DI CLAUDIO UGHETTO
La Val di Susa, stretta valle che dal confine francese scende verso Torino, si divide tra alta e bassa valle. All’interno dell’omonima città ci sono antichi siti romani; se in alta valle si scia al Sestriere o
Sause D’Oulx , in bassa valle la Sacra di S. Michele, monumento romanico, ha da circa un millennio mutato della la nozione di paesaggio: è difatti impossibile, per l’indigeno o il viandante, scindere
il tutt’uno del monte Pirchiriano e dell’abbazia che lo sovrasta.
Negli ultimi tempi questa valle un po’ dimenticata è tornata in auge perché testimone di due avvenimenti a prima vista non collegabili tra loro, sebbene non sia casuale l’assonanza che li fa
risuonare. Stiamo parlando dell’imminente svolgersi delle Olimpiadi Invernali 2006, vanto massmediatico dell’amministrazione regionale e torinese, e dell’opposizione popolare al passaggio del Treno
ad Alta Velocità. Di questa protesta, altrettanto massmediatica, le medesime amministrazioni non si vantano affatto. Eppure essa è sostenuta dai sindaci valsusini, alcuni dei quali fanno parte delle
stesse fazioni politiche che a livello macro strutturale sostengono il progetto europeo in nome dello sviluppo e del rilancio dell’economia.
Le ragioni di chi si oppone al TAV in una lotta impari che dura da 15 anni e che ha raggiunto l’apice con l’annuncio dei lavori di scavo a Venaus, tra le montagne valsusine, sono sacrosante e sono
state ben riassunte dalle domande poste da Luciano Gallino su “La Repubblica” del 30/11/2005 . Domande cui nessun politico o amministratore è riuscito a rispondere: davvero l’investimento
economico (almeno 15 miliardi di euro) e temporale (15 – 20 anni di lavoro) serviranno allo scopo di far traslocare il trasporto su gomma al treno?
Il potenziamento della linea attuale non sarebbe
forse persino più efficace, risparmiando alla valle, già disastrata da un’autostrada che doveva favorire il passaggio di quei TIR che adesso si vogliono mettere sul treno, l’ennesimo sconcio ambientale?
Su tutto la preoccupazione che ha portato i valsusini a picchettare i cantieri di sondaggio dei terreni, per la presenza di polveri d’amianto e uranio che i venti della valle porterebbero ovunque.
La popolazione è scesa per rivendicare il diritto alla vivibilità e alla salute. Strano che, nell’era dei diritti, persone che lavorano, studiano, pagano le tasse e vengono chiamate al voto quando serve
siano attualmente definite, da politici di destra e di sinistra, come estremiste e fanatiche. Benché Pisanu abbia per l’ennesima volta tirato in ballo bombaroli e squatters, chi c’era ha visto ragazzi a viso
aperto che si scaldavano accanto ai falò, padri e madri di famiglia lì con i loro piccoli, anziani valligiani colpiti da malore perché urtati dagli scudi della polizia. E le immagini televisive lo
confermano. Chi, con in mente l’Europa degli economisti e dei burocrati, pensa che la Regione possa “svilupparsi” attraverso un’opera di sradicamento non può certo considerare le ansie e le paure di
una popolazione che avverte il disprezzo per la propria valle e la propria casa in nome di interessi troppo grandi.
L’Europa lo vuole, salmodiano Mercedes Bresso, presidente della Regione Piemonte e il Sindaco di Torino Chianparino. A dar man forte, il Presidente della Repubblica Ciampi ha ribadito, con un
magistrale esempio di banale paternalismo, che la preservazione dell’ambiente non deve comportare l’intralcio allo sviluppo. C’è da chiedersi se davvero ci credono: in un’Italia profondamente in crisi,
in preda ad una recessione che segue innumerevoli “miracoli economici” annunciati e mai avvenuti, c’è chi vuole convincerci che sarà l’ennesima infrastruttura a lenire la mancanza di qualsiasi
concezione della società e di progettualità politica. Ci sono ragioni più grandi, ci dicono, e chi la pensa diversamente ostacola il percorso del treno verso il progresso (1). A furia di ingrandirci dovremo
trasformare quell’Europa lo vuole in “Dio lo vuole!”, imperativo nefasto un tempo come nell’attualità teocon.
