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La Redazione

 

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L'AVVENTO DEI DRONI ASSASSINI: LA GUERRA SEGRETA DELL'AMERICA

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A cura di Truman
Il 25 Gennaio 2013
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DI MICHAEL HASTINGS
Rolling
Stone

Uno sguardo ravvicinato a come le uccisioni telecomandate hanno cambiato il nostro modo di combattere

Un giorno alla fine di novembre [2011] un velivolo senza pilota è decollato dalla base aerea di Shindand, in Afghanistan, a circa 120 chilometri dal confine con l’Iran. La missione del drone: spiare il programma nucleare iraniano, insieme a qualsiasi attività insurrezionale gli iraniani potessero appoggiare in Afghanistan. Con un costo alla consegna stimato sui 6 milioni di dollari, quel drone era il risultato di più di 15 anni di ricerca e sviluppo, a cominciare dall’enigmatico progetto di nome DarkStar supervisionato dalla Lockheed Martin.
La prima prova di volo di DarkStar ebbe luogo nel 1996, ma in seguito a uno schianto e ad altri incidenti la Lockheed aveva annunciato la cancellazione del programma. Secondo gli esperti militari, quella fu solo una comoda scusante per “sparire dal radar” [going dark], nel senso che ulteriori sviluppi del progetto DarkStar si sarebbero svolti sotto un velo di segretezza.

Il drone che si stava dirigendo verso l’Iran, l’RQ-170 Sentinel, sembra
una versione in miniatura del famoso caccia invisibile, l’F-117
Nighthawk: slanciato, color sabbia e vagamente inquietante, con un
occhio tondeggiante al posto della carlinga. Con un’apertura alare di
20 metri, ha la capacità di volare invisibile ai radar. Invece di
gridare ai quattro venti la sua posizione con un segnale costante di
segnali radio – l’equivalente elettronico di una scia di fumo –
comunica con la base in modo intermittente, rendendosi virtualmente
impossibile da individuare. Una volta raggiunta la sua destinazione,
225 chilometri dentro lo spazio aereo iraniano, si è potuto librare
silenziosamente e ad ampio raggio per ore, fino a un’altitudine di
15.000 metri, fornendo un flusso ininterrotto di immagini di
ricognizione – un’impresa al di là delle capacità di qualsiasi pilota umano.

Poco dopo il decollo – una manovra gestita da operatori a terra in
Afghanistan – l’RQ-170 passava a una funzione semiautomatica,
seguendo una rotta preprogrammata sotto la guida di piloti seduti
davanti a schermi di computer situati a circa 12.000 chilometri di
distanza, nella base aerea di Creech nel Nevada. Ma prima che la
missione fosse completata, qualcosa è andata storta. Uno dei tre
flussi di dati del drone si è corrotto, e ha cominciato a inviare
alla base informazioni imprecise. Poi il segnale si è interrotto, e
la base di Creech ha perso ogni contatto con il drone.

A tutt’oggi, perfino dopo un’investigazione di 10 settimane da parte di
funzionari statunitensi, non è chiaro cosa sia avvenuto esattamente.
Gli iraniani sono davvero riusciti, come avrebbero dichiarato in
seguito, ad hackerare il drone e ad abbatterlo? In questo caso, hanno
condotto un attacco di tipo sofisticato – penetrando il cervello
criptato del drone e facendolo atterrare – o un assalto più
grossolano, bloccandone il segnale e facendolo schiantare? O erano
stati gli operatori di Creech a fare un errore, causando un’anomalia
che aveva condotto il velivolo a terra? “Quando succede un casino
tecnico, la gente va nel panico e cerca di rimediare, facendo cose
che non avrebbe dovuto fare,” dice Ty Rogoway, un esperto di droni
che dirige un sito tecnico di nome Aviation Intel. “La cosa mi
puzzava fin dal primo giorno.”

Quello che sappiamo è che il governo ha mentito su chi fosse responsabile
del drone. Poco dopo lo schianto del 29 novembre il comando militare
(a guida USA) di Kabul rilasciò un comunicato stampa che parlava
della perdita di “un velivolo di ricognizione senza pilota in
missione di volo sopra l’Afghanistan occidentale.” Ma il drone non
era sotto comando militare – era controllato dalla CIA, come in
seguito l’agenzia è stata costretta ad ammettere.

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Dieci giorni dopo lo schianto, il drone scomparso riapparve all’interno di
un grande ginnasio di Teheran. L’esercito iraniano esibiva il
velivolo come un trofeo di caccia; sotto il drone pendeva una
bandiera americana con teschi al posto delle stelle. Il drone
sembrava pressoché intatto, come se fosse atterrato su una pista.
Gli iraniani dichiararono che simili voli di sorveglianza
rappresentavano un “atto di guerra”, e minacciarono di compiere
rappresaglie attaccando le basi militari USA. Il Presidente Obama
intimò agli iraniani di restituire il drone, ma ormai il danno era
fatto. “Era come se qualcuno della Apple avesse dimenticato in un
bar il prototipo del prossimo iPhone,” dice Peter Singer
specialista della difesa al Brookings Institute e autore di Wired
for War: The Robotics Revolution and Conflict in the 21st Century.
“Per l’Iran è stata una
vittoria propagandistica.”

L’incidente evidenzia anche il ruolo, sempre più centrale, che i droni rivestono
nella politica estera americana. Durante l’invasione dell’Iraq del
2003, l’esercito condusse soltanto una manciata di missioni senza
pilota. Oggi il Pentagono può schierare una flotta di 19.000 droni,
e affida loro missioni segrete che un tempo erano esclusiva delle
Forze Speciali o di operativi sotto copertura. Droni americani sono
stati inviati a spiare o uccidere bersagli in Iran, Iraq,
Afghanistan, Pakistan, Yemen, Siria, Somalia e Libia. Ci sono droni
che pattugliano abitualmente il confine col Messico, e droni che
hanno fornito sorveglianza aerea sulla residenza di Osama bin Laden
ad Abbottabad, in Pakistan. Nei suoi primi tre anni, Obama ha
autorizzato 268 missioni riservate senza pilota, il quintuplo di
quelle ordinate da George W. Bush in otto anni di mandato. In tutto,
i droni sono stati utilizzati per uccidere più di 3000 individui
(indicati come terroristi), inclusi almeno quattro cittadini
statunitensi. Nel far ciò, secondo le organizzazioni per i diritti
umani, hanno anche causato la morte di più di 800 civili. Il
programma droni di Obama, infatti, comporta la più grande offensiva
aerea (senza piloti) mai condotta nella storia militare; mai così
pochi hanno ucciso così tanti con un sistema teleguidato.

