Come gli Stati Uniti sopprimono i diritti delle donne in Iraq
DI ANDREW STROMOTICH
Il 29 settembre 2005, poco dopo le ore 8 di sera, Amal Kadhum Swadi e suo figlio più giovane, Safa, furono arrestati dalle forze USA nel distretto di Ghazaliya a Baghdad, accusati di aver collocato un congegno esplosivo artigianale.
Erano appena usciti di casa, con altri membri della famiglia, ed avevano aperto la porta del loro garage per tirar fuori l’automobile familiare, quando diversi Humvees e numerosi soldati statunitensi armati fino a denti irruppero intorno alla famiglia Swadi con le armi spianate.
Illuminati dai riflettori e circondati da militari eccitati, madre e figlio furono separati e nascosti alla vista degli altri membri della famiglia dietro un muro di soldati e Humvees. Bendarono loro gli occhi, li ammanettarono saldamente con cinghie di plastica e posero loro i cappucci, diventati simboli forti della disumanizzazione degli iracheni sotto occupazione. Obbligarono la signora Swadi e Safa ad accovacciarsi in terra sulla strada. A Zaid, il figlio maggiore, veniva consegnata una ricevuta manoscritta per sua madre e suo fratello e mentre Zaid gridava verso la moltitudine di soldati, cercando di ricevere una risposta da sua madre, caricarono la signora Swadi e Safa sugli Humvees per portarli al Centro di Detenzione dell’Aeroporto per ulteriori procedimenti, lasciandolo in una nuvola di polvere, mentre stringeva la sua ricevuta e cercava di consolare la sorella in lacrime.
Incontrai per la prima volta Amal Swadi ad Istanbul nella sessione culminante del Tribunale Mondiale sull’Iraq. La signora Swadi faceva parte della delegazione irachena, invitata a testimoniare circa le sue esperienze con l’occupazione, in qualità di avvocatessa rappresentante delle donne detenute ad Abu Ghraib ed in altri luoghi di prigionia degli USA e della Gran Bretagna in Iraq. La signora Swadi era lì per parlare della degenerazione dei diritti umani in quel paese.
Scoprii che la signora Swadi conosce bene l’occupazione, come pure i mezzi d’informazione che la coprono. Come avvocatessa, disposta a confrontarsi con la macchina dell’occupazione, è ben conosciuta per la sua aperta difesa delle sfortunate catturate nei suoi ingranaggi.
Amal Swadi ha 52 anni. Era andata al tribunale di Istanbul accompagnata dalla figlia e dal figlio maggiore Zaid, anch’egli avvocato. Nella celebrazione d’apertura dell’avvenimento, mi presentarono la signora Swadi e Zaid, il cui amore e rispetto per la madre risultarono immediatamente evidenti. Mi studiò con attenzione mentre gli venivo presentato, e quando allungai la mano per stringere quella di sua madre, sorrise e me la prese calorosamente.
La signora Swadi, una donna modesta e religiosa, perdonò immediatamente la mia mancanza di comprensione della cultura islamica, e dopo una breve conversazione accettò che la intervistassi (la videocassetta dell’intervista sarà disponibile a breve).
La partecipazione della signora Swadi ad inchieste relative alle prigioniere dell’occupazione, cominciò quando la informarono circa un messaggio che le donne detenute di Abu Ghraib cercavano di far arrivare alla Resistenza. Il messaggio, diventato di dominio pubblico per le strade di Baghdad, pregava la Resistenza di attaccare Abu Ghraib con razzi, poiché le donne detenute al suo interno avevano abbandonato ogni speranza, e non potevano continuare a resistere ai brutali abusi ed alle torture inflitte loro quotidianamente. Nell’Islam, come nel cristianesimo, il suicidio è peccato capitale, cosicché queste donne stavano chiedendo di essere uccise. Da allora, la signora Swadi ha lavorato instancabilmente per il riconoscimento e la liberazione di quelle detenute (nel momento in cui la conobbi rappresentava legalmente nove di quelle donne delle tenebre).
