In margine al conflitto Pechino-Tokyo sulla verità storica
DI MAURIZIO BLONDET
Provocate da un libro di testo giapponese che “giustificava” il massacro di Nanchino del 1937 (dove i nipponici invasori uccisero mezzo milione di cinesi), le proteste e i tumulti anti-giapponesi in Cina infuriano da giorni. Il regime di Pechino, che le ha consentite, ora invita alla calma; Tokyo esige delle scuse. Non si sa come finirà. L’evento preoccupa, perché si staglia in una crescente tensione nel Pacifico, dominata dalla nuove volontà egemonica cinese. Negli ultimi due anni, Pechino ha varato 23 grandi mezzi navali capaci di portare truppe e corazzati, concepiti, si potrebbe pensare, in vista di un’invasione di Taiwan, a 160 chilometri dalle sue coste. «Questa flotta anfibia, da sola, è pari all’intera produzione cantieristica degli Usa dal 2002 ad oggi», ha fatto sapere lo spionaggio militare americano. E non basta. Dal 2002 al 2004, Pechino ha varato 13 sottomarini d’assalto – al ritmo di uno ogni due mesi – alcuni nucleari (con motori made in Russia) e tutti capaci di lanciare missili in immersione: pensati, evidentemente, per colpire portaerei, ossia il tipo di navi su cui si fonda la supremazia americana nel Pacifico. A causa di questi sottomarini, in caso di attacco a Taiwan, gli Usa non potranno più mandare la loro flotta a ridosso dell’isola; dovranno tenersi a distanza di sicurezza, 800 chilometri, il che ridurrà il tempo operativo dei caccia decollati dalle portaerei. La Cina, si allarma il New York Times, ha analizzato acutamente i talloni d’Achille degli Usa, e ha concentrato le spese militari in sistemi d’arma mirati a colpirli nei punti deboli. Mentre l’apparato militare americano si usura in Iraq, la Cina cresce, secondo gli analisti di Washington, «come minaccia strategica primaria». Ma proprio i disordini anti-nipponici in Cina mostrano che a Pechino la grande intelligenza militare non si coniuga con una pari intelligenza politica. Benché una potente forza armata sia condizione necessaria di un’egemonia, non è sufficiente. Perseguire l’egemonia, significa – per la potenza egemone – includere e far partecipare a essa i partner minori, cointeressandoli a un grande progetto comune di sicurezza e prosperità. È il modello insegnato, una volta per tutte, dall’impero romano. Ora, per profonde ragioni culturali, le grandi potenze asiatiche che nella storia hanno preteso all’egemonia nel Pacifico non sono mai state capaci di un simile, generoso disegno.
Il Giappone imperiale enunciò un “piano di co-prosperità” negli anni ’30: ma poi le sue feroci truppe, sciamanti in Corea, Filippine e Cina, si macchiarono di stupri, saccheggi, massacri come appunto quello di Nanchino, trattando gli occupati da inferiori e da schiavi. Ora sarebbe la volta della Cina. La sua impetuosa crescita economica già produce, di per sé, l’area di prosperità comune che potrebbe escludere gli Usa. Già i legami commerciali tra Cina e Giappone sono enormi, con reciproco vantaggio, e non parliamo di quelli con Taiwan. Ma, anziché proporre loro un più ampio progetto di cooperazione pacifica nel nome dei comuni interessi, Pechino concepisce il suo ruolo come aggressività e minaccia d’invasione dei vicini. I quali, una volta di più, tornano a raccogliersi sotto l’ala dell’America. L’egemonia Usa nel Pacifico non è frutto del caso né della forza, ma una necessità storica, e una razionale convenienza dei dominati.
Maurizio Blondet
Fonte:www.avvenire.it
12.04.05