L'AUTOMOBILE DEL FUTURO

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DI CARLO BERTANI

Ho avuto una mirabile
visione. Ho fatto un sogno; tale che non basta il senno umano a spiegare
com’era: c’è da fare una figura ciuca a tentar d’interpretare questo
sogno

William
Shakespeare, Sogno d’una notte di mezza estate, Atto IV Scena 1°

Da qualche
mese sembra che, sull’emergenza del mutamento climatico, la fretta
regni sovrana: allarmi su allarmi sono lanciati da molti consessi
internazionale, dall’IPCC (che è il referente dell’ONU per il
problema) a molte istituzioni universitarie e di ricerca. Verrebbe da
dire: sarebbe stato meglio pensarci qualche anno or sono.

Oggi, si dà per scontato che il mutamento è in atto e che coinvolgerà
pesantemente la vita delle future generazioni: scarsità d’acqua,
desertificazione, sparizione di migliaia di specie viventi.

I fenomeni
che si svilupperanno nei prossimi decenni, però, non si limiteranno al
solo mutamento climatico ma saranno tre, e concomitanti.

Il primo riguarda proprio la variazione delle temperature – che non
sappiamo se si risolverà in un semplice aumento delle temperature,
poiché potrebbe avvenire anche l’esatto opposto – sul quale si
lanciano pesanti allarmi, e la conseguente scarsità d’acqua. Il secondo fenomeno sarà il progressivo esaurirsi delle fonti fossili
d’idrocarburi: circa mezzo secolo, Uranio compreso. Poi rimarrà il
carbone, ma utilizzando il carbone come fonte energetica del pianeta
s’andrebbe ad aggravare – e molto pesantemente – la già critica
presenza di gas serra nell’atmosfera.

Il terzo
aspetto – poco dibattuto – riguarda la crisi degli stati nazionali:
chi dovrebbe (e sarebbe in grado) di prendere decisioni rivoluzionarie?
I singoli stati, obbligati a rispettare le direttive sopranazionali,
oppure gli organismi sopranazionali che sono, a loro volta, spesso
bloccati dai veti dei singoli stati? In Europa la situazione è sotto
gli occhi di tutti, ma anche negli USA (ricordiamo la liberalizzazione
elettrica in California) il problema è avvertito.

Tre fenomeni
interdipendenti che contribuiranno – in simbiosi – a modellare la
vita delle future generazioni: siamo ancora in tempo per correre ai
ripari? Nessuno lo sa.
Chiariamo che il pianeta Terra troverà comunque un equilibrio:
bisognerà verificare se il nuovo “equilibrio” sarà ancora coerente
con la nostra “presenza” nel pianeta. I rischi sono noti: estese ed
imprevedibili migrazioni, carenze d’energia e d’acqua potranno
scatenare guerre ed invasioni che oggi non possiamo prevedere.
E’ stato fatto tutto il possibile? A questa domanda possiamo
rispondere senza ombra di dubbio: no.
Se il problema dell’approvvigionamento energetico è senz’altro
complesso, e richiederebbe intricate trattative internazionali per
giungere a soluzione, tutti sappiamo che le aree urbane sono assalite
– oramai da decenni – dal problema dell’inquinamento atmosferico
dovuto alle cosiddette “polveri sottili”.

Responsabili
del fenomeno sono principalmente il riscaldamento delle abitazioni ed il
traffico automobilistico: l’unica soluzione trovata, per ora, sono
state le cosiddette “domeniche a piedi”, che il lunedì successivo
riportano tutto al punto di partenza.
Oltre all’inquinamento delle aree urbane, non dimentichiamo che il
mondo del trasporto (persone e merci) è responsabile per circa 1/3
delle emissioni gassose (soprattutto CO2) che modificano il
clima.
Correndo appresso ad un’emergenza, e poi a quella successiva, nessuno
ha meditato di risolvere il problema del traffico alla radice.
Risolverlo, però, avrebbe coinvolto gli altri attori della vicenda,
ossia il mondo del petrolio e le istituzioni, dai comuni fino
all’Unione Europea.