La signora Swadi mi parlò delle sue visite ad Abu Ghraib, delle difficoltà che affrontò cercando di ottenere contatto con le donne al suo interno, incluso il fatto che le forze USA negavano la loro esistenza. Quando i tentativi d’intimorirla si dimostrarono inutili, guardie arroganti la scacciarono semplicemente dal posto. Quando tornò ad Abu Ghraib per una seconda visita, fu con la determinazione forgiata durante l’insonnia della notte precedente. La sua risolutezza finì con l’essere ricompensata, e dopo avere aspettato tutto il giorno in uno dei cortili del complesso, sotto il sole del deserto, senz’acqua né cibo, finirono per consentirle l’accesso alle sue clienti (sei in tutto). La signora Swadi mi raccontò che l’emozione dell’esperienza fu insostenibile: perse il controllo e singhiozzò insieme alla prima detenuta che le presentarono.
Le presentarono le detenute in una piccola cella di cemento oscuro, che sembrava essere stata destinata agli interrogatori. Le donne furono scortate alla cella attraverso una pesante porta, dietro una sedia ed una scrivania. Nel corso di tutte le visite le guardie si mantennero ad alcuni centimetri da quelle anime straziate (motivano quest’atteggiamento come “controllo” del loro soggetto).
La prima detenuta presentata era una giovane donna di circa 20 anni. In cattive condizioni, pallida e scarna, appena in grado di reggersi in piedi, sembrava soffrire di un collasso mentale. Fissava il suolo. Quando finalmente alzò gli occhi e vide il suo visitatore dal mondo esterno, le due persero il controllo.
Durante la sua breve intervista, resa difficile non soltanto dagli accalappiatori della donna che facevano continuamente la ronda a pochi centimetri di distanza, ma anche dalla sua voce flebile e tremula, la signora Swadi ascoltò come il suo giovane figlio e suo fratello fossero stati assassinati di fronte a lei, durante un’incursione in casa sua, realizzata dalle forze USA. Aveva una ferita lungo l’avambraccio, suturata in modo rudimentale, causata dalla baionetta di un soldato partecipante al rastrellamento.
Sin dal suo arresto, avevano mantenuto la donna nuda in una piccola cella di cemento, senza né letto né un gabinetto propriamente detti. La donna parlò di stupri e di torture per mano dei suoi sequestratori statunitensi ed iracheni. Non è difficile credere alle affermazioni della signora Swadi, visto che al Congresso USA sono state presentate immagini di donne irachene obbligate a spogliarsi mentre soldati USA puntavano loro le armi contro le tempie e data l’ammissione dello stesso Pentagono circa gli stupri nei suoi centri di detenzione.
Il generale Antonio Taguba, famoso per aver diretto l’inchiesta del Pentagono sulle affermazioni di torture ed abusi ad Abu Ghraib (il quale si limitò ad investigare sui membri della Brigata 800 di Polizia Militare), riconobbe che soldati USA parteciparono a stupri nella prigione. Questo riconoscimento avvenne sotto forma di memorandum interno del Pentagono. In esso il generale Taguba si riferì ad immagini di guardie statunitensi “che avevano rapporti sessuali” con detenute irachene. La scelta del linguaggio di Mr.Taguba quando si riferisce a stupri è rivelatrice, e chiarisce ancora di più l’atteggiamento insensibile e sconsiderato del Pentagono verso questi crimini.
[Antonio Taguba]
Le immagini mostrano chiaramente crimini sessuali violenti. Un congressista che vide quelle immagini, raccolte dal Pentagono, dichiarò che la loro pubblicazione avrebbe provocato massicce manifestazioni ed avrebbe messo in pericolo gli statunitensi all’esterno (difficilmente si trattava dell’immagine del sesso consensuale alla quale alludeva Taguba).
Il generale Taguba informò anche che soldati USA filmarono video di questi violenti crimini sessuali, una pratica comune tra criminali sessuali, che spesso portano con sé trofei dei loro crimini, perché li aiutino a rivivere quegli eventi successivamente (è una pratica risultata molto utile nell’istruttoria per reati sessuali e che speriamo serva allo stesso modo in questi casi). Il generale Taguba riconobbe anche che ci furono per lo meno due gravidanze conseguenti tali crimini sessuali contro detenute ad Abu Ghraib.
Un recente tentativo del Senato di proibire l’uso della tortura da parte del Pentagono, la reazione del presidente Bush nel minacciare di porre il veto a quella legge, così come le trattative della Casa Bianca per esonerare la CIA da ogni restrizione rispetto alla tortura, hanno avuto come risultato rendere evidente agli occhi di tutti l’uso sistematico della tortura. Per coloro che hanno sentito parlare dell’Operazione Phoenix e della pubblicazione in passato di manuali di tortura da parte della CIA, non è invece una sorpresa.
