L'ALIBI CINESE

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DI ANDREA FANTONI

Quando si mettono il libero scambio e la concorrenza al di sopra di ogni altra cosa, elevando il mercato a divinità suprema che regola e gestisce tutte le umane relazioni, si rischia poi che questa perversa spirale che abbiamo messo in moto ci si ritorca contro, proprio come in quei film di fantascienza dove le macchine si ribellano agli uomini superbi e ambiziosi che le hanno costruite. Per quanto riguarda la nostra grassa e opulenta società occidentale, culla dell’edonismo più irriverente, del consumismo più sfrenato, del lavoro ridotto a merce, dove l’unico credo è ormai il profitto, questa sacrosanta legge del contrappasso ha un nome e si chiama Cina. Da quando la locomotiva europea si è fermata, cioè da quel fatidico 1989 che doveva cambiare il mondo in meglio e che invece ha segnato l’inarrestabile declino del Continente (e ancor più dopo l’autoattentato dell’11/9), un nuovo spauracchio si aggira per l’Unione: il colosso commercial-demografico cinese è diventato la foglia di fico per continuare a negare il fallimento del nostro sistema economico e nascondere sotto il tappeto tutte le pecche e gli ormai vistosissimi limiti del modello capitalista ultraliberale. Certo il problema della feroce concorrenza delle merci provenienti dall’estremo oriente esiste ma non è certo il male più grande che affligge la nostra economia, la sindrome cinese è stata creata, alimentata e pompata ad arte per tappare le falle della nostra incapacità (e assoluta mancanza di volontà) a trovare un’alternativa al liberismo senza regole; e comunque, se anche la Cina fosse il mostro famelico che ci vogliono far credere, non siamo certo noi capitalisti occidentali in condizione di potercene lamentare visto che la Cina non fa altro che applicare, moltiplicati all’ennesima potenza (e non potrebbe essere altrimenti per un Paese di 1.300.000.000 anime) gli stessi principi della libera e illimitata concorrenza che noi stessi abbiamo approvato e stabilito come universalmente validi per tutti i popoli di questo pianeta che vediamo solo come un unico grande mercato da spremere: la Cina, questo mostro, lo abbiamo creato noi !

Solo che adesso non ci sta più bene, perché quando qualcuno usando i nostri stessi sistemi riesce a fare meglio di noi, a fotterci usando le nostre stesse armi, non lo vogliamo proprio accettare. In questo le demo-plutocrazie occidentali somigliano molto a quei bambini che quando il gioco in cui una volta primeggiavano non volge più a loro favore dicono che l’avversario imbroglia e iniziano a gridare: “non gioco più!”. Però finchè eravamo noi a dettare legge ci stava bene: allora il sistema capitalista va bene fino a quando siamo noi a guadagnarci, quando invece sono gli “altri” a trarne vantaggio, ecco che tiriamo in ballo la concorrenza sleale, i metodi commerciali scorretti e iniziamo a invocare i dazi, le sanzioni, il protezionismo? ma queste misure, alle quali in linea di massima non sono mai stato contrario, non mi stanno bene se auspicate dai Bush, dai Berlusconi, dai Fini, dagli euroburocrati di Bruxelles: da tutta quella cricca che ha fatto della concorrenza senza freni un’ideologia, un dogma, una religione, questo non lo accetto! Non può appellarsi alla lealtà chi ha abolito ogni regola in nome del profitto ad ogni costo. Se la Nike paga un dollaro al giorno dei bambini filippini per fabbricare un paio di scarpe che vengono vendute da noi a 250 euro, tutto bene; se i cinesi pagano due dollari i loro operai per fabbricare mutande che poi ci rivendono a 60 centesimi, sono sleali?Se la Zoppas chiude uno stabilimento nel Nord Italia per aprirne un altro in Romania al fine di risparmiare sulla mano d’opera nessuno si scandalizza e comunque la lavatrice la paghiamo quanto e più di quando veniva assemblata in Italia; se i cinesi mettono in commercio un modello di lavatrice “made in China” a un prezzo quattro volte inferiore invece è immorale perché sfruttano i lavoratori?e come si chiama la delocalizzazione e l’utilizzo di manodopera indigena, spesso minorile e sottopagata, portata avanti sistematicamente dalle multinazionali occidentali se non sfruttamento; sfruttamento che è tanto più grave in quanto implica licenziamenti di massa nei paesi dove gli stabilimenti erano originariamente ubicati e dal fatto che tutto ciò è messo in atto per pura ingordigia in quanto la merce così prodotta, dovrebbe avere prezzi più competitivi come accade per i manufatti cinesi, invece questo non avviene a dimostrazione che questi signori che invocano l’onestà in un settore che è disonesto per definizione vogliono soltanto trarre il massimo dell’utile con il minimo dei costi: questo direbbero tali signori se avessero un minimo di pudore ma è molto più facile accusare la Cina piuttosto che dire: “siamo dei ladroni patentati” ,”siamo degli strozzini” oppure “la nostra politica economica non vale una sega”. Il fatto è che alla nostra classe dirigente, ai gestori di questo sistema basato sull’usura e sullo schiavismo serve un alibi per non far capire alla gente che la stanno prendendo per il culo da sempre e allora ecco che tirano fuori l’isteria anticinese.

In realtà poi non si sono inventati niente di nuovo: hanno solo mutuato dall’America il vecchio trucchetto del “pericolo giallo” : gli americani da più di un secolo tirano in ballo la minaccia commerciale cinese per giustificare misure protezionistiche che altrimenti non potrebbero trovare alcuna giustificazione nella patria della “Libertà di fare i soldi”. Basta guardare la notevole filmografia statunitense per trovare di continuo lo stereotipo del cinese mercante astuto e delle merci scadenti prodotte in Cina e vendute negli USA per quattro soldi e questo da molto prima del nuovo corso del colosso asiatico. Ricordo che in una puntata di Rintintin (quindi parliamo di un telefilm degli anni cinquanta, forse quaranta?) facevano vedere un cinese (coi baffetti e il codino) che vendeva copie di orologi svizzeri per pochi centesimi fra il disprezzo generale delle anime pie in giubba blù. La Cina non rispetta i diritti umani, la Cina non protegge i lavoratori, in Cina non ci sono i sindacati, in Cina c’è la pena di morte, la Cina è un Paese pericoloso, armato ed aggressivo che potrebbe ricattare economicamente e militarmente tutto il mondo: ecco i concetti più usati dai media occidentali, peccato però che gli stessi concetti potrebbero essere tutti quanti rivolti anche contro gli Stati uniti d’America. “Ma la Cina è un Paese comunista, una dittatura!” obietterà qualcuno: a parte il fatto che un Paese comunista non debba per forza essere una dittatura (nel senso spregiativo che noi diamo a questa parola), siamo tanto sicuri che gli USA non siano una dittatura? Una dittatura dell’imprenditoria dove da due secoli un’èlite ristrettissima di ricconi tiene la maggioranza della popolazione in uno stato di segregazione economica, sociale e razziale??Pensiamoci bene.

La crociata dei nostri media e delle nostre istituzioni nei confronti della Cina non ha nulla a che vedere con la preoccupazione per i nostri lavoratori tessili e manifatturieri, ma ha che fare invece con quella di perdere mercati proficui e accrescere la forza economica cinese: lo scopo chiarissimo di questa campagna è di aizzare la classe operaia contro la Cina sulla base dell’allarmismo legato alla perdita di posti di lavoro. Se davvero i governi e gli imprenditori occidentali avessero interesse alla sorte dei lavoratori disoccupati, questi potrebbero continuare a pagare il personale messo a riposo e nel frattempo riqualificare e collocare i lavoratori in un’occupazione decentemente retribuita. I metodi per proteggere le economie nazionali e i il Popolo che produce dalla concorrenza cinese ci sarebbero pure ma questo implicherebbe un ripensamento del metodo liberista e, soprattutto la rinuncia al capitalismo totale che oggi finisce inevitabilmente per favorire la Cina.

Occorrerebbe buttare nel cesso tutte le pretestuose teorie sul libero mercato (che sono state sconfitte dai fatti e dalla Storia) e ripensare a una nuova forma di Società in senso sociale, umanistico e comunitario, una società dove le esigenze del mercato siano subordinate e compatibili a quelle della collettività, dove il denaro sia un mezzo e non un fine, nell’interesse comune cinese e occidentale, perché così ci stiamo cacciando in un vicolo cieco. La classe operaia dovrebbe iniziare a capire che gli stanno raccontando un sacco di balle, che il nemico non sono i “musi gialli” di Pechino ma il capitalismo disumano che sfrutta i lavoratori e poi se ne sbarazza in Europa, come in Cina, come in tutto il mondo.
La Cina è un falso problema: il problema è la nostra classe politica e il nostro sistema economico ed è ora di trarne le dovute conseguenze.

Andrea Fantoni
Fonte:www.rinascita.info/
Tratto da:http://www.eurasia-rivista.org/
15.06.05

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