Tutti
abbiamo sentito parlare dell’Idrogeno come del salvatore del traffico:
il nuovo carburante – che non produce gas serra – ci salverà! Nel
frattempo, però, mentre navighiamo a vista fra un’emergenza e
l’altra, nessuno s’è preso la briga di spiegarci come iniziare a
fare qualcosa in quella direzione.
A dire il vero, le case automobilistiche hanno da tempo iniziato a
produrre studi e prototipi funzionanti ad Idrogeno ma si sono scontrate
con il deserto: da un lato le compagnie petrolifere (proprietarie o,
comunque, “deus ex machina” della rete distributiva dei carburanti),
dall’altra le istituzioni che sarebbero dovute intervenire con piani
d’intervento, leggi, direttive.

Tutto ciò che rimane sono i pochi prototipi presentati dalle case
automobilistiche e qualche distributore – sparso per l’Europa –
che dovrebbe rifornire auto mai giunte realmente sul mercato. Un
notevole “flop”.

L’aspetto
curioso e deprimente della vicenda è che, per quanto riguarda l’auto
ad Idrogeno, essa fa capo a tecnologie che in molti casi superano il
secolo.
Sull’auto ad Idrogeno bisogna precisare che ne esistono di due
diversissimi modelli, quasi due diverse “specie”: le auto dotate di
motore a ciclo Otto (il comune motore a benzina) e quelle che
s’affidano, per la trazione, ad un motore elettrico.
Entrambe non producono inquinanti – giacché il solo prodotto di
reazione fra l’Idrogeno e l’Ossigeno è la comune acqua – ma
divergono, e parecchio, sotto l’aspetto dei rendimenti: qui
s’innesta il problema dell’esaurimento delle fonti fossili.

E’ del
tutto evidente che produrre Idrogeno utilizzando gli idrocarburi (ad
esempio il metano) è una via senza sbocco, visto che saranno proprio
gli idrocarburi a mancare: con le fonti rinnovabili (le uniche che
rimarranno!) avremo però a disposizione energia elettrica.
Le altre possibilità per produrre Idrogeno sono l’elettrolisi –
ossia la scissione dell’acqua, che però richiede energia elettrica ed
ha un rendimento del 75% circa – e la produzione diretta d’Idrogeno
mediante reazioni chimiche, che però richiedono alte temperature (ossia
l’immissione d’energia sotto forma di calore).

L’ENEA sta studiando – a margine del programma sul solare
termodinamico – metodi e processi per utilizzare le alte temperature,
generate dalla concentrazione dei raggi solari, al fine di produrre
Idrogeno con metodi chimici. Siamo, per ora, ad una fase sperimentale,
mentre il solare termodinamico per produrre energia elettrica è già
oggi una tecnologia matura.

Un secondo
problema riguarda la distribuzione dell’Idrogeno: rifornire le
stazioni di servizio d’Idrogeno gassoso con tubazioni sotterranee
richiederebbe investimenti onerosi (e chi dovrebbe investire? Le
compagnie petrolifere? Lo Stato?), mentre la liquefazione
dell’Idrogeno – per distribuirlo mediante autobotti –
comporterebbe d’usare il 32% dell’energia primaria (ossia il 32%
dell’Idrogeno) per liquefare il gas. E’ pur vero che, comprimendo
l’Idrogeno per liquefarlo, si genererebbe calore che potrebbe essere
recuperato, ma è difficile valutare fino a che punto il gioco varrebbe
la candela. La distribuzione dell’Idrogeno gassoso mediante una
complessa rete ipogea, invece, presenterebbe dei problemi di sicurezza:
l’Idrogeno, dal punto di vista chimico, è corrosivo e molto reattivo.