L’utilizzo dei droni sta rapidamente trasformando il nostro modo di condurre la
guerra. Sul campo di battaglia un capo plotone può ricevere dati in
tempo reale da un drone che gli permettono di avere una visione della
zona per miglia in tutte le direzioni, aumentando le capacità
d’azione di quella che normalmente sarebbe stata un’unità piccola e
isolata. “È un’informazione sul campo resa democratica,” dice
Daniel Goure, un esperto di sicurezza nazionale che ha lavorato al
Ministero della Difesa durante entrambe le amministrazioni Bush. “È
l’equivalente di Twitter nel campo della ricognizione.” I droni
hanno anche cambiato il volto della CIA, trasformando un’agenzia
civile di raccolta di informazioni in un’organizzazione paramilitare
a tutti gli effetti – un’organizzazione che colleziona lo stesso
numero di scalpi di qualsiasi altro corpo dell’esercito.

Ma quello che i droni implicano va al di là di una singola unità da
combattimento o agenzia civile. In un quadro più ampio, la natura
telecomandata delle missioni senza pilota permette ai politici di
compiere atti di guerra e allo stesso tempo sostenere che non siamo
in guerra – come stanno facendo attualmente gli Stati Uniti in
Pakistan. In aggiunta, il Pentagono e la CIA ora possono lanciare
attacchi militari o ordinare assassinî politici senza nemmeno un
solo uomo sul campo – e senza doversi preoccupare di reazioni
avverse del pubblico riguardo ai soldati che tornano nelle buste di
plastica. L’uso immediato e la segretezza dei droni rende più facile
che mai per i leader politici scatenare la potenza militare
dell’America – e più arduo che mai valutare le conseguenze di
questi attacchi clandestini.

I
droni sono diventati l’arma antiterrorismo di elezione per
l’amministrazione Obama,” dice Rosa Brooks, una docente di Legge di
Georgetown che ha collaborato all’istituzione di un nuovo ufficio del
Pentagono dedicato alle politiche legali e umanitarie. “Quello che
credo non si sia fatto abbastanza è fare un bel passo indietro e
domandarsi: ‘Non staremo creando più terroristi di quanti ne
uccidiamo? Non staremo promuovendo militarismo ed estremismo, proprio
nei luoghi dove li stiamo attaccando?’ Molto di quel che riguarda le
azioni coi droni è avvolto nella segretezza. È molto difficile
valutare dall’esterno quanto siano davvero pericolose le persone
prese di mira.”

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L’idea
di una ricognizione militare con mezzi aerei risale alla Guerra
Civile, quando sia l’Unione che la Confederazione usavano palloni ad
aria calda per spiare gli avversari, rilevare movimenti di truppe e
dirigere il tiro dell’artiglieria. Nel 1898, durante la Guerra
Ispano-Americana, l’esercito statunitense attrezzò un aquilone con
una macchina fotografica, realizzando le prime foto di ricognizione
aerea. Quando, con la I Guerra Mondiale, gli aeroplani si unirono
all’arsenale bellico, seguirono un percorso analogo a quello dei
droni – una tecnologia viene prima impiegata per scopi di
sorveglianza, poi come mezzo per uccidere il nemico.

Durante
la II Guerra Mondiale gli scienziati nazisti condussero esperimenti
coi missili radiocomandati per i bombardamenti sull’Inghilterra –
creando, essenzialmente, i primi droni kamikaze. Ma fu soltanto alla
fine degli anni 50, quando l’America e la Russia erano in corsa per
la conquista dello spazio, che gli scienziati si fecero un’idea di
come far volare qualcosa senza nessuno a bordo: lanciare satelliti,
ad esempio, o telecomandando le traiettorie di missili e razzi. Ci
furono anche significativi progressi tecnologici che resero fattibile
la fabbricazione di droni. “Costruivamo motori e sistemi di guida
sempre più piccoli, e miglioravamo la nostra capacità di
comunicazione ed elaborazione dati,” riferisce Goure.

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Il
primo uso di un moderno drone venne con la Guerra del Vietnam, quando
il Pentagono sperimentò velivoli senza equipaggio per quella che
l’esercito chiamò ISR: intelligence, sorveglianza e ricognizione.
“Il Vietnam fu decisivo per lo sviluppo dei droni come strumento
ideale per lo svolgimento di missioni pericolose senza il rischio di
perdere il pilota,” dice lo storico dell’aviazione David Cenciotti.
Entro la fine della guerra, le missioni di ricognizione dei droni
erano arrivate a 3.500. L’aviazione aveva anche sviluppato due droni
da attacco – il BGM-34A e il BGM-34B – ma non li utilizzò mai
sul campo: i sensori non avevano ancora la capacità di identificare
e colpire gli obbiettivi mimetizzati con la precisione necessaria.

Negli
anni successivi al Vietnam, molti dei progressi tecnologici relativi
ai droni vennero compiuti da Israele, che li ha utilizzati per
sorvegliare la Striscia di Gaza e per compiere uccisioni mirate.
Durante gli anni 80 l’aviazione israeliana vendette al Pentagono
molti dei suoi modelli, incluso un drone chiamato Pioneer. Il
Pioneer, che poteva essere lanciato sia da una nave sia da una base
militare, aveva un’autonomia di volo di 185 chilometri. Gli americani
lo misero prontamente all’opera durante la I Guerra del Golfo: in uno
dei momenti più assurdi del conflitto, un gruppo di soldati iracheni
si arrese a un Pioneer, agitando lenzuola e magliette bianche verso
il drone che gli volava sopra in circolo. Alla fine le missioni del
Pioneeer nel Golfo Persico furono più di 300, e sarebbe stato
impiegato più tardi nel tentativo di stabilizzazione di Haiti e nei
Balcani degli anni 90.

Arrivati
al 2000, il Pentagono ormai premeva per una massiccia espansione del
programma droni, nella speranza che entro il 2012 almeno un terzo
dell’aviazione USA sarebbe stata senza pilota. Ma è stata la Guerra
al Terrorismo che ha infine permesso all’esercito di utilizzare i
droni come vere e proprie armi, rendendoli capaci di colpire bersagli
selezionati. Il primo grande successo dei droni killer fu la missione
di un Predator contro un convoglio nel 2002, in cui fu ucciso il
leader di Al Qaeda nello Yemen. Arrivati al 2006, il Pentagono ha
elevato i propri obbiettivi, puntando alla trasformazione in droni
del 45% dei suoi velivoli da incursione. “Prima dei droni se volevi
inseguire i terroristi dovevi mandare i soldati,” dice Goure.
“Mandavi la Marina, mandavi i Marine, come fece Reagan contro
Gheddafi negli anni 80. Bombardavi i loro accampamenti. Adesso
abbiamo i droni, che possono essere telecomandati dall’esercito o
dalla CIA da una distanza di migliaia di chilometri.”

