LA VIRTU' DELLA SOBRIETA'

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Praticare la decrescita nelle proprie scelte di vita, riducendo la quantità di merci, e vivere felici

DI MAURIZIO PALLANTE

Sostenere la necessità di una decrescita economica e produttiva, descriverne i vantaggi in termini di felicità individuale, di sollievo per gli ecosistemi terrestri, di relazioni più eque e serene tra gli individui e tra i popoli, è un passaggio obbligato nella costruzione di una nuova cultura capace di superare i terribili problemi che il sistema economico industriale, fondato sulla crescita illimitata della produzione di merci, pone all’umanità e a tutte le specie viventi. Ma è come voler parlare a voce in un ambiente dove un potente sistema di amplificazione sostiene contemporaneamente il concetto opposto. Non si viene ascoltati non solo perché si sostengono posizioni così contro corrente da essere respinte a priori dai più, ma anche perché non si riesce nemmeno a far udire la propria voce. È come voler fermare un treno in corsa contrapponendogli solo la propria forza muscolare. Ciò nonostante occorre ribadire in tutte le sedi i rapporti di causa-effetto tra la crescita del p.i.l. e l’esaurimento di risorse vitali, l’incremento esponenziale delle varie forme di inquinamento, la progressiva devastazione degli ambienti naturali e storicamente antropizzati, la disoccupazione, le guerre, il degrado sociale. Ma l’analisi e la denuncia non bastano. Occorre contestualmente effettuare nella propria vita scelte che comportano decrementi, anche infinitesimali, del p.i.l. Innanzitutto perché se si è convinti che la decrescita sia un elemento indispensabile per una vita più felice sarebbe sciocco non cominciare a praticarla subito nella propria. In secondo luogo perché se le riflessioni sulla necessità della decrescita si sviluppano da una pratica concreta e sperimentata non sono soltanto speculazioni teoriche e diventano più credibili. Infine perché i vantaggi derivanti dalla loro pratica non si limitano all’ambito individuale, alla costruzione di una nicchia in cui rifugiarsi da un mondo che va in direzione opposta e difendersi dalle sofferenze che genera, ma acquistano il valore di una proposta politica. Nella ossessiva ripetitività e passività dei comportamenti consumisti massificati acquistano visibilità e luminosità, manifestano i loro vantaggi e, di conseguenza, possono suscitare ripensamenti: “Se lo stanno facendo alcuni, per quale motivo non posso farlo anche io?”

Come si può praticare la decrescita nelle proprie scelte di vita?

Innanzitutto chiarendo a se stessi cosa è e come si realizza la crescita del p.i.l. A differenza di quanto comunemente si crede, la crescita del p.i.l. non misura la crescita dei beni prodotti da un sistema economico, ma la crescita delle merci scambiate con denaro. Non sempre le merci sono beni, perché nel concetto di bene è insita una connotazione qualitativa – qualcosa che offre vantaggi – che invece non pertiene al concetto di merce. Se si fanno le code in automobile aumenta il consumo della merce carburante, quindi si accresce il p.i.l., ma si ha uno svantaggio, una disutilità. Viceversa, non necessariamente i beni sono merci, perché si può produrre qualcosa senza scambiarla con denaro, ma per utilizzarla in proprio o per donarla. I prodotti del proprio orto e del proprio frutteto autoconsumati non sono merci e, pertanto, non fanno crescere il p.i.l., ma sono qualitativamente superiori agli ortaggi e alla frutta prodotta industrialmente e comprata al supermercato. La cura dei propri figli o l’assistenza dei propri vecchi fatta con amore è qualitativamente molto superiore alla cura che può prestare una persona pagata per farlo. Ma questa attività prestata in cambio di denaro fa crescere il p.i.l., l’altra, donata per amore, no.

Fare scelte esistenziali nell’ottica della decrescita significa quindi ridurre la quantità delle merci nella propria vita. A tal fine si possono percorrere due strade:

1. ridurre l’uso di merci che comportano utilità decrescenti e disutilità crescenti, che generano un forte impatto ambientale, che causano ingiustizie sociali;

2. sostituire nella maggiore quantità possibile le merci con beni.

La prima è la strada della sobrietà. La seconda è la strada dell’autoproduzione e degli scambi non mercantili, basati sul dono e la reciprocità.