L’ipotesi
forse più praticabile consisterebbe nel distribuire non Idrogeno, bensì
energia elettrica e generare il gas nelle stazioni di servizio mediante
elettrolisi: il processo elettrolitico è conosciuto da più di un
secolo e non dovrebbe essere un gran problema costruire impianti
elettrolitici altamente automatizzati e sicuri.
Ovviamente, non potremmo attenderci una rete distributiva capillare come
quella odierna: le aree di servizio si troverebbero per lo più nelle
aree periferiche, mentre sarebbero poche – data la complessità di
generare Idrogeno in ogni stazione di servizio – quelle in area
prettamente urbana. Un sistema misto potrebbe condurre alla generazione
d’Idrogeno nelle aree periferiche, per poi rifornire poche stazioni di
servizio in area urbana mediante condotte ipogee. Non sarebbe però
questo il problema principale, giacché la rete distributiva dei
carburanti è già oggi sovradimensionata.

Una volta
giunti al distributore, quale tipo d’autovettura andremmo a rifornire?
Già oggi sarebbe possibile alimentare ad Idrogeno i comuni motori a
benzina, come avviene per le auto che usano il metano: si tratterebbe
soltanto di dimensionare adeguatamente le bombole dell’autovettura e
d’operare alcune trasformazioni nei propulsori, ma il sistema sarebbe
sostanzialmente simile a quello della distribuzione del metano.

Il problema è che il motore a combustione interna non ha un rendimento
elevato: a grandi linee, trasforma in energia meccanica soltanto il 35%
dell’energia immessa. Il resto, viene disperso sotto forma di calore
dal radiatore.
Purtroppo, questa è una caratteristica precipua di quel tipo di motore:
le alte temperature sono necessarie per ottenere una rapida espansione
dei gas – nella camera di combustione – prima dello scoppio.

La
primogenitura dell’auto ad Idrogeno – quasi un paradosso – è
italiana, mentre oggi siamo rimasti parecchio indietro in questo campo.
L’ingegner Massimiliano Longo[1],
negli anni ’70 del Novecento, non solo progettò ma costruì e presentò
alle case automobilistiche una Alfa Romeo 1300 GT modificata per
funzionare ad Idrogeno. Il gas era stoccato in bomboloni nel bagagliaio
e nel motore erano state effettuate alcune modifiche per utilizzare il
nuovo carburante. L’ingegner Longo giunse a produrre con mezzi propri
l’Idrogeno necessario per via elettrolitica e presentò il prototipo
alle case automobilistiche nazionali, ottenendo sì ampi riconoscimenti
verbali, ma nessun risultato pratico in termini di sviluppo del
progetto.
L’auto funzionava perfettamente, anche se le prestazioni erano
inferiori al modello a benzina giacché – come riconobbe lo stesso
Longo – le modifiche apportate al propulsore (rapporto di
compressione, tipo di pistoni, ecc.) non erano sufficienti ad
ottimizzare il mezzo per il nuovo carburante. Per avere le stesse
prestazioni, sarebbe stato necessario ri-progettare completamente il
propulsore: esattamente ciò che avrebbe fatto

la BMW
decenni dopo.

L’auto però,
anche se di produzione artigianale, consumava poco carburante e non
inquinava assolutamente, essendo l’unico gas di scarico l’innocuo
vapore acqueo: il costo chilometrico era irrisorio rispetto al modello a
benzina, ma qui ricordiamo che è difficile fare paragoni, giacché i
carburanti sono gravati d’imposte per circa il 60%.
Successivamente, la casa tedesca BMW ha sperimentato parecchio in questo
campo, modificando alcuni modelli a benzina della nota serie “
5”
, così come hanno attuato Mercedes ed Opel: sono auto perfettamente
funzionanti, ma non sono ciò di cui avremo bisogno. Perché?