Il
basso costo e l’efficacia letale dei droni – la morte per
telecomando – ne hanno fatto uno strumento imprescindibile per le
maggiori potenze militari, così come per qualunque dittatore da
operetta. Il mercato globale per i velivoli senza pilota è oggi di 6
miliardi di dollari all’anno, con più di 50 paesi a fare da
acquirenti. Nell’ultimo decennio i militari hanno sperimentato una
vasta serie di velivoli senza pilota – dai micro-droni che
funzionano con minuscole batterie a quelli con un’apertura alare di
30 metri [1], a carburante o energia solare. I droni utilizzati in
Iraq e in Afghanistan – il Predator e il Reaper – sembrano
modellini insolitamente grossi, e costano 13 milioni di dollari
cadauno. Un drone delle dimensioni di un 727, il Global Hawk, è
stato usato dopo lo tsunami in Giappone e il terremoto ad Haiti, per
fornire alle operazioni di soccorso uno sguardo dal cielo delle zone
colpite. Uno dei droni più grandi attualmente in fase di sviluppo è
il SolarEagle, progettato dalla Boeing a dal DARPA, la sezione di
ricerca sperimentale del Ministero della Difesa. Con un’apertura
alare di più di 120 metri, il SolarEagle sarà in grado di restare
in volo per cinque anni di seguito, avviandosi a rimpiazzare i
satelliti spia, molto costosi da mettere in orbita.

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All’inizio
molti piloti erano contrari all’incremento nell’uso dei droni,
considerandoli niente di più di surrogati robotici dei piloti da
caccia altamente addestrati. “È in corso un violento conflitto
culturale,” dice Doug Davis, direttore del programma Global
Unmanned Aircraft Systems Strategic Initiative [Iniziativa Strategica
per i Sistemi Globali di Aviazione senza Equipaggio] presso la New
Mexico State University, l’unico sito civile della nazione per il
collaudo dei droni. “A nessuno fa piacere il pensiero di essere
gradualmente sostituito nel proprio lavoro.” Le tensioni si erano
solo acuite quando l’aviazione aveva selezionato gli operatori ai
droni su base “non volontaria”, strappandoli da una carlinga e
sbattendoli in una sala controllo contro la loro volontà. Oggi, dato
l’alto profilo e le prospettive future dell’uso dei droni, i piloti
fanno la fila per diventarne operatori, offrendosi volontari per un
addestramento intensivo, che include missioni simulate, della durata
di un anno. “C’è un maggior entusiasmo per questo lavoro,” dice
il Tenente Generale David Deptula, un pilota da caccia che ha diretto
il programma droni dell’aeronautica militare fino al 2010. “Molti
piloti sono entusiasti di guidare questi affari.”

Per
una nuova generazione di giovani pistoleri l’esperienza di pilotare
un drone non è molto diversa dai videogame con cui sono cresciuti. A
differenza dei piloti tradizionali, che lanciano fisicamente il loro
carico di bombe sull’obbiettivo, l’operatore di un drone uccide col
tocco di un pulsante, senza nemmeno lasciare la sua base – una
differenza che serve solo a desensibilizzare ulteriormente riguardo
l’uccisione di esseri umani. (Il gergo militare definisce un uomo
ucciso da un drone come “bug splat” [spiaccicamento di insetto],
dato che guardarne il corpo tramite le immagini verdi e sgranate di
un video da’ proprio l’impressione di un insetto schiacciato.) Come
racconta il pilota Tenente Colonnello Matt Martin nel suo libro
Predator,
guidare un drone è “quasi come giocare con il computer game
Civilization
– qualcosa che viene direttamente da “un romanzo di fantascienza.”
Dopo una missione, nel corso della quale aveva guidato un drone
contro una scuola professionale occupata da ribelli iracheni, Martin
si era sentito “elettrizzato” e “pieno di adrenalina”,
esultando perché “avevamo riempito il college di buchi,
distruggendone una gran parte e uccidendo Dio solo sa quanta gente.”

Solo
più tardi la realtà di ciò che aveva fatto si era fatta strada
dentro di lui. “Dovevo ancora rendermi conto di quell’orrore,”
rievoca Martin.

Sia
il Pentagono sia la CIA amano vantarsi delle azioni teleguidate che
hanno eliminato nemici combattenti nel corso della Guerra al
Terrorismo. L’RQ-170 Sentinel è stato impiegato nel raid che ha
eliminato bin Laden, e i funzionari statunitensi sono fieri di aver
eliminato, non molti mesi fa, altri due operativi di Al Qaeda in
Pakistan. Il Presidente Obama ha di recente respinto le
preoccupazioni circa le vittime civili, e ha insistito di non stare
ordinando “un mucchio di azioni a casaccio.”

Ma
per ogni obbiettivo di “alto valore” ucciso dai droni, c’è un
civile o un’altra vittima innocente che ne paga il prezzo. Il primo
grande successo ottenuto dai droni – l’attacco del 2002 che eliminò
il leader di AL Qaeda nello Yemen – comportò anche la morte di
cittadini statunitensi. Più di recente, nel 2010, un drone delle
forze armate statunitensi in Afghanistan ha colpito l’individuo
sbagliato – uccidendo un rinomato attivista per i diritti umani di
nome Zabet Amanullah, che in realtà era a favore del governo
sostenuto dagli USA. È venuto fuori che l’esercito aveva tenuto
sotto controllo per mesi il cellulare sbagliato, confondendo
Amanullah con un leader Talebano. L’anno prima un drone uccise
Baitullah Mehsud, il capo dei Talebani pachistani, mentre era in
visita presso il suocero; con lui venne vaporizzata anche la moglie.
Ma gli USA avevano già cercato per quattro volte di di uccidere
Mehsud per mezzo dei droni, uccidendo nei tentativi falliti dozzine
di civili. Uno degli attacchi falliti, secondo un’organizzazione dei
diritti umani, uccise 35 persone, inclusi nove civili, e si parla
anche di un bambino di otto anni ucciso nel sonno da schegge vaganti.
Un altro di questi attacchi andati a vuoto, nel giugno del 2009, fece
fuori 45 civili, secondo affidabili fonti giornalistiche.

