DI JONATHAN FREEDLAND
Se esiste un settore globale che necessita di ristrutturazione, è di certo quello degli exit-polls. Lunedì pomeriggio, le prime proiezioni mettevano Romano Prodi in corsa verso una comoda vittoria su Silvio Berlusconi; man mano si avvicinava la sera, il margine di vittoria si è assottigliato fino ad una sottilissima barriera, un decimo di punto percentuale a separare i due contendenti. Due settimane fa, gli exit polls in Israele davano al partito Kadima 33 seggi, cifra caduta a 28 in un mattino. E non dimentichiamoci il 2 novembre 2004, quella notte in cui i guru dei sondaggi avevano proclamato presidente John Kerry.
E così gli italiani si sono risvegliati con un risultato fumoso e incerto, privo della chiarezza promessa il giorno prima. Eppure, per gli italiani progressisti quella era soltanto una piccola macchia sulla coppa di champagne; c’era qualcosa da celebrare: l’uscita di scena di Silvio Berlusconi. “É stato tanto umiliante vederlo in televisione, a comportarsi come un dittatore latinoamericano” dice Pietro Corsi, direttore dell’edizione italiana della New York Review of Books.
Anche lui, come tanti altri, era arrivato a disprezzare tutto quanto rappresentava il primo ministro uscente. Lo accusavano per la sua alleanza coi razzisti ed ex fascisti, per il suo settarismo e la volgarità, come quando definiva gli avversari “teste di cazzo” o “coglioni”; per la sua rampante autostima, dalla chirurgia estetica alla cura della calvizie al paragonarsi a Napoleone o Gesù Cristo. Ma c’erano anche due oservazioni più gravi. La prima riguardava la sua lealtà all’amministrazione USA più di destra a memoria d’uomo, al seguire la Casa Bianca in una Guerra impopolare.
La seconda era al rappresentare la cultura della corruzione, al suo disprezzo altezzoso per la legge, ben tratteggiato dai suoi ripetuti tentativi di riscrivere le regole per tutelarsi dai processi. La sola idea di un magnate dei media che possiede il 90% delle frequenze televisive, dell’uomo più ricco d’Italia che fa il capo del governo, era di per sé un’erosione della vita pubblica. La sua uscita di scena, se avverrà, farà istantaneamente dello spazio pubblico italiano un luogo più pulito.
Per molti le elezioni sono state un referendum su Berlusconi, una questione particolare completamente italiana. Anche così, essa si colloca comunque almeno in due scenari più ampi. Primo, gli italiani ora sono diventati l’ultima democrazia matura che si rivela nazione 50%-50%. La strada è stata aperta dagli USA col testa a testa della Florida nel 2000, mentre le elezioni del 2004 si sono decise sui soli 60.000 voti dell’Ohio. Lo scorso autunno, i tedeschi hanno prodotto un proprio foto-finish, e ora il risultato italiano da’ destra e sinistra divise da soli 25.000 voti.
Potrebbe essere un cavillo aritmetico, o far pensare che queste società sono davvero spaccate in due. Le distanze culturali che separano gli stati “blu” da quelli “rossi” in America sono ben note, ma l’Italia è altrettanto polarizzata. Nord e sud, religione e cultura laica, ricchi e poveri, destra e sinistra: tutti elementi di divisione storici e profondi del paese. È un luogo dove i cattolici lottano ancora coi comunisti per il controllo dell’anima nazionale, dove qualcuno nel ricco nord crede di avere più in comune coi tedeschi del sud che con certi italiani che definisce “Marocchini”, della Sicilia o in genere del meridione.
La tendenza più grave è la paralisi che sembra attanagliare le tre maggiori nazioni dell’Europa continentale. In Germania, Francia e Italia la classe politica (spinta da quella imprenditoriale) si è convinta che occorre uno specifico urgente rimedio per le proprie economie malate. Ci si deve sottoporre, hanno concluso da tempo le élites, ad una ristrutturazione radicale, con una deregolamentazione e liberalizzazione del mercato del lavoro. Una medicina che ha vari nomi – thatcherismo, blairismo, neoliberalismo, modello anglosassone – ma i decisori di Parigi, Berlino e Roma non hanno dubbi debba essere somministrata, se non si vuole che questi tre leoni acciaccati europei vengano colpiti a morte nella giungla globalizzata, dall’India e dalla Cina.