La sobrietà non è soltanto una virtù di cui il sistema economico e produttivo basato sulla crescita del p.i.l. ha voluto cancellare accuratamente ogni traccia perché non se ne serbasse nemmeno la memoria nel giro di una generazione, ma è, soprattutto una manifestazione di intelligenza e di autonomia di pensiero.

Chi vive in un appartamento dove in inverno la temperatura è di 22 gradi, indossando una maglietta a maniche corte e quando ha troppo caldo apre le finestre, è convinto di vivere meglio di una persona che vive a 18 gradi, con un maglione, e se ha troppo caldo abbassa il riscaldamento. In realtà è un consumista stupido, che vive in un modo fisiologicamente innaturale, è più soggetto ad ammalarsi, contribuisce ad accrescere in misura maggiore le emissioni di CO2 e, per ottenere questi svantaggi, paga di più. Ma fa crescere di più il p.i.l.

Chi lavora cinque mesi all’anno per acquistare e mantenere un’automobile che gli serve ad incolonnarsi ogni giorno lavorativo due volte al giorno per ore sulle tangenziali nel tragitto casa-lavoro, e ogni giorno festivo due volte al giorno per un numero maggiore di ore sulle autostrade nel tragitto casa-località di villeggiatura, è un consumista stupido, che si costringe a vivere una vita insopportabile e ben più infelice di una persona che lavora di meno e guadagna di meno, ma proprio per questo non ha bisogno di soldi da spendere in automobili, benzina, autostrade, compensazioni illusorie nelle località di vacanza dello stress accumulato nella settimana lavorativa. Ma fa decrescere il p.i.l.

Chi segue le mode imposte dalla pubblicità, nell’abbigliamento, nell’alimentazione, nel tempo libero, nelle vacanze, consuma molto di più di chi non le segue e, quindi fa crescere il p.i.l. acquistando illusioni scambiate per realtà. Vive in uno stato di ottusità mentale, di cui i pubblicitari sono ben consci: basta ascoltare i loro messaggi per capire che escludono a priori le poche persone dotate di autonomia di pensiero. Tanto questa minoranza non comprerebbe comunque le merci alla moda pubblicizzate.

La sobrietà nell’acquisto di merci, in funzione di bisogni reali e non indotti, privilegiando quelle prodotte col minor impatto ambientale, che provengono da meno lontano e quindi hanno fatto consumare meno fonti fossili nel trasporto dal produttore al consumatore, che generano pochi o punti rifiuti, che non costano poco perché hanno sfruttato ignobilmente la miseria dei lavoratori, che sono fatte per durare o per essere riciclate, è quindi al contempo una manifestazione d’intelligenza e una virtù. Comporta una decrescita del consumo di merci e del p.i.l. da cui deriva un miglioramento della qualità della vita e degli ambienti.

La sobrietà comporta una riduzione della crescita del p.i.l. attraverso una riduzione del consumo di merci, ma non consente una emancipazione dalla dipendenza assoluta nei loro confronti. E la sempre maggiore dipendenza dalle merci è la conseguenza di una sempre maggiore incapacità di autoprodurre beni. Per aver bisogno di comprare tutto ciò che serve a soddisfare i propri bisogni vitali bisogna essere incapaci di tutto. Solo chi non sa fare niente di ciò che gli serve può diventare un consumista senza alternative. La condizione di non saper produrre nessun bene, o quasi, nei paesi industrializzati è ormai generalizzata. Oggettivamente costituisce un enorme depauperamento culturale, che invece è stato proposto e vissuto come un progresso e come un’emancipazione dell’uomo dai limiti della natura. Se la crescita del p.i.l. è stata considerata sinonimo di benessere e la crescita quantitativa delle merci un bene in sé, la possibilità di acquistarne la maggiore quantità possibile e, quindi, la sostituzione dei beni autoprodotti con merci prodotte industrialmente, è stata identificata con un miglioramento della qualità della vita. Nell’arco di una generazione alcuni beni di uso comune, come lo yogurt, il pane, la passata di pomodoro, le marmellate, le verdure sottolio e sottaceto, non si sono più fatti in casa e sono stati sostituiti da prodotti comprati al supermercato. L’autoproduzione di frutta e verdura è stata sostituita con prodotti agroalimentari carichi di veleni e senza sapore. Un processo disastroso in cui si sommano perdita di qualità e perdita di conoscenze, ma che è stato considerato un progresso perché ha comportato una crescita quantitativa della produzione di merci e del p.i.l.

