fino a una decina di anni fa, che esistessero i festeggiamenti di Halloween dalle nostre parti? Halloween, per quelli della mia generazione, era una strana festività esotica, di cui si leggeva sui fumetti o si sentiva parlare al cinema in qualche film dell’orrore. Eppure da quattro o cinque anni mi ritrovo, ogni sera del 31 ottobre, a distribuire caramelle e dolciumi a frotte di bambini mascherati che vengono a bussare educatamente al mio campanello, accompagnati da genitori senza più radici, che sembrano non porsi il minimo interrogativo sul condizionamento culturale che li spinge ad arrancare tra scheletri di cartone e zucche intagliate, nel bel mezzo della pianura padana.

In modo assai simile, la cristallizzazione imperiale voluta da Augusto aveva reso inutilizzabile – nonostante gli sforzi propagandistici per tenerlo in vita artificialmente – l’antico patrimonio della cultura e delle tradizioni romane, rendendolo preda dei culti orientali più disparati, da quello di Mitra, a quello di Iside e Osiride, fino al trionfo del cristianesimo. Naturalmente questa contaminazione dall’esterno, che è inevitabile conseguenza di ogni tentativo d’ingessamento culturale, rappresentava già un preludio alla rinascita. Ma perché l’Europa potesse rimettersi in moto e riconquistare l’identità perduta, l’impero centrale dovette dissolversi, pezzo dopo pezzo, in un’agonia politica e culturale protrattasi per secoli. Solo col feudalesimo e con la riconquista del localismo amministrativo sarà nuovamente possibile parlare di un abbozzo di cultura europea autoctona, che inizia a rinascere dalle ceneri.

L’Europa sembra essere, per sua natura storica, culturalmente refrattaria ad ogni omologazione, ad ogni minaccia alla complessità e varietà delle sue forme politiche e sociali. Ogni tentativo di appiattirla su uno standard continentale accentrato non è che un attentato alla sua peculiarità genetica, destinato a produrne la morte e – col tempo – la successiva resurrezione nell’identica molteplicità. Come la Biancaneve della favola, Europa non può morire, può al massimo essere rinchiusa, nei momenti più bui della sua storia, in una gelida teca di cristallo. Prediletta dagli dei, il suo bacio è una cosmogonia che rigenera le civiltà cancellate dalla conquista. Nel mito, dalla sua unione con Zeus-Toro rinacquero, dopo l’invasione degli Elleni, l’intera stirpe dei fenici, Minosse, re di Creta, Sarpedonte, re della Licia, Radamanto, giudice degli inferi. Il suo grembo fertile è una fucina di civiltà, che nessuna violenza degli dei, nessun rapimento, nessun matrimonio forzato può contenere a lungo.

Gianluca Freda
Fonte: http://blogghete.altervista.org
Link: http://blogghete.altervista.org/joomla/index.php?option=com_content&view=article&id=883:gianluca-freda&catid=40:varie&Itemid=44#comments
1.11.2011

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