Il guaio è, che i cittadini di questa troika europea rifiutano di sottoporsi alla cura. Lo fanno negando il sostegno alle urne, come in Germania dove si è trasformato il vantaggio iniziale di Angela Merkel in una vittoria strettissima su Gerhard Schröder. Oppure scendendo nelle strade, come accaduto in Francia, obbligando Dominique de Villepin a lasciar cadere il suo pur modesto progetto di rendere gli under-26 francesi più facilmente licenziabili, e quindi più attraenti per i datori di lavoro. Comunque sia, i cittadini non consentono ai propri leaders di imporre le riforme thatcheriane che gli stessi leaders sostengono essenziali.
Ma, in modo contraddittorio, questi elettori non corrono verso una chiara alternativa di sinistra: in parte per il fallimento dei progressisti in tutto il mondo a proporne una. Sanno cosa non vogliono, ma devono ancora capire a favore di quale programma raccogliersi. Ne consegue una situazione di stallo, più volte evidenziata dalle urne. L’Italia è uno di questi casi. Pochi negano esista un problema. La crescita economica l’anno scorso è stata zero; il debito pubblico del paese supera il prodotto nazionale lordo: l’Italia ha speso l’equivalente di 45 miliardi di sterline in un anno solo per pagare gli interessi. Berlusconi, che aveva promesso all’Italia il medesimo miracolo economico realizzato per sé, ha assistito al declino di tutti gli indicatori che contano, dalla produttività alla competitività.
La prospettiva di lungo termine è anche peggiore. I grandi settori italiani sono il tessile, calzature, arredamento, aree in cui Cina e India possono facilmente vincere sul prezzo. Il paese ha una popolazione invecchiata e in declino: il tasso di nascita è in calo e il 28% degli italiani è pensionato, si vive più a lungo ma ci sono meno lavoratori che pagano per chi è in pensione. Tutti sanno che deve cambiare qualcosa, se il paese non vuole passare tutto il XXI secolo affondando.
Ma all’elettorato non sono state proposte azioni chiare. Da un lato, non si è sostenuta direttamente l’opzione neoliberale. L’arci-libero-mercato Berlusconi ha promesso un aumento delle pensioni pubbliche ed una maggiore tutela sociale, non di meno. Contemporaneamente, è stato il socialdemocratico Prodi a chiedere un taglio ai versamenti contributivi per i lavoratori da parte delle imprese. Ciascuno tenta di indossare i panni dell’altro. Ciò avviene in parte perché entrambi i contendenti hanno ampie coalizioni da tenere insieme. Ma anche perché la destra italiana non osa proporre un programma thatcheriano puro, temendo che l’elettorato lo rifiuterebbe. Così i partiti non si compromettono con le scelte, e lo fanno anche gli elettori.
Ma se la destra non ha offerto un programma chiaro, nemmeno la sinistra l’ha fatto. Non aveva una visione propria, che potesse contrastare l’ideologia neoliberista delle privatizzazioni e liberalizzazioni. Non si tratta di una debolezza italiana: la sinistra in tutto il mondo, con la fiducia di sé infranta dopo il 1989, manca di una visione coerente di politica economica, di una proposta di sistema da presentare agli elettori. “Troppo spesso l’alternativa al neoliberismo è solo conservatorismo, come quello degli studenti francesi che vogliono mantenere il mondo com’era”, sostiene Charles Grant, direttore del Centre for European Reform.
Dunque abbiamo imparato dalla Germania, dalla Francia, e ora dall’Italia, che la risposta thatcheriana alla globalizzazione è temuta dagli elettori: ma essi non hanno nulla da votare, in alternativa. E non c’è bisogno di exit polls, per dire che l’epoca di stagnazione finirà solo quando ne troveranno una.
Jonathan Freedland
Fonte:www.guardian.co.uk/
Link: http://www.eddyburg.it/article/author/view/1380
11.04.06
Traduzione di FABRIZIO BOTTINI per www.eddyburg.it