La rivalutazione dell’autoproduzione di beni e servizi non solo consente di ridurre il consumo di merci e, di conseguenza, il p.i.l., ma anche di riscoprire un sapere e un saper fare dimenticati, considerati arretrati e poco scientifici perché non finalizzati ad accrescere le quantità. Ha quindi una grande valenza culturale, che non si limita a questo recupero di conoscenze, ma, cosa ancora più importante, libera dalla dipendenza assoluta dalle merci. Emancipa dalla subordinazione alle leggi del mercato. Aumenta il prezzo della frutta? E chi se se importa, se me la produco io. Maggiore è la quantità di beni che si sanno autoprodurre, meno merci occorre comprare, meno denaro occorre per vivere. Non si è costretti a incolonnarsi tutti giorni feriali due volte al giorno sulle tangenziali per andare a guadagnare un salario con cui comprare tutto ciò che non si sa autoprodurre. Non si ha bisogno di incolonnarsi tutti i giorni festivi sulle autostrade nell’illusorio tentativo di recuperare con altro stress lo stress accumulato nella settimana lavorativa.

La sostituzione delle merci con beni, dell’acquisto con l’autoproduzione, comporta dunque una decrescita del p.i.l. ma non ristrettezze di approvvigionamento, sacrifici e rinunce. Ne deriva anzi un sensibile miglioramento della qualità della vita individuale e delle condizioni ambientali. La frutta e la verdura autoprodotte non sono nemmeno paragonabili qualitativamente a quelle prodotte industrialmente. Inoltre, nel loro statuto ontologico non esiste il carattere della crescita, perché non ha nessun senso produrne più di quanta se ne consuma e se ne dona. Se se ne producesse più del fabbisogno si farebbe soltanto una fatica inutile. E se nel loro statuto ontologico non esiste il carattere della crescita non esiste nemmeno la necessità delle protesi chimiche per sostenerla (fitofarmaci, antiparassitari, diserbanti, concimi di sintesi). Non c’è quindi inquinamento dei suoli, né l’inquinamento dell’aria causato dai consumi di energia necessari a produrre e trasportare le protesi chimiche. Non c’è nemmeno l’inquinamento dell’aria causato dal trasporto dei merci dai produttori ai consumatori. Non ci sono imballaggi né rifiuti da raccogliere e smaltire. E ognuno di questi vantaggi è un fattore di decrescita del p.i.l.

Nessuno potrebbe illudersi di autoprodurre tutto ciò che gli serve per vivere. L’autoproduzione di beni e servizi può essere tuttavia potenziata da scambi non mercantili fondati sul dono e sulla reciprocità, che oltre a essere fattori di decrescita economica contribuiscono anche a rafforzare i legami sociali. Il dono e la reciprocità, che hanno sostanziato la vita economica delle società pre-industriali e nei paesi industrializzati hanno apportato i loro benefici fino agli anni cinquanta del secolo scorso, non devono essere confusi con i regali acquistati e donati in un numero di circostanze fittizie crescenti, create appositamente per potenziare il consumismo, né possono essere semplicemente ridotti al baratto (scambio di prodotti senza l’intermediazione del denaro), ma consistono essenzialmente in uno scambio gratuito di tempo, di professionalità, di conoscenze, di disponibilità umana. In tutte le società di tutti i luoghi del mondo in cui si sono realizzate prima dell’industrializzazione e dell’estensione della mercificazione a tutte le sfere della vita umana, queste forme di scambio non mediato dal denaro hanno seguito tre regole, non scritte, ma generalizzate: l’obbligo di donare, l’obbligo di ricevere, l’obbligo di restituire più di quello che si è ricevuto. In questo modo si creano legami sociali, mentre gli scambi mercantili li distruggono. La parola “comunità”, formata dall’unione delle parole latine cum, che significa “con”, e munus, che significa “dono”, indica un’associazione fondata su scambi non mercantili, sul dono e la reciprocità, su legami sociali più forti di quelli esclusivamente mercantili che legano i membri di una società. Maggiore è l’incidenza degli scambi fondati sul dono e la reciprocità, minori sono gli scambi mercantili. Per allargare sempre di più la sfera degli scambi mercantili, la sfera delle merci, e quindi la crescita del p.i.l., la società industriale ha distrutto progressivamente gli scambi non mercantili, anche all’interno dei nuclei comunitari più forti, quelli fondati sui vincoli del sangue. Le famiglie sono state vieppiù ridotte al nucleo ristretto di genitori e figli e anche nei legami tra genitori e figli i servizi alla persona fondati sul dono e la reciprocità sono stati progressivamente sostituiti da prestazioni a pagamento: in particolare la cura dei piccoli e degli anziani. Rivalutare i legami comunitari nelle famiglie, rompere i limiti mononucleari in cui la famiglia è stata ristretta, riscoprire l’importanza dei rapporti di vicinato, costruire gruppi di acquisto solidali e banche del tempo (sebbene quanta cultura mercantile indotta è insita nella denominazione di “banca” data ad una forma di legame sociale che si propone di rompere i limiti della mercificazione nella fornitura di servizi alla persona!), restituire ai nonni il loro ruolo educativo e di trasmissione del sapere nei confronti dei nipoti: tutto ciò comporta una decrescita del p.i.l. attraverso una riduzione della mercificazione nei rapporti interpersonali e al contempo forti miglioramenti della qualità della vita.