Poiché non potremo più permetterci rendimenti del 35%: l’era dei
carburanti a basso costo (ed in grandi quantità) finirà con
l’esaurimento dei combustibili fossili. Si cambia strada.

Le aziende
guardano oltre ed è già in commercio in California – dal 2003 –
la Honda-FCX
, un’auto elettrica alimentata ad Idrogeno con trasformazione del gas
in energia elettrica tramite celle a combustibile. L’auto ha un motore
da 60 KW e serbatoi che possono contenere
156 litri
d’Idrogeno compresso, l’autonomia è pari a circa

350 Km
e la punta massima di velocità è di
150 Km/h
.
Come si potrà notare, le prestazioni sono perfettamente in linea con
gli standard dei modelli a benzina/diesel attualmente circolanti, e
siamo soltanto agli inizi.
Anche Mitsubishi e General Motors hanno presentato modelli funzionanti
con il binomio motore elettrico/cella a combustibile, ma manca la rete
di distribuzione dell’Idrogeno, e siamo da capo con gli aspetti
economici e normativi del problema.

Quale
potrebbe essere l’auto del futuro, tralasciando per ora le ipotesi più
fumose e limitandoci a ciò che potrebbe essere costruito con le
tecnologie già mature? Sarebbe un’auto rivoluzionaria e molto parca
nei consumi: lo potrebbe essere già oggi – non fra qualche decennio
– e, anzi, sarebbe già potuta nascere ieri.
Le celle a combustibile sono un’invenzione della metà del ‘900:
tutte le missioni spaziali utilizzavano quella tecnologia per produrre
l’energia elettrica necessaria, ed il film “Apollo
13”
ha evidenziato bene come l’incidente che mandò a monte la missione
provocò proprio la perdita dei gas necessari alla reazione. Ma, come
funziona una cella a combustibile?
Essenzialmente, sfrutta la semplice
reazione che, da Idrogeno ed Ossigeno, forma acqua: questa reazione
produce energia e la cella a combustibile è in grado di trasformare
l’energia chimica in energia elettrica.
Esistono molti tipi di celle a combustibile: quelle che attualmente
hanno il miglior rendimento sono le celle di tipo alcalino, che
trasformano il 75% dell’energia immessa (Idrogeno) in corrente
elettrica, mentre il rimanente 25% si trasforma in calore.

Siamo già
un passo avanti rispetto al tradizionale motore a benzina – il 75%
contro il 35% – ma nel nuovo mondo, privo di combustibili fossili,
dovremo supplire con la tecnologia e cercare di recuperare anche ciò
che prima si sprecava. A ben vedere, non si tratta di un problema
tecnologico, bensì di un diverso approccio: sappiamo che l’energia
non va mai perduta ma si trasforma. Ebbene, dobbiamo soltanto imparare
ad “intercettare” i flussi che si trasformano, giacché nulla si
“spreca”.
La struttura di un’auto elettrica è sostanzialmente diversa da
un’auto attuale, ad iniziare proprio dal propulsore.
Un comune motore automobilistico non esprime mai la massima potenza: in
genere, la potenza realmente utilizzata corrisponde al 60% di quella
massima, il cosiddetto “regime di coppia massima”. Quando guidiamo
in autostrada con una media cilindrata, la velocità di crociera di
circa
130 Km/h
corrisponde a 3500-4000 giri del propulsore, ma sappiamo che il massimo
regime di rotazione (la potenza massima) si aggira intorno ai 5500-6000
giri.

Superando
quel regime di crociera, il rendimento del motore diminuisce
notevolmente e si sottopone il propulsore stesso ad un notevole stress
meccanico.