Il 27 gennaio 1997 i giornalisti del Baltimore Sun Gary Cohn, Ginger Thompson e Mark Matthews, pubblicarono sul loro giornale un articolo dal titolo “La CIA insegnò la tortura”. I giornalisti si basarono in gran parte su due manuali stampati dalla CIA, resi pubblici su pressione del Sun, rivendicando la legge sulla libertà d’informazione del 1994. Il primo manuale, intitolalo “KUBARAK – Counterintelligence Interrogation” [Interrogatorio di Controspionaggio] – Luglio 1963, insieme all’aggiornato manuale “Human Resources Exploitation Training” [Manuale di Formazione per lo Sfruttamento delle Risorse Umane] – 1983, mostrano un quadro di decenni di politica di tortura da parte della CIA.
Sebbene il Pentagono abbia sostenuto che questi manuali furono creati solo con propositi educativi, allo scopo di aiutare le truppe USA ad identificare installazioni di tortura, gli stessi manuali confutano tale posizione.
Il manuale del 1963 segnala, nella sezione intitolata “L’Interrogatorio Coercitivo di Controspionaggio di Fonti Resistenti”, che: “droghe (ed altri mezzi discussi in questa sezione) non devono essere utilizzati persistentemente per facilitare l’interrogatorio che segue la capitolazione. La loro funzione è causare la capitolazione, per aiutare a passare dalla resistenza alla cooperazione. Una volta ottenuto questo cambiamento, le tecniche coercitive devono essere abbandonate, tanto per ragioni morali quanto perché non più necessarie e perfino controproducenti”.
La versione del 1963 tratta anche del disegno d’installazioni di “interrogatorio”, come segnala l’articolo del Sun. Il manuale dice: “si deve avere dimestichezza con la corrente elettrica, affinché con trasformatori ed altri congegni modificatori si abbia la manualità adeguata quando si rendano necessari”.
È importante che si sottolinei che il manuale, aggiornato al 1983, uscì pubblicamente per la prima volta alla luce quando fu trovato da forze della Resistenza in Guatemala, che lo recuperarono da squadroni della morte spalleggiati dagli USA in quel paese, i quali a loro volta lo ottennero nel campo d’addestramento della Scuola delle Americhe della CIA a Fort Benning, in Georgia [USA]. È anche importante segnalare che l’ambasciata USA del vicino Honduras in generale è stata riconosciuta come centrale operativa della CIA in Centroamerica, e che John Negroponte vi operò come ambasciatore durante i sanguinosi anni ’80 (lo stesso Negroponte che fu poi nominato ambasciatore in Iraq, quando la politica della tortura in quel paese venne alla luce per la prima volta).
Questi due manuali, e la realtà di anni di politica di torture in Vietnam sotto gli occhi vigilanti della CIA, rendono del tutto incredibile e vana ogni argomentazione circa la responsabilità di “elementi delinquenti” piuttosto che l’attuazione di una politica sistematica.
Negli ultimi anni dell’occupazione del Vietnam da parte degli USA e nella misura in cui si rendeva sempre più ovvio pubblicamente che gli USA combattevano contro quegli stessi che pretendevano di proteggere (in realtà c’erano attacchi contro le forze USA nel profondo sud del Vietnam, lanciati dagli stessi sudvietnamiti), la CIA lanciò una massiccia campagna di controspionaggio, in codice “Operazione Phoenix”, orientata a combattere la Resistenza sudvietnamita. Con l’Operazione Phoenix la CIA cominciò a compilare liste di persone vietnamite di suo interesse, basate su dati ed informazioni raccolte durante interrogatori e che includevano uomini, donne e bambini tra i 15 ed i 70 anni.
Versione inglese
Data: 9 novembre 2005
Fonte: Dahr Jamail’s Iraq Dispatches – Covering Iraq: Forum
Versione spagnola
Fonte: Rebelion
Traduzione dall’inglese a cura di GERMAN LEYENS per www.rebelion.org
Versione italiana
Traduzione dallo spagnolo a cura di ADELINA BOTTERO E LUCIANO SALZA