In
effetti, entrando in carica Obama ha ereditato due distinti programmi
per l’uso dei droni – e dopo le insistenze del Vice Presidente Joe
Biden, che ha premuto parecchio per una maggior attenzione alle
tattiche antiterroristiche, li ha ampliati entrambi radicalmente. Il
primo programma, che rientra nel campo d’azione del Pentagono, si
concentra soprattutto sulla ricognizione e sugli attacchi aerei che
proteggono le truppe sul terreno. “Il successo più grande dei
droni è quello di mantenere vivi i soldati americani,” dice Goure.
Il programma del Pentagono, che si sviluppa più o meno in maniera
non riservata, è localizzato in più di una dozzina di centri in
tutto il mondo, dal Nevada all’Iraq. In un ampio hangar della base
aerea di Al Udeid (nel Qatar), tre avvocati militari coprono a turno
le ventiquattr’ore, pronti a sottoscrivere le autorizzazioni alle
missioni dei droni. Questi avvocati, che sono obbligati a seguire un
corso sul rispetto della Convenzione di Ginevra, seguono procedure
operative standard simili a quelle utilizzate nel decidere un attacco
aereo tradizionale. “C’è una serie di controlli legali incrociati
che l’aviazione fa ogni volta,” dice Pratap Chatterje, un
giornalista investigativo che fa parte del consiglio direttivo di
Amnesty International [USA]. “È un segreto di Pulcinella – il
manuale è online.”

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Una
video-presentazione del processo di acquisizione dei bersagli
illustrati da Chatterje ci offre la possibilità di osservare
l’apparato decisionale dell’esercito. Il materiale filmato,
proveniente da un attacco senza pilota svoltosi in Afghanistan e
utilizzato per un’analisi tattica a posteriori, mostra due uomini che
istallano e fanno fuoco con un mortaio contro una base militare
statunitense. Un “pacchetto bersaglio” – informazioni raccolte
in fretta e furia dai soldati statunitensi – identifica gli uomini
come insorti, e fornisce particolari sulla posizione dell’obbiettivo
e sulla vicinanza di aree abitate da civili. Quando gli insorti si
allontanano dalla base, il drone li segue finché il comando militare
che osserva le immagini in tempo reale decide che hanno raggiunto una
zona in cui i danni collaterali saranno limitati. Quindi il drone
lancia un missile a guida laser Hellfire AGM-114, di circa 45 chili
di peso. “Così si distrugge il veicolo senza creare un cratere,”
si sente spiegare nel video il Colonnello James Bitzes. “È molto,
molto preciso.” L’intera operazione, dall’identificazione degli
insorti al lancio del missile, è questione di minuti.

Il
programma droni della CIA, al contrario, è stato sviluppato in
segreto. Gli avvocati dell’agenzia devono controfirmare gli attacchi,
ma la procedura rimane classificata, e la supervisione è assai meno
restrittiva di quella attuata in campo militare. A rendere le cose
ancora più torbide, la CIA effettua i suoi attacchi coi droni in
zone dove ufficialmente gli USA non sono in guerra, inclusi Yemen,
Somalia e Pakistan. “Se ci si trova in Afghanistan sarà
l’aviazione a decidere l’attacco,” dice un ex funzionario della CIA
addentro al programma droni. “Se invece ci si trova in pieno
territorio pachistano, la faccenda viene affidata alla CIA.”

Secondo
John Rizzo, che ha lavorato per la CIA come capo consulente per sei
anni, la procedura di approvazione degli attacchi di droni richiedeva
che lui e altri 10 altri avvocati dell’agenzia “assassinassero”
delle persone dal centro antiterrorismo della CIA a Langley, in
Virginia. La maggior parte di questi avvocati sta alla porta accanto
del direttore della CIA, al settimo piano – il “piano del
potere”, come lo chiamano nell’agenzia – oppure è incorporata in
altri servizi, inclusi quelli designati come “clandestini” e “in
zone sensibili” [2]. Quando l’agenzia vuole lanciare un attacco di
droni, spiega Rizzo in un’intervista su
Newsweek,
chiede a un avvocato di fornire copertura legale per l’uccisione,
sottoscrivendo un dossier di cinque pagine che espone le motivazioni
dell’attacco. Il documento di solito contiene una lista di 30 persone
da uccidere. Di tanto in tanto le richieste vengono respinte per
un’insufficienza di informazioni. Il più delle volte Rizzo approvava
l’uccisione, aggiungendo l’espressione “si concorda” dopo la
frase “Si richiede dunque l’approvazione di acquisizione bersagli
per un’operazione di carattere letale.” Nei suoi sei anni come come
capo consulente, riferisce Rizzo, ha sottoscritto all’incirca una
lista di uccisioni al mese.

Gli
attacchi senza equipaggio contro obbiettivi di alto profilo –
chiamati “personality strike” – di solito necessitano
dell’approvazione di un avvocato come Rizzo, del capo della CIA e
qualche volta del Presidente in persona. Ma l’uso più comune che la
CIA fa dei droni – in quelli che chiama “signature strike” [3]
– riguardano attacchi a gruppi di supposti militanti che si
comportano in un modo che appare sospetto. Questo tipo di attacchi si
afferma siano l’idea di un veterano della CIA che ha guidato il suo
programma droni negli ultimi sei anni, un convertito all’Islam che
fuma come un turco e porta il nome in codice di “Roger”. In un
suo recente profilo, il
Washington Post
ha chiamato Roger “il principale ideatore della campagna droni
della CIA.” Quando si tratta di signature strike, dicono gli
addetti ai lavori, la decisione di lanciare un attacco coi droni è
essenzialmente una questione di probabilità: se l’agenzia ritiene
verosimile che un certo gruppo o un individuo siano degli insorti,
deciderà di colpire. “La CIA conduce sempre più operazioni
basandosi sulle percentuali probabilistiche,” dice un ex
funzionario addentro al programma droni dell’agenzia.

Ma
per paesi come il Pakistan ciò che l’America considera un attacco
legittimo contro dei terroristi è da considerarsi poco meno che la
versione militarizzata di un omicidio. “Dal punto di vista della
legge pachistana quelli commessi da noi sono probabilmente omicidi,”
dice l’ex funzionario della CIA. “Le nostre operazioni di
spionaggio sono quotidiane, e violiamo le leggi di altri paesi.”
Per difendere se stessa nel caso delle operazioni più controverse,
la CIA è diventata molto abile nell’uso degli avvocati per coprire
le proprie tracce. “Se può aiutarli, usano la carta,” dice l’ex
funzionario. “Oppure fanno una chiamata su un telefono sicuro. O
capitano per caso in un ascensore con un avvocato e gli chiedono un
consiglio, del tipo ‘non c’è nulla che mi impedisca di distruggere
certi nastri, vero?’”