Di conseguenza, una media cilindrata con 45 KW di potenza massima, ne
sfrutta normalmente soltanto 30.
Il propulsore elettrico non ha invece queste limitazioni, poiché è
strutturalmente molto semplice rispetto al motore a ciclo Otto: un
avvolgimento di fili elettrici che ruota avvolto in quello che viene
definito “rotore”, circondato da una semplice carcassa esterna. A
fronte della complessità del primo (valvole, bielle, pistoni, ecc)
abbiamo soltanto un rotore che gira su cuscinetti a sfere.
Anche il rendimento è molto
diverso: un motore elettrico trasforma in energia meccanica più del 90%
dell’energia immessa: considerando entrambi gli aspetti, al posto del
45 KW del motore a ciclo Otto, ne bastano 30 per l’auto elettrica.

Un secondo
aspetto riguarda i pesi: il peso di un motore a benzina/diesel è circa
il doppio o il triplo rispetto ad un corrispondente motore elettrico;
non ci sono inoltre il radiatore, l’impianto d’alimentazione
(carburatore od iniettori), il pesante albero motore che ruota nel
basamento e la sottostante coppa.
Insomma, il motore elettrico è notevolmente più leggero, sia per la
sua struttura, sia per i molti supporti periferici dei quali non ha
bisogno.
Per contro, il motore elettrico/celle a combustibile comporta che ci sia
l’apparato d’alimentazione (le celle a combustibile) e quello di
stoccaggio dell’energia prodotta, ossia i comuni accumulatori
(batterie).

Ne risulta che la progettazione di un’auto di questo tipo sovverte
tutte le regole finora applicate nella costruzione degli autoveicoli:
quasi nullo il peso del propulsore, scarso quello delle celle a
combustibile, ma nuovi ingombri per le bombole dell’Idrogeno e per il
“banco” d’accumulatori.

Il modello
presentato da General Motors è forse il più avveniristico, quello che
più si distanzia dalla progettazione tradizionale: tutti gli apparati
sono contenuti in una struttura “a sogliola” alta solo
26 cm
che è situata sotto il pianale dell’autovettura.
Anche la distribuzione dei pesi è sostanzialmente diversa: siccome le
parti meccaniche in movimento pesano poco, per garantire stabilità al
veicolo (basso baricentro) si sfrutta il peso degli accumulatori,
collocandoli in basso. A ben vedere, questo tipo d’autovettura trae più
elementi strutturali dai sommergibili che dalle auto tradizionali: forse
torneremo al telaio tradizionale e non alle carrozzerie portanti, e
questa impostazione potrebbe condurre ad allungare – e di parecchio
– la vita di un’autovettura sostituendo soltanto, man mano, i pezzi
deteriorati.

Siamo
soltanto agli inizi: ricordiamo che le prime automobili erano
sostanzialmente delle “carrozze a motore”, e ci volle quasi mezzo
secolo perché l’autovettura dimenticasse completamente il suo
archetipo, la carrozza a cavalli.

Il bilancio energetico dell’auto con motore elettrico/celle a
combustibile è senz’altro interessante: possiamo osservare nella
tabella le varie ipotesi a confronto fra l’automobile a benzina,
quella tradizionale ad Idrogeno e quella elettrica/celle a combustibile.

blank

Il bilancio
energetico è favorevole al motore elettrico – anche se del solo 3%
– notiamo però che non sono stati presi in considerazione – per
l’auto a benzina/diesel – i costi di distribuzione del carburante,
difficilmente quantificabili data la complessità della rete di
distribuzione.
Un aspetto interessante ed innovativo – nell’ottica di
“intercettare” i flussi d’energia invece di sprecarli – sarebbe
quello d’utilizzare il calore prodotto dalla cella a combustibile, che
deve funzionare a temperature elevate.
Nella stagione fredda, sarebbe pratico utilizzare quel calore per il
riscaldamento dell’autovettura: e d’estate? Per far funzionare il
climatizzatore, sarebbe necessario ricorrere all’energia elettrica
degli accumulatori e, in definitiva, alla scorta d’Idrogeno. A meno
che…

A meno che
non si riesca a recuperare l’energia termica dispersa dalle celle a
combustibile per trasformarla in energia elettrica. Come?

