DI GIULIETTO CHIESA
Ricordo Aleksandr Solzhenitsyn, quando scriveva, anzi esortava i russi, con quella sua prosa veemente, a «liberarsi del sottopancia asiatico». Erano solo una quindicina di anni fa, e i democratici russi erano convinti che, appunto, lasciando andare l’Asia al suo destino, sarebbero diventati rapidamente ricchi, prosperi, avrebbero raggiunto la democrazia, sarebbero diventati «civili», come si usava dire allora. Sfortunatamente lasciando andare l’Asia al suo destino abbandonavano anche parte di se stessi, perché la Russia è sempre stata anche Asia, e solo una imperdonabile leggerezza storica – e geografica – poteva condurli a ritenere di essere solo Europa, solo Occidente. Così come poteva indurli a pensare di essere figli della breve storia sovietica e non dei secoli della storia russa. Il risultato di una tale cecità ha finito per far arretrare la Russia non solo a potenza di secondo o terzo rango; non solo non ha portato la democrazia in Russia, ma ha rigettato quasi centocinquanta milioni di individui nel medio evo.
Riflettere su queste faccende apparentemente lontane è necessario oggi, mentre guardiamo agli eventi tragici dell’Uzbekistan, che seguono quelli – analoghi anche se meno tragici – della Kirghizia.
Cosa intendo dire? Semplicemente che ciò che si sta svolgendo sotto i nostri occhi è l’onda lunga del crollo dell’Unione Sovietica. Non è un’altra cosa. E’ esattamente l’esito inesorabile di quelle scelte, che furono compiute a Mosca da coloro che presero il potere dopo avere abbattuto la perestrojka e avere sposato la ricetta harvardiana per l’uscita della Russia dal comunismo. Se, invece di Solzhenitsyn, l’intelligencija russa, avesse riletto Herzen, che – nel pieno del dibattito che ferveva all’interno della socialdemocrazia – invitava a «camminare con il passo dell’uomo», le cose sarebbero andate, molto probabilmente, in modo diverso. Andare con il passo dell’uomo significava non forzare i tempi della storia, anticipava Braudel e le sue correnti profonde, che sono le uniche a segnare i veri cambiamenti, a differenza delle schiume di superficie che mutano a ogni istante e non lasciano nulla dietro di sé.
Lo so, lo so, che la storia non si fa con i se e con i ma. Appunto per questo è bene riflettere oggi su quegli eventi: perché oggi si ripropone la possibilità di ripetere, ingigantendoli, gli stessi errori. Oggi si parla infatti di «esportare la democrazia», se necessario anche con le armi, con i cannoni, con i missili. Insomma con la forza. Errore tremendo di prospettiva, errore culturale prima di tutto. Errore speculare a quello dei «democratici» che fuoriuscivano dal comunismo sovietico, i quali decisero che esportare democrazia nelle repubbliche asiatiche non era per loro importante, non aveva significato alcuno.
Scelta egoistica e cinica. Ma anche scelta stupida. In primo luogo perché sarebbe stato ben presto evidente che la Russia non avrebbe potuto muoversi verso la democrazia in un contesto medievale e violento. In secondo luogo perché, al contrario, solo la Russia che emergeva dall’esperienza comunista sovietica – usando la forza unificatrice della sua lingua e della sua cultura, usando perfino, cum grano salis, l’eredità organizzativa e centralizzatrice del partito comunista – avrebbe potuto irraggiare valori, esperienze, cultura, su un’area immensa e cruciale del continente asiatico, senza più imporre ideologie, regole e valori, gradualmente soprattutto, civilmente soprattutto, senza guerre e senza sangue, soprattutto.
Sarebbe stato un modo giusto, pacifico, di «esportazione della democrazia». L’unico possibile, del resto, perché nella valle di Ferganà la democrazia non sanno nemmeno cos’è. Non per colpa loro, ma perché la storia ha impedito loro di conoscerla. E non sarà certo imponendo loro un sistema elettorale che la impareranno. Andando per conto proprio, altezzosamente, scioccamente, la Russia democratica che appena nasceva, ha consegnato l’Uzbekistan e le sue sorelle asiatiche nelle mani rapaci degli Islam Karimov, o dei Saparmurad Nijazov, o degli Askar Akaev. Sbagliano coloro che assimilano queste jacqueries centro asiatiche alle «rivoluzioni democratiche» di Georgia e di Ucraina. Sono cose diverse alla radice, e la loro diversità non sta solo nella quantità di sangue che viene versato: sta nella diversità della storia, di quella lunga dei secoli, non di quella breve del secolo che abbiamo appena lasciato. Una sola cosa le accomuna: le une e le altre, in forme diverse, sono tappe della fine dell’Unione Sovietica. Una fine «lunga», che ci riserverà ancora molte sorprese. Molte, e purtroppo tragiche.
Giulietto Chiesa
Fonte:www.lastampa.it
19.05.05