Dal
momento in cui Obama è entrato in carica, a parere degli addetti ai
lavori, il nuovo comandante in capo ha dimostrato un vero e proprio
“amore” per i droni. “Il programma dei droni è un soggetto a
cui l’esecutivo riserva una grande attenzione,” dice Ken Gude, vice
presidente del Center for American Progress. “Questi sistemi d’arma
sono diventati essenziali per Obama.” Nei primi giorni della nuova
amministrazione l’allora capo dello staff Rahm Emanuel arrivava alla
Casa Bianca con una domanda di routine: “Chi abbiamo beccato oggi?”

Per
Obama – un uomo noto per meticolosità e moderazione – i droni
rappresentano un sistema maggiormente mirato di condurre operazioni
belliche; un sistema con la potenzialità di eliminare i colpevoli di
terrorismo e di limitare le vittime statunitensi. “Il numero di
personale USA a rischio è minore,” dice Brooks, il docente di
legge che ha consigliato il Pentagono. “La tecnologia rende logiche
le scelte che riducano i costi dell’uso di forza letale.” Un alto
funzionario che conosce da vicino il programma dei droni riferisce
che gli attacchi teleguidati sono particolarmente fruttuosi in
Pakistan, dove la presenza di truppe statunitensi incontra una feroce
opposizione. “Possiamo lanciare attacchi coi droni senza nessun
aiuto da parte pachistana,” dice il funzionario, sottolineando che
tali missioni non comportano alcun “costo politico” all’interno
degli Stati Uniti.

Nel
corso dell’anno passato, tuttavia, il crescente affidamento prestato
dal presidente ai droni ha provocato sempre più dissidi all’interno
dell’amministrazione. Secondo fonti dell’ambasciata statunitense in
Pakistan, l’ambasciatore Cameron Munter si è infuriato per le
missioni condotte dalla CIA senza consultarlo riguardo le potenziali
ricadute diplomatiche. Gli attacchi hanno conosciuto una breve sosta
nel gennaio del 2011, dopo che Raymond Davis, un contractor della
CIA, è stato arrestato per aver ucciso due pachistani in pieno
giorno; il giorno successivo Davis è stato rilasciato, e gli
attacchi della CIA sono ricominciati. Munter, secondo alcuni
funzionari statunitensi, si è lamentato del programma droni col
Segretario di Stato Hillary Clinton e altri alti funzionari
dell’esercito, e le sue preoccupazioni sono giunte fino alla Casa
Bianca. La pietra dello scandalo è stata un attacco teleguidato
particolarmente cruento avvenuto nel marzo del 2011, che secondo gli
americani ha ucciso 21 insorti, secondo i pachistani 42 civili.

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Alla
Casa Bianca questa crisi ha scatenato una piccola baruffa tra gli
addetti alla sicurezza nazionale del presidente e la CIA. La scorsa
primavera, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Tom Donilon
ordinò un riesame del programma droni – non per bloccarlo, ma per
concepire un modo di utilizzare i droni che acquietasse le
preoccupazioni di Munter e di altri diplomatici. La prospettiva di
qualsiasi ulteriore supervisione, per quanto modesta, mise in allarme
la CIA. Secondo funzionari dell’amministrazione, alla prima notizia
di un possibile riesame l’agenzia ha letteralmente dato i numeri. “Un
uomo della CIA ha fatto a Donilon il discorso ‘voi mi volete su quel
muro’,” riferisce un alto funzionario a conoscenza della
conversazione, che richiama la scena di un film,
Codice
d’Onore
, in cui un
comandante dei Marine, interpretato da Jack Nicholson, sostiene di
essere al di sopra della legge. Donilon cercò di sopire le paure
della CIA. “No – sapete bene che non è così,” disse, secondo
una fonte della Casa Bianca testimone dello scambio di battute.
“Siamo tutti dalla stessa parte, qui, cerchiamo di rendere sicuro
il paese.”

Al
centro della discussione si trovò il nuovo capo della CIA designato
da Obama, il Generale David Petraeus. Petraeus si schierò con la
Casa Bianca, riconoscendo il bisogno di trovare un equilibrio tra il
mantenimento di un legame forte con il Pakistan e una strategia
militare aggressiva che includesse gli attacchi coi droni. “Petraeus
vuol essere più cauto,” dice un funzionario coinvolto nel
programma droni. I veterani dell’Agenzia contrattaccarono,
lamentandosi col
New York Times
che con Petraeus il programma droni si era praticamente bloccato.
Molto di quel rallentamento, difatti, era dovuto a necessità
politiche: un attacco NATO che aveva ucciso 24 soldati pachistani nel
novembre del 2011 aveva costretto la CIA a sospendere momentaneamente
gli attacchi coi droni. Ma la campagna mediatica sembrò andare in
porto: due giorni dopo l’articolo sul
Times,
gli attacchi di droni in Pakistan ricominciarono.

In
un quadro più ampio, tuttavia, alla fine la CIA ha perso la sua
battaglia sui droni. Dopo che Donilon ha completato il riesame da
parte della Casa Bianca, all’ambasciatore Munter e al Dipartimento di
Stato è stata garantita più voce in capitolo per quel che riguarda
tempi e obbiettivi degli attacchi di droni.

Malgrado
l’iniziativa intendesse promuovere una maggiore supervisione civile
sugli attacchi clandestini, essa ha contrariato fortemente i
difensori dei diritti umani, che hanno stigmatizzato la Casa Bianca
per aver messo un ambasciatore nella posizione di autorizzare
sentenze di morte extra-legali in paesi stranieri. “È incredibile
che si sia dato potere decisionale su una campagna di uccisioni a un
civile del corpo diplomatico,” ha detto Clifford Stafford Smith,
direttore esecutivo di Reprieve, un’organizzazione per i diritti
umani che sta conducendo un’azione legale contro l’uso dei droni [4].
“Ve le immaginate le reazioni se fosse l’ambasciatore pakistano a
Washington a supervisionare l’uccisione mirata di cittadini
americani?”