Temperature dell’ordine di 100-
200 gradi centigradi
non possono essere utilizzate per riscaldare dell’acqua, ma esistono
fluidi che hanno punti d’ebollizione più bassi, come quelli
utilizzati nei circuiti frigoriferi e nei climatizzatori.
La tecnologia dei fluidi a basso punto d’ebollizione non è la
frontiera della ricerca: da almeno 60 anni produciamo frigoriferi. Un
circuito completamente sigillato, dove il fluido sarebbe riscaldato dal
calore della cella a combustibile e recuperato mediante una semplice
turbina/alternatore sotto forma d’energia elettrica, non è una
chimera. A margine, notiamo che con la stessa tecnologia sarebbe
possibile recuperare parecchia energia, oggi sprecata, dai grandi
impianti di climatizzazione centralizzati.

Ancora una
volta, non sono i limiti tecnologici a frenarci, ma la pessima
impostazione che perduriamo a replicare: ciò che non serve “è
sprecato”.
L’auto elettrica presenta fortunatamente molteplici vantaggi e
notevoli potenzialità evolutive: la prima e più immediata è che
l’auto elettrica, ferma ad un semaforo, non consuma nulla. Da uno
studio effettuato nel 2006[2],
si evince che circa 4 miliardi di euro di carburanti per autotrazione
sono sprecati ogni anno nei motori che ruotano con automezzo fermo;
semafori, rallentamenti, “code” autostradali dovute ad incidenti,
cantieri o per il semplice traffico: riflettiamo che sono cifre da legge
finanziaria! La bolletta energetica italiana prevista per il 2007 è di
48 miliardi di euro, dei quali 24 rappresentano le importazioni di
petrolio[3]:
4 miliardi di euro rappresentano 1/6 sul totale delle importazioni
petrolifere! Il 16% del petrolio che importiamo lo bruciamo mentre siamo
fermi in coda!

Il ciclo
urbano, con frequentissime accelerazioni e frenate, è una vera e
propria idrovora d’energia: riflettiamo che, per portare
un’autovettura del peso di
900 Kg
alla velocità di
100 Km/h
, dobbiamo fornire circa 350 KJ, che equivalgono a circa
100 grammi

di petrolio. Con cinque accelerazioni da
0 a

100 Km
orari se ne va in fumo quasi un litro di benzina: quante accelerazioni
compie annualmente l’intero parco automobilistico mondiale?
Se, invece, vogliamo arrestare l’autovettura, i freni dissiperanno
sotto forma di calore la stessa quantità d’energia. Qui, l’auto
elettrica segna un notevole punto a suo favore.

Proprio la
semplicità del propulsore elettrico, consente d’utilizzare la
frenatura elettrica: semplificando al massimo, il pedale del freno fa
ruotare il motore di trazione che – rallentando l’autovettura con il
“freno motore” – genera energia elettrica che ricarica gli
accumulatori. Per le frenate d’emergenza, la parte finale della corsa
del pedale aziona un comune freno a disco.
Il recupero d’energia mediante il freno elettrico consentirebbe di
recuperare quantità immense d’energia, soprattutto nel ciclo urbano e
sul cosiddetto “misto”, ovvero in presenza di salite e discese.
Difficile quantificare l’energia che si andrebbe a recuperare – come
avrebbero potuto, all’epoca della trazione a cavalli, definire nei
particolari l’efficienza della ferrovia o del motore a scoppio? –
poiché qui entrano in gioco gli attriti, il tipo di percorso, la
frequenza delle accelerazioni/decelerazioni, ma sarebbe senz’altro un
cospicuo risparmio.