Ma esistono delle ragioni “più grandi”? Me lo chiedo da oppositore alla TAV che non può smettere d’essere critico persino delle proprie convinzioni. L’invito nietzscheiano ad essere nemici di se stessi
è fuori moda di questi tempi, eppure è necessario ribadirlo in nome di un ragionamento metapolitico che non può soffermarsi ad una dicotomia d’interessi: da una parte coloro che esprimono i grandi
potentati economici, dall’altra coloro che temono l’invasione del proprio giardino e lo sconvolgimento della quotidianità conquistata o da tempo protratta. Me lo chiedo dopo aver sentito l’economista
e filosofo Jeremy Rifkin, famoso per le sue posizioni nonconformiste in tema di ecologia e per la critica all’idea di sviluppo, difendere il progetto dell’Alta Velocità sul Tg regionale. E’ la sparata di
un americano che non sa nulla della Val Susa e dei suoi problemi? Può darsi. Tuttavia viviamo in un mondo globale e, presa a sé, quella difesa non era una sparata. Il treno, diceva Rifkin, può portare
molte persone, centinaia, migliaia in una giornata. Tutte persone che altrimenti starebbero in centinaia, migliaia di auto inquinanti che invece rimangono in garage. L’autore di Entropia,
probabilmente non sa che prima della TAV l’Europa ha voluto in Val Susa un’autostrada che di auto ne riversa un’immensità ogni week-end: se lui avesse davvero ragione, dovremo chiederci cosa
farne di questa lama d’asfalto che a tratti incrocerà il passaggio delle rotaie. Ma possiamo negare che buona parte di chi contesta la TAV ha lavorato o lavora in FIAT? Inquinano di più le folate
d’amianto e uranio o il perpetuarsi dei gas di scarico negli ingorghi verso Torino?
Ho già trattato questo tema in altra sede (2), eppure continuo a chiedermi: non è contraddittorio, in base alla
rivendicazione e al “diritto”, picchettare i cantieri con le trivelle per difendere casa propria e, nel contempo, chiedere la sopravvivenza di Mirafiori in nome dei lavoratori? Senza un’intenzione
metapolitica, mi sembra, anche l’intento più nobile finisce per trasformarsi in una lotta settoriale. Le amministrazioni e i tecnici non sanno dare risposte ai manifestanti, poiché le loro giustificazioni
si rimestano nell’attuale retorica economicista che non rispecchia le sensibilità reali. D’altra parte i manifestanti sono costretti a rispondere con tecnicismi che solo in parte smontano l’idea di
sviluppo.
Sì, mi rispondo, esistono ragioni “più grandi”, ed esse si oppongono alla retorica dello sviluppo. Risuonano in parole come senso del territorio, coesione sociale e municipalismo.
Da tempo,
ammettono alcuni valsusini, non ci si riconosceva in una lotta che è anche condivisione di idee e sentimenti. Tra quei fuochi si è fatta comunità, spontaneamente si sono manifestate dinamiche
d’auto-mutuo aiuto. E, per adesso, secondo principi di nonviolenza che nessun provocatore è riuscito a minare. Se, parafrasando Giacopini, il movimento No Global ha espresso il meglio di sé
quando, a Seattle, è sceso in piazza contro i “veri” padroni del mondo: il WTO e la Banca Mondiale, il Fondo Monetario (3) , allora bisognerebbe convenire che i valsusini non stanno solo difendendo
la loro salute e il loro giardino. Inconsapevolmente, e molto parzialmente, stanno mettendo in discussione la maschera stessa dello sviluppo, una facciata di retorica europeista che non riesce a
nascondere l’asservimento dei politici, espressione di una politica svuotata, ai paradigmi dell’economicismo e del turbocapitalismo.
Claudio Ughetto
Fonte: www.ariannaeditrice.it
2.12.05
Note:
1 Non sono pochi i giornali che definiscono i manifestanti come “ribelli”. Il sito de La Stampa ha promosso un sondaggio chiedendo ai lettori se sono favorevoli o contrari alla “rivolta” contro l’Alta
Velocità. È abbastanza chiaro l’intento di connotare negativamente la protesta, secondo l’abitudine di definire “ribelle” chi si difende da un’invasione o da un’occupazione.
2 “La sinistra e i suoi (doppi) vincoli” , Diorama Letterario n. 253, giugno-luglio 2002.
3 Vittorio Giacopini, NO-GLOBAL, tra rivolta e retorica, elèuthera, 2002, Milano.
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