Resta
incerto quale sia il ruolo svolto dalla Casa Bianca nella scelta dei
nomi che finiscono sulla lista dei bersagli. Alcuni funzionari hanno
parlato di una commissione segreta all’interno del Consiglio di
Sicurezza Nazionale [NSC] che terrebbe una lista dei bersagli da
eliminare o catturare. La commissione, di cui nessun documento
ufficiale autorizza l’esistenza, si dice coinvolga uno dei massimi
consulenti antiterrorismo, John Brennan, che è stato uno dei più
accaniti difensori della decisione dell’amministrazione Bush di
torturare i prigionieri di Guantanamo. Altri funzionari che hanno
familiarità con la procedura di selezione dei bersagli affermano che
l’idea di una commissione segreta sia una vera esagerazione. L’NSC,
insistono, nella maggior parte degli attacchi di droni non è affatto
coinvolto, certo non su base quotidiana – specialmente riguardo i
“signature strike” effettuati dalla CIA. Questo vuol dire che la
CIA possiede ancora una notevole autonomia nel programmare la propria
lista di uccisioni, con una supervisione limitata da parte della Casa
Bianca. Così la mette un ex funzionario della CIA: “L’NSC decide
quando il presidente debba essere coinvolto – e quali impronte
digitali lasciare, sempre che se ne lascino.”

blank

Quest’uomo
di 72 anni, che ha trascorso da borsista straniero 11 anni tra New
Mexico e Minnesota, stava aspettando la notizia della morte di suo
figlio. Dopotutto, nei due anni precedenti gli era già stata
comunicata erroneamente varie volte. Perciò Nasser al-Awlaki non
poté dichiararsi sorpreso, quel venerdì pomeriggio, quando una nota
d’agenzia confermò che le sue peggiori paure si erano concretizzate:
suo figlio Anwar al-Awlaki, cittadino statunitense e sospetto membro
di Al Qaeda, era stato ucciso il 30 settembre del 2011 – il primo
americano a essere bersaglio di un attacco di droni.

Nei
giorni successivi all’uccisione, Nasser e sua moglie ricevettero
numerose chiamate dal figlio sedicenne di Anwar, Abdulrahman
al-Awlaki, che era fuggito di casa qualche settimana prima per andare
a trovare il suo ormai defunto padre in Yemen. “Ci ha chiamati e ci
ha fatto le sue condoglianze,” ricorda Nasser. “Gli dicemmo di
tornare a casa, e lui promise che l’avrebbe fatto. Io e sua nonna
insistemmo parecchio.”

blank

Ma
quell’adolescente non è più tornato. Due settimane dopo
quell’ultima conversazione i suoi nonni ricevettero un’altra
telefonata, questa volta da un altro parente. Abdulrahman era stato
ucciso durante l’attacco di un drone nel sud dello Yemen, patria
tribale della sua famiglia. Il ragazzo, di cui non si conoscono
affiliazioni né ad Al Qaueda né ad altre organizzazioni
terroristiche, sembrerebbe essere un’altra vittima della guerra dei
droni di Obama: Abdulrahman era insieme a un cugino quando un drone
ha annientato lui e altre sette persone. Il sospetto obbiettivo
dell’azione – un membro di Al Qaeda nella Penisola Arabica –
sembra sia ancora vivo; non è chiaro nemmeno se fosse sul posto al
momento dell’attacco.

La
notizia ha lasciato la famiglia devastata. “Mia moglie piange ogni
giorno, piange continuamente per il nipote,” dice Nasser, un ex
membro di primo livello del governo yemenita. “Era un ragazzo dolce
e gentile, che amava tanto nuotare. È un ragazzo che non ha mai
fatto nulla contro l’America o chiunque altro. Un ragazzo. Un
cittadino degli Stati Uniti. E non ci può essere nessuna ragione di
ucciderlo, se non perché era figlio di Anwar.”

Anwar
al-Awlaki era nato nel 1971 a Las Cruces, nel New Mexico, dove Nasser
stava studiando per una laurea in economia agraria presso la New
Mexico State University. Da adulto aveva vissuto in Colorado e in
Virginia, diventando imam del centro islamico di Falls Church. Dopo
l’11 settembre cominciò a diffondere il peggior tipo di retorica
jihadista, arrivando molto vicino a invocare un attacco armato contro
l’occidente. Si diceva che almeno uno degli attentatori dell’11
settembre avesse visitato la sua moschea. Aveva lasciato
definitivamente gli USA, racconta il padre, perché era stato
“interrogato parecchie volte” dall’FBI circa i suoi rapporti con
gruppi terroristici.

Una
volta nello Yemen, Anwar realizzò una serie di video propagandistici
per Al Qaeda, ampiamente diffusi su YouTube. Secondo le autorità
statunitensi era anche in contatto diretto con due individui
responsabili di atti di terrorismo, cioè Nidal Hasan, l’ufficiale
USA accusato di aver ucciso 13 persone e ferito altre 32 a Fort Hood
nel 2009, e Umar Farouk Abdulmuttallab, il cosiddetto Mutanda-Bomber
[5]. Dopo due anni di caccia all’uomo, la CIA rintracciò Anwar è
lanciò un attacco di droni che uccise lui e un altro cittadino
americano, Samir Khan, insieme ad altre due persone. Il giorno in cui
al-Awlaki venne ucciso, il Presidente Obama salutò la sua morte come
un’altra vittoria nella lotta contro il terrorismo, definendolo un
“grosso colpo” e un “traguardo significativo.”

Il
figlio di Anwar, nato a Denver, era anche lui cresciuto in America.
(Dopo la sua morte, funzionari USA ne descrissero l’età tra i 20 e i
21, finché la famiglia non ottenne il certificato di nascita da un
ospedale del Colorado.) Aveva lasciato gli Stati Uniti insieme al
padre all’età di sette anni, e vissuto coi nonni a Sana’a, capitale
dello Yemen. Come altri nella parte meridionale del paese, viveva nel
terrore provocato dal costante rumoroso sorvolo dei droni. “Tutte
le notti, senza sosta,” riferisce il nonno di Anwar. “Fanno un
rumore incredibile, e la gente ne soffre.”