La sobrietà, l’autoproduzione e gli scambi non mercantili non possono comunque abolire la dimensione mercantile, né sarebbe auspicabile che ciò avvenisse, perché alcuni beni e servizi possono solo essere acquistati e la loro privazione peggiorerebbe le condizioni di vita. Ma possono contribuire a ridurla in maniera determinante, riportandola alle sue dimensioni fisiologiche.

Ma quanto e cosa si può, o conviene, autoprodurre? Dipende da dove si vive, dal tipo di lavoro salariato che si fa, dalla fascia d’età, dalle caratteristiche della propria famiglia, dalla sofferenza (culturale, psicologica, esistenziale) che si prova a rimanere rinchiusi nella sola dimensione mercantile. Ognuno troverà la dimensione ottimale per sé, iniziando da poco e da ciò che gli sembra più facile o più vantaggioso, per estendere progressivamente, se lo riterrà opportuno, la sfera dell’autoproduzione e degli scambi non mercantili. Ma come si possono recuperare forme di sapere e saper fare che sono state cancellate dalla memoria collettiva? In realtà, come tutti i tentativi di uniformazione, anche questo non è riuscito del tutto. Qua e là sono rimaste nicchie di resistenza, che negli ultimi tempi hanno acquistato nuovi adepti. Come nei monasteri del primo e del secondo millennio sono stati conservati patrimoni di conoscenze che altrimenti sarebbero andate perdute, il sapere e il saper fare che liberano dalla dipendenza assoluta dalle merci sono stati conservati in pochi luoghi da poche persone, che le hanno anche implementati con una maggiore consapevolezza scientifica. Un movimento che si proponga l’obbiettivo di riconquistare equilibri sconvolti dal meccanismo della crescita economica e che persegua la decrescita come pre-requisito di questa riconquista, non può che proporsi di mettere in rete questi luoghi dove l’autoproduzione dei beni ha ancora un ruolo centrale. Rimettere in circolo questo sapere e questo saper fare, può costituire un’alternativa alla mercificazione totale che caratterizza la società della crescita.

Il primo passo in questa direzione è una mappatura di questi luoghi, mettendo in evidenza le forme di autoproduzione che vi sono praticate per soddisfare una parte del fabbisogno di chi li abita. La reciproca conoscenza può attivare scambi di conoscenze che consentono di ampliare la gamma di beni autoprodotti in ogni realtà, con benefici effetti, quantitativi e qualitativi, sul processo della decrescita. La mappatura di questi luoghi consentirà anche a chi vuole cominciare a introdurre nella sua vita elementi di autoproduzione per sottrarsi al meccanismo totalizzante del mercato, di sapere dove andare per imparare a fare i primi passi in questa direzione o a implementare le proprie conoscenze per arricchire la gamma dei beni con cui sostituire in misura sempre maggiore le merci che acquista. I luoghi in cui si praticano forme di autoproduzione sono numerosi. La varietà dei beni che si autoproducono più ampia di quanto s’immagini. Il bisogno di liberarsi dalla mercificazione assoluta spesso rