DI PIERO LA PORTA
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Mentre scrivo arrivano gli esiti delle elezioni siciliane. La maggioranza, il 52,58% degli elettori, ha rifiutato di votare per l’elezione del governatore e dell’Assemblea regionale. I sondaggi governativi addomesticati fermavano l’astensione fra il 44 e il 48%. Ottimismo ingiustificato: il governo e il parlamento regionale sono legittimati solo dal 47,42% degli elettori, una minoranza.
Disse Leonardo Sciascia che la Sicilia è paradigma dell’Italia. Di certo Sciascia attribuì a “paradigma” lo stringente significato conferitogli da Thomas Kuhn, storico e filosofo della scienza. In altre parole, l’Italia ha un laboratorio sperimentale in Sicilia, i fumi dei cui alambicchi vanno al di là dello Stretto tanto rapidamente quanto energicamente: la sorte di un’intera classe politica è dunque segnata. Staremo a vedere.
Nella foto: Rosario Crocetta (Ansa) Nel frattempo è bene ricordare che la Sicilia ha camminato su una strada sempre alquanto discosta da quella della Penisola, talvolta incrociandola, spesso fiancheggiandola, ancora più frequentemente discostandosi in forme più o meno tragiche. L’ostilità di taluni isolani al ponte sullo Stretto più che rispondere a ragioni politiche interne, a questioni economiche o a dubbi tecnici è funzionale a preservare un separatismo, che dietro l’insularità nasconde interessi ben mimetizzati e non da oggi.
Il connubio fra una classe dirigente siciliana trascolorante e un’isola strategica nel Mediterraneo è il grimaldello che scardina la nostra indipendenza e l’adattata a interessi esterni.
Una condizione che non riguarda solo la Sicilia, ma l’Italia intera di fronte ai suoi alleati.
Osserva lo storico Virgilio Ilari, che l’Italia, col Senegal, è l’unico paese al mondo, oltre alla Francia, ad aver celebrato il bicentenario della Rivoluzione francese. Il cuore di Londra pulsa a Trafalgar Square, quello di Milano a Foro Bonaparte; sul pennone del Quirinale garrisce il tricolore a rombi della Repubblica Italiana del 1802-05, presieduta dal Napoleone, Primo Console.
Taluni grandi vecchi venerano ancora i Filippo Buonarroti sodali dei giacobini francesi e antesignani delle BR.
Virgilio Ilari ironicamente immagina Benedetto Croce e Finocchiaro Aprile in preda a una visione mistica, allo sbarco del colonnello Charles Poletti, identificandolo con quel lord William Henry Cavendish-Bentinck (1774-1839), beniamino dei Gattopardi e dei liberali, da Melchiorre Gioia a Melchiorre Delfico a Pellegrino Rossi.
Bentick – inviato a Palermo per ridurre a più miti consigli Maria Carolina d’Asburgo, sorella della decapitata Maria Antonietta di Francia, ostile alla strategia di Londra nel Mediterraneo – propose al principe ereditario di casa Borbone, di cedere la Sicilia all’Inghilterra in cambio della restaurazione sul trono di Napoli e di territori a spese del Papa. Obiettivi, questi, il Papa e l’isola, mai usciti dal mirino di Londra. L’annessione fallì; non per questo si ridimensionarono le mire inglesi sull’Isola.
Lo zolfo siciliano nel XIX secolo, estratto da circa 200 solfatare della Sicilia centrale, fu conteso fra le industrie francesi e inglesi per l’acido solforico e la polvere da sparo, rimanendo strategico fino alla fine del secolo, quando il mercato fu capovolto dai costi concorrenziali dello zolfo americano, non prima di avere creato un legame ulteriore fra America e Sicilia. Quel secolo di commerci e di legami internazionali generò i by-pass politici, ereditati volentieri dai conquistatori piemontesi. Sulfurea, dunque, fu l’ autonomia siciliana, non solo in senso chimico. Dopo lo zolfo, arrivò la guerra mondiale e il piano Marshall.
Nel dopoguerra il separatismo siculo fu alimentato dalla nobiltà isolana connessa con Londra finché gli USA non divennero più guardinghi. Parti rilevanti del clero locale e nazionale non furono estranee a quelle mene. Ancora oggi non sarebbe stupefacente ritrovare queste infiltrazioni nella politica come nelle sacrestie.
A giugno del 1947, ad Harvard, il segretario di stato Usa, George Marshall, illustrò il piano di ricostruzione economica dell’Europa: l’America avrebbe aiutato tanto più generosamente i paesi europei quanto più essi avessero integrato le politiche e le economie. Il piano Marshall fuse in un tutt’uno le nostre politiche economica, estera e interna, mentre ci si incamminava verso l’Alleanza atlantica, nata due anni dopo, ad aprile 1949. Gli inglesi, aggiunsi, non volevano l’Italia nella NATO, al contrario dei francesi, che ci usavano contro Londra.
Il separatismo siciliano fu, pur nell’ ostentata autodeterminazione, strumento per allontanare la Sicilia dalla Penisola, a vantaggio della Gran Bretagna, senza apparenti contrasti col processo di integrazione europea preteso dal piano Marshall statunitense. Noi tutti dobbiamo essere grati agli Stati Uniti perché in quel frangente frenarono lo smembramento dell’Italia, a Trieste e in Sicilia. Il 5 luglio 1950 Salvatore Giuliano morì e apparentemente si concluse l’avventura separatista che tuttavia ebbe uno strascico milazzista nel 1958, col PCI di Emanuele Macaluso e il MSI di Dino Grammatico. Difficile credere che questo sia un discorso chiuso con la senilità o col decesso di quei protagonisti.
Adesso diranno che la mafia ha disertato le urne. Ma questa lettura appare alquanto superficiale. Il calo dell’affluenza alle urne dal 66,68% del 2008 (3.049.266 elettori) al 47,44% (2.203.715 elettori) ha riguardato tutte le province ma soprattutto i due capoluoghi principali: Palermo e Catania. A Palermo nel 2008 aveva votato il 69,11 % degli elettori mentre ieri il 46,31 % (- 22,8 %). A Catania votò il 71,05%, mentre ieri il 51,12% (- 19.93%).
Il voto in provincia è ben più controllabile da sempre rispetto al voto nei grandi centri. Non di meno è ben possibile che la mafia si sia astenuta; è tuttavia ancora più certo che i cittadini onesti sono sfiduciati. È dunque un momento straordinariamente favorevole per chi ha delle mire sull’isola, oggi che il Mediterraneo è più che mai centrale per i pescecani di qua e di là dell’Atlantico.