Notiamo che
il freno elettrico viene già utilizzato per alcuni tipi di carrelli
elettrici, proprio per aumentarne l’autonomia: è tecnologia attuale
– già sfruttata da aziende che operano sul mercato – non siamo alla
semplice fase di ricerca o di prima industrializzazione del prodotto.
L’altro, significativo risparmio energetico dell’auto elettrica è
quello più taciuto: la ricarica mediante pannelli fotovoltaici.
Gli attuali pannelli fotovoltaici sono ancora costosi e quindi
scarsamente convenienti per la produzione elettrica di massa mentre, se
applicati su un’autovettura – dato il maggior costo del rifornimento
– sarebbero convenienti. Vediamo un esempio.

Un’autovettura elettrica con motore da 30 KW – in pratica
un’utilitaria – con
3 m2
di celle fotovoltaiche, quanta energia accumulerebbe?

La
radiazione solare varia molto da luogo a luogo e da una stagione
all’altra, ma un valore medio di 800 Watt/m2 viene
comunemente accettato. Le celle fotovoltaiche, attualmente, riescono a
trasformare in energia elettrica il 14% della radiazione solare[4]:
presto raggiungeremo il 17%, ma restiamo con i piedi per terra e
valutiamo gli attuali rendimenti.

Un complesso fotovoltaico di
3 m2
riceverebbe 2.400 Watt/h che, con un rendimento del 14%, consentirebbero
d’immagazzinare circa 336 Watt/h. Se consideriamo un valore medio
d’irraggiamento solare pari a 10 ore[5],
ogni giorno il sistema immagazzinerebbe circa 3,5 KW.

Con 3,5 KW,
il motore da 30 KW/h potrebbe spingere l’autovettura alla massima
velocità per circa 7 minuti: considerando una velocità massima non
elevatissima – circa
120 Km/h

– sarebbero circa
17 Km
il giorno percorsi gratis, grazie al sole.
Se consideriamo una percorrenza media di
15.000 Km
annui,

17 chilometri
il giorno regalati dal sole consentirebbero all’autovettura di
compiere
6.200 chilometri
gratis: circa il 40%!
Quali sarebbero i costi? Difficile scendere in particolari, ma saremmo
comunque nell’ordine del migliaio di euro, poco di più o poco meno.
Mille euro all’acquisto, per percorrere
6.000 chilometri

l’anno gratis! Non ci sono altri commenti da fare.
Ovviamente, siamo in presenza di calcoli teorici: ci vorrebbe una seria
fase di sperimentazione, ma le premesse ci sono tutte.
Consideriamole complessivamente:

  • Maggior rendimento
    rispetto al motore ad idrocarburi
  • Nessun consumo ad
    autovettura ferma
  • Possibilità di
    recuperare il calore disperso dalla cella a combustibile
  • Recupero
    dell’energia in frenata
  • Ricarica mediante
    celle fotovoltaiche
  • Nessun inquinante
    emesso

Anche ad
essere molto, ma veramente molto pessimisti, questo tipo d’autovettura
consumerebbe meno della metà dell’energia che oggi dobbiamo immettere
nel serbatoio di una comune autovettura benzina/diesel!

Difficoltà di tipo tecnologico? Niente di sconosciuto o
d’insormontabile. La trazione elettrica con celle a combustibile viene
già utilizzata per i sottomarini, il recupero dell’energia in frenata
nei comuni carrelli elettrici, le celle fotovoltaiche sono sul mercato,
la tecnologia dei fluidi a basso punto d’ebollizione ha già di più
di mezzo secolo.

Chi e che
cosa si frappongono, fra questo realistico “sogno ad occhi aperti” e
la vera realtà?
Un coagulo d’interessi convergenti ed un pessimismo imperante: da un
lato lo sterile “pianto da coccodrilli” per la salute del pianeta,
dall’altro la ferrea chiusura ad ogni forma d’innovazione che ci
consentirebbe di risolvere definitivamente quei problemi.

