Alimentare la diffidenza tra Iran e Stati Uniti
di Roger Howard
Immaginate la vostra reazione se, durante le elezioni presidenziali di novembre, i mullah iraniani si fossero improvvisamente lanciati in un sermone di critiche contro il sistema democratico americano e avessero diffuso il loro messaggio attraverso le nostre televisioni e radio affinché tutti noi lo ascoltassimo: la democrazia negli Stati Uniti, avrebbero protestato probabilmente i mullah, è un processo corrotto che si è largamente determinato attraverso i donatori più ricchi, un processo che fallisce totalmente rivolgendosi ai bisogni di una cultura secolare e materialista.
La maggior parte degli americani comuni, ciò lo si può dire onestamente, si sentirebbe oltraggiata dal tono ipocrita e dalla natura intrusiva di coloro che non conoscono nulla in prima persona di ciò che stanno condannando. Probabilmente si irriterebbero profondamente per commenti così ingiustificati e totalmente iniqui, e guarderebbero al regime iraniano con maggior sospetto, e forse disgusto, come mai prima di allora. Ora sentite alcuni dei commenti arrischiati dai portavoce dell’amministrazione sulle elezioni presidenziali che si stanno per svolgere in Iran, previste per venerdì 17 giugno. Le elezioni, come ha raccontato il portavoce del Dipartimento di Stato Nicholas Burns alla Commissione dei Senatori per le Relazioni internazionali il 19 maggio, “rappresenterà un altro regresso per la democrazia perché il processo politico e i media sono controllati e manipolati da pochi eletti”. Questo controllo e manipolazione, ha continuato, ha inevitabilmente frustrato lo scopo dichiarato del presidente Bush di promuovere le riforme democratiche “da Damasco a Tehran”, le quali farebbero dell’intero mondo un posto migliore e più sicuro.
Le forti critiche alla politica interna dell’Iran espresse dal presidente e dai suoi portavoce sono state diffuse in Iran in modo alquanto vigoroso, come mai prima: da quando, alla fine di quest’anno, l’amministrazione ha concesso milioni di dollari da investire nella tv satellitare e in stazioni radio che, dai loro studi negli Stati Uniti, spesso trasmettono messaggi radicali direttamente nelle case degli iraniani comuni. E ancora, Washington sta finanziando attivamente gruppi politici che, dal loro esilio, supportano la causa democratica all’interno dell’Iran.
La vera critica di questo tono altamente ipocrita non sta nel fatto che commenti come questi non siano in nessun modo infondati. Le elezioni iraniane saranno, come sostengono i portavoce dell’amministrazione, non lontane dall’essere una truffa. Il regime religioso ha già estromesso più di mille candidati dalla competizione, allo stesso modo in cui, nel febbraio dello scorso anno, migliaia di potenziali candidati alle elezioni parlamentari furono ugualmente esclusi da parte degli integralisti, che temevano le riforme da essi supportate. Questa settimana vi è un candidato alle presidenziali che si sta presentando con un’agenda apertamente “riformista”; Mustafa Moin e i suoi sostenitori sono stati sottoposti a una crudele campagna di molestie e intimidazioni da parte dei vigilantes-o-assassini del regime, che si occupano di questo lavoro sporco.
Il problema con delle opinioni così forti, con delle critiche così arroganti alla politica interna di un altro paese non sta dunque nel fatto che esse siano senza fondamento, bensì nel fatto che esse alimentano la mutua sfiducia e il sospetto. Tra gli iraniani comuni ve ne sono molti che sono probabilmente infastiditi e si agitano nel risentimento per le interferenze dall’estero, così come accadrebbe nel caso delle prediche immaginarie dei mullah contro di noi. Per quanto riguarda la leadership, comunque, essi possono solo intensificare la paura che Washington sia impegnata in un cambio di regime in Iran, probabilmente con lo stesso insidioso inganno che fu una volta utilizzato contro Mohammed Mossadeq, il primo ministro iraniano che fu fatto cadere dalla Cia nel 1953.
Se le paure di Tehran di un’aggressione americana s’intensificano maggiormente, la prospettiva di un qualche riavvicinamento diplomatico tra le due nazioni, le cui relazioni si erano interrotte più di 25 anni fa, diventa inevitabilmente ancora più illusoria. Inoltre gli iraniani potrebbero iniziare ad adottare misure preventive contro un possibile attacco da parte degli Stati Uniti, dissimulato o meno, che creerebbe un pericoloso circolo vizioso convincendo Washington che Tehran è determinata a minare gli interessi strategici americani nel medio Oriente.
Immaginate lo scenario. Profondamente allarmata dal tono tagliente delle sempre più numerose critiche, Tehran dispiega segretamente più Guardie Rivoluzionarie in Iraq, sperando di stabilire un contatto serrato e una cooperazione tra il popolo Sciita il quale potrebbe schierarsi dalla parte dell’Iran nell’eventualità di un attacco americano. Scoprendo questo spiegamento però, Washington diventa ancora più certa che l’Iran è insediato nel cuore dell’insurrezione irachena contro il governo post-Saddam, e ordina un raid punitivo contro i nascondigli dei militanti sospetti posti lungo il confine con l’Iran.
Questa difficilmente è una ricetta per la pace nel Medio Oriente. Somiglia piuttosto ai giorni più bui della Guerra Fredda, quando sia l’Est che l’Ovest rimanevano convinti delle reciproche cattive intenzioni solo per scoprire che era il sospetto tra loro a creare, invece che manifestare soltanto, la “minaccia” con cui l’uno si poneva per l’altro.
Come possono dunque i politici americani riconciliare i loro interessi nel promuovere la democrazia e la libertà nel mondo col bisogno di allentare, anziché alimentare, il pericoloso stato di sospetto tra l’Iran e gli Stati Uniti? Invece che fare più dettagliati riferimenti alla “democrazia”, “l’esclusione dei candidati”, e le “intimidazioni”, forse sarebbe meno inopportuno semplicemente implorare i mullah di non frustrare la volontà del popolo iraniano. Se torniamo allo scenario immaginario col quale abbiamo cominciato, sarebbe difficile protestare contro i mullah iraniani se essi esprimessero semplicemente il medesimo desiderio di vedere un nuovo presidente venire onestamente eletto negli Stati Uniti. Lasciate che il popolo americano decida liberamente cos’è buono per se stesso, questo messaggio poteva esser detto in modo più conciso, e lasciate la politica iraniana agli iraniani.
Roger Howard è un giornalista freelance che si occupa di affari internazionali e di sicurezza, e collaboratore del Foreign Policy in Focus. E’ l’autore di “Iran in crisis” (Zed Books 2004)
Fonte:www.counterpunch.org/
Link: www.counterpunch.org/howard06182005.html
>
Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ANNA T.