Secondo
resoconti giornalistici, Nasser aveva sospettato per più di un anno
che suo figlio fosse stato incluso in una lista di obbiettivi da
eliminare da parte dell’amministrazione Obama. Quello che rendeva il
caso di Anwar al-Awlaki unico era il fatto che fosse ancora un
cittadino americano – una condizione che creava un dilemma sia
etico sia legale agli avvocati della Casa Bianca e del Dipartimento
di Stato. I legali dell’amministrazione – molti dei quali erano
stati critici accesi della politica antiterrorismo di George W. Bush
– impiegarono mesi per tirar fuori una giustificazione per
l’uccisione di un cittadino statunitense. Nell’estate del 2010 due
avvocati del Dipartimento di Giustizia – Marty Lederman e David
Barron – avevano redatto un memoriale riservato, del quale alcune
parti selezionate furono passate al
Times.
Un americano, argomentavano, poteva divenire oggetto di uccisione
mirata se rientrava in certi parametri che l’amministrazione si
rifiutava di rivelare. Il maggior consigliere legale del Dipartimento
di Stato, Harold Koh, difese anch’egli la politica delle uccisioni
mirate. “È ponderata opinione dell’amministrazione,” dichiarò
in un discorso del 2010, “che l’acquisizione di obbiettivi, incluse
le operazioni letali condotte da veicoli senza pilota, si conformi
alle leggi vigenti, incluse quelle applicabili al tempo di guerra.”

L’ironia
del fatto che Koh – un ex preside della Yale Law School che aveva
trascorso anni a criticare aspramente George W. Bush perché violava
il diritto internazionale con la sua politica di torture e di
“catture speciali” [extraordinary rendition] [6] – adesso
rivendicasse il diritto della sua amministrazione di assassinare un
cittadino americano, non sfuggì né ai suoi amici né ai suoi
avversari. “Molti di quelli che come Harold Koh e Marty Lederman
criticavano Bush, e che adesso dovrebbero criticare le uccisioni
mirate, sono entrati nell’amministrazione Obama,” dice Mary Ellen
O’Connell, docente di legge alla Notre Dame, che conosce Koh da più
di 25 anni. “Sono amici intimi dei membri dell’amministrazione –
ed è difficile criticare gli amici.” Dice un altro avvocato che
conosce bene Koh: “Koh si è rivelato come uno che mette la sua
amicizia con Clinton e Obama al di sopra della legge. Per noi è
stata una sorpresa.”

Rizzo,
l’avvocato della CIA che sottoscrisse le tecniche di “interrogatorio
rinforzato” di Bush, è ancora più brutale nello sfottere
l’amministrazione Obama per la sua disonestà intellettuale sulla
questione dei droni killer. “Tallonare e uccidere un terrorista di
primo piano evidentemente pone meno problemi legali che catturarlo e
interrogarlo aggressivamente,” ha scritto Rizzo in una
pubblicazione della destrorsa Hoover Institution.

Per
Nasser al-Awlaki, la notizia che il figlio fosse su una lista di
uccisioni mirate era una questione di vita o di morte. Nell’agosto
del 2010 l’ American Civil Liberties Union intentò una causa a nome
di Nasser per prevenire l’uccisione di suo figlio da parte del
governo statunitense – la prima iniziativa legale mai intrapresa
negli Stati Uniti contro il programma droni. La ACLU sosteneva che
“una politica di uccisioni mirate sotto la cui gestione individui
vengono aggiunti alle liste di obbiettivi dopo una procedura
burocratica e restano in tali liste per svariati mesi, va
platealmente contro il concetto dell’uso letale della forza come
ultima risorsa contro minacce imminenti”. Questa politica va
inoltre “al di là di ciò che permettono la Costituzione e il
diritto internazionale,” sosteneva la ACLU.

Il
caso
Nasser al-Awlaki v. Barack Obama è
stato dibattuto davanti al giudice distrettuale John Bates nel
novembre del 2010. Le trascrizioni delle udienze sembrano la parodia
kafkiana di un processo. Il rappresentante legale del governo,
Douglas Letter, ha invocato ripetutamente il segreto di stato,
affermando che “per quel che riguarda le affermazioni che esista
una lista di eliminazioni eccetera, né confermiamo né neghiamo”.
Egli osservava inoltre che Anwar non sarebbe più stato sotto
minaccia di un “uso letale della forza” se si fosse costituito –
un implicito non-riconoscimento che al-Awlaki fosse su una lista
segreta di obbiettivi da eliminare. Jameel Jaffer, avvocato della
ACLU, si oppose all’argomentazione dello stato, manifestando la
preoccupazione che al presidente degli Stati Uniti venisse garantito
il potere esclusivo e senza restrizioni di decidere “la questione
se un americano possa o meno rientrare nella categoria delle persone
passibili di assassinio mirato”. Nei momenti più surreali delle
udienze, il giudice archiviò il caso, sentenziando che Nasser non
aveva le basi legali per presentare un’istanza a nome del figlio fino
a quando Anwar non venisse effettivamente ucciso.

L’amministrazione
Obama ha ripetutamente rifiutato di rilasciare il memorandum segreto
del Dipartimento di Giustizia che delinea la giustificazione legale
per l’attacco contro al-Awlaki. Ma il 5 marzo, durante un discorso
tenuto alla Northwestern University, il Procuratore Generale Eric
Holder ruppe finalmente il silenzio ufficiale. L’uccisione mirata di
un cittadino statunitense è legale, affermò, solo se quel cittadino
non può essere catturato, costituisce un pericolo immediato di
attacco contro gli USA, e ha le caratteristiche dell’obbiettivo
legittimo secondo le leggi di guerra. “Quando tali individui
prendono le armi contro questo paese e si uniscono ad Al Qaeda per
cospirare allo scopo di uccidere i loro concittadini americani,”
dichiarò Holden, “la risposta realistica e appropriata può essere
solo una”.

Rigettando
le critiche dei difensori delle libertà civili, Holder respinse
l’idea che le clausole della Costituzione riguardanti il giusto
processo richiedano al presidente l’autorizzazione di una corte
federale per eliminare un cittadino statunitense. E usando
sfacciatamente due pesi e due misure, insisteva che il Congresso
aveva dato al presidente il via libera all’uso letale della forza con
una risoluzione approvata una settimana dopo l’11 settembre che
autorizzava l’uso di ogni mezzo necessario per prevenire futuri atti
di terrorismo contro gli Stati Uniti – la medesima risoluzione che
l’amministrazione Bush aveva utilizzato per giustificare la sua
politica illegale di tortura ed
extraordinary
rendition
.

>Alla
fin fine, sembrerebbe che l’amministrazione abbia ben poco da
preoccuparsi di una reazione negativa all’uccisione di un cittadino
americano – uno che non è nemmeno stato accusato di qualche
crimine. Un recente sondaggio mostra che i Democratici sostengono
quasi tutti il programma droni, e in febbraio il Congresso ha
approvato una legge che richiede alla Federal Aviation Administration
di “accelerare l’integrazione dei sistemi di guida senza pilota”
nei cieli sopra l’America. I droni, che vengono già utilizzati per
combattere gli incendi negli stati dell’Ovest e sorvegliano il
confine col Messico, potrebbero essere presto usati per spiare in
patria i cittadini statunitensi: le polizie di Miami e Houston li
avrebbero già sperimentati per l’utilizzo sul territorio, e le loro
controparti a New York sono anch’esse ansiose di dispiegarli. Date le
recenti violazioni dei diritti civili da parte della polizia di New
York, non è difficile immaginare i droni che ronzano sopra lo
Zuccotti Park per sorvegliare la gente di Occupy Wall Street, o
vengono utilizzati per sorvegliare non visti gli studenti
musulmano-americani.

blank

Molti
di coloro che supervisionano il programma droni, infatti, sembrano
non provare altro se non disprezzo nei confronti di chi si preoccupa
dei potenziali pericoli che i droni rappresentano. A un seminario sui
diritti umani tenutosi la scorsa estate alla Columbia University,
John Radsan, ex avvocato della CIA, ha ammesso che l’agenzia non ha
alcun interesse a discutere delle sottigliezze legali riguardo gli
attacchi di droni. “La CIA ride di voi,” ha detto agli avvocati
dei diritti umani lì riuniti. “Voi vi preoccupate del diritto
internazionale, e la CIA se ne ride”. Un funzionario della Casa
Bianca con cui ho parlato è perfino più sprezzante. “Se Anwar
al-Awlaki è il portabandiera della vostra lotta contro i droni,”
mi ha detto, “allora siete fregati”.

Se
l’uccisione mirata di al-Awlaki non ispira compassione, dati i suoi
presunti legami con Al Qaeda, allora possiamo considerare il caso di
Tariq Aziz, un ragazzo pakistano di sedici anni. Nell’aprile del 2010
uno dei cugini di Tariq è stato ucciso in un attacco di droni.
Convinto che suo cugino fosse innocente ed estraneo a qualsiasi
attività di guerriglia, Tariq partecipò, insieme a un gruppo di
anziani dei villaggi, ad un incontro tenutosi lo scorso ottobre a
Islamabad organizzato da Reprieve, l’associazione per i diritti
umani. Neil Williams, un volontario di Reprieve, ha trascorso un’ora
parlando con Tariq durante l’incontro.

Cominciammo
parlando di calcio,” ricorda Williams. “Mi disse di aver giocato
per il Nuova Zelanda. Le squadre con cui giocavano erano formazioni
di villaggio con nomi ispirati a club famosi, tipo Brasile o
Manchester United.”

blank

Tariq
e altri adolescenti presenti all’incontro hanno raccontato a Williams
di come vivessero nel terrore dei droni. Li potevano sentire
sorvolare le loro case nel Waziristan, ronzando per ore come tosaerba
volanti. Un’esplosione può colpire in ogni istante, ovunque, senza
preavviso. “Tariq non voleva proprio tornare a casa,” dice
Williams “Lì avrebbe sentito i droni tre o quattro volte al
giorno”.

Tre
giorni dopo la conferenza, Williams ha ricevuto un’e-mail. Tariq era
stato ucciso in un attacco di droni mentre stava andando da sua zia.
Sembrerebbe che il ragazzo non fosse l’obbiettivo dell’attacco. Chi
lo conosceva sospetta che si trovasse semplicemente nel posto
sbagliato al momento sbagliato, soprattutto perché un suo altro
cugino di dodici anni è rimasto anche lui ucciso nell’attacco.

L’amministrazione
Obama non ha commenti da fare sull’uccisione di Tariq Aziz, anche se
la sua morte solleva la domanda più importante di tutte. I droni
offrono al governo un’arma precisa e avanzata per la sua guerra al
terrorismo – eppure molti di coloro che vengono uccisi dai droni
sembra che terroristi non lo siano affatto. Infatti, secondo uno
studio dettagliato sulle vittime dei droni redatto dal Bureau for
Investigative Journalism, almeno 174 tra coloro che sono stati
eliminati da droni avevano un’età inferiore ai 18 anni – in altre
parole, erano bambini. Altre stime di gruppi per i diritti civili,
che includono gli adulti che verosimilmente erano semplici civili,
alzano la cifra delle vittime innocenti a più di 800. I funzionari
statunitensi rigettano simili cifre – “cazzate” mi ha detto un
funzionario dell’amministrazione. Brennan, uno dei principali
consiglieri di Obama sul terrorismo, lo scorso giugno insisteva
assurdamente che non c’è stato “un solo civile” ucciso dai droni
durante l’anno precedente.

Per
Nasser al-Awlaki, che ha perso il nipote adolescente a causa di un
drone, simili dinieghi sono quasi altrettanto sconvolgenti della
deliberata decisione da parte dell’amministrazione di lanciare una
guerra telecomandata che avrebbe inevitabilmente comportato la morte
di civili innocenti. “Non potevo credere che l’America potesse
farlo – specialmente il presidente Obama, che mi piaceva tanto,”
dice. “Quando venne eletto, ho pensato che avrebbe risolto tutti i
problemi del mondo.”

Versione originale:

Michael Hastings
Fonte: www.rollingstone.com
Link: http://www.rollingstone.com/politics/news/the-rise-of-the-killer-drones-how-america-goes-to-war-in-secret-20120416
16.04.2012

Versione italiana:

Fonte: http://doppiocieco.blogspot.it
Link: http://doppiocieco.blogspot.it/2013/01/lavvento-dei-droni-assassini-la-guerra.html
19.01.2013

Traduzione a cura di DOMENICO D’AMICO

NOTE DEL TRADUTTORE

[1]
Per un’evidente svista, l’autore parla di droni con un’apertura alare
di 200 piedi (70 metri circa), cioè quasi quella di un Airbus.
Dato che il drone più grosso, o almeno uno dei più grossi, è
l’RQ-4
Global Hawk
(l’autore lo cita nelle righe successive), che ha
un’apertura alare di 116 piedi (circa 35 metri), ritengo che la cifra
da intendersi sia 100 piedi, cioè circa 30 metri.



[2]
Nell’originale “forward deployed”, cioè, alla lettera,
“stanziati in prossimità di zone di guerra, ma non coinvolti nelle
operazioni belliche”.




[3]
“Signature strike”: cioè un attacco che avviene in base alla
valutazione di una serie di elementi comportamentali (costituenti una
“firma”) che indicherebbero una “tendenza” all’azione
insurrettiva.

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