Prendiamo in
esame l’industria automobilistica italiana: la concorrenza interna è
pari a zero. Tutto, nel volgere dell’ultimo mezzo secolo, è diventato
FIAT. Chi potrebbe permettersi di lanciare sul mercato una nuova
“specie” d’autovetture?
Eppure, la falsa sicurezza che si respira in Corso Marconi a Torino
potrebbe svanire da un istante all’altro: un anno or sono è stata
bloccata l’importazione d’auto cinesi, ufficialmente perché le
materie plastiche utilizzate per i cruscotti non rispettavano le norme
europee. Non penso che i cinesi ci metteranno molto a rimediare.

Cosa faremo
quando giungeranno sui nostri mercati utilitarie cinesi, indiane o
brasiliane che verranno vendute a 4.000 euro? Chiuderemo bottega, come
ha già fatto l’industria tessile italiana.

Anche per il tessile si chiacchierò a lungo di nuovi tessuti con chip
incorporati per mantenere costante la temperatura del corpo, ma non se
ne fece nulla. Tessuti “non tessuti” e nuove tecnologie nelle fibre
tessili alimentarono soltanto il pour
parler
di convegni e simposi: inutili come i chiacchiericci
televisivi.
La crisi colpirà l’intera industria automobilistica europea, ma i
primi a cadere saranno sempre i “vasi di coccio” e non c’è vaso
più fragile del sistema industriale italiano, sempre pronto a chiedere
sgravi fiscali allo Stato e poverissimo di piani industriali
convincenti.

Vogliamo
ricordare la fine dell’elettronica – Olivetti – grazie a De
Benedetti? Quella della chimica – Montedison – con Gardini? E Tanzi

la Parmalat
– salvata dall’intervento pubblico e dalle banche dopo che aveva
dilapidato le risorse di migliaia di piccoli risparmiatori?

L’innovazione tecnologica mette a nudo proprio la pochezza delle
nostre classi dirigenti – politiche, ma anche imprenditoriali – e ci
fa pensare che agiscano, in fondo, soltanto per rinnovare loro stesse.
Del Paese reale, pare che non gliene importi nulla.
Lor signori investono in Cina ed in Brasile, mentre i nostri figli –
spesso laureati – finiscono per lavorare per 500 euro il mese –
privi di previdenza e d’assistenza – nei call
centre
.

Quale
sarebbe, invece, il panorama se la classe politica premiasse chi propone
prodotti innovativi e brevetti, ed imprenditori coraggiosi lanciassero
la nuova tecnologia sui mercati internazionali? Perché non imparare
dalla Finlandia e dall’Irlanda? Perché l’Italia utilizzò
scarsamente – quando erano disponibili – i fondi strutturali
concessi dall’Unione Europea proprio per modernizzare gli apparati
produttivi?
Meglio non perder tempo con questi
sogni ad occhi aperti: rimangono il “pianto antico” per la salute
del pianeta, le molte profferte d’intervento e tutto il resto, che si
materializzano – ad ogni legge Finanziaria – in richieste di soldi a
fronte di nulla. Ricchissimi straccioni: ecco chi sono quelli che ci
comandano. Poveri noi.

http://www.macrolibrarsi.it/libri/__mutamenti_climatici.php?id_wish=10678

Carlo
Bertani
[email protected]

www.carlobertani.it
14.05.2007

NOTE

[1]
L’ingegner Longo lavorò – durante il secondo conflitto mondiale
– alla prestigiosa Messerscmitt tedesca, nella progettazione dei
motori del noto caccia Focke-Wulf 190.

[2]
Il calcolo è stato effettuato dalla TRT Trasporti e Territorio,
utilizzando un sofisticato modello matematico, che si chiama
Astra-Italia. Fonte: Repubblica, 24
aprile 2006.

[3]
Fonte: Televideo, 11/3/2007.

[4]
Dati forniti da Roberto Togni, responsabile per l’Italia del
settore solare della Wuerth
Solar Gmbh
.

[5]
Ricordiamo che per irraggiamento non s’intende soltanto la
radiazione solare diretta, ma anche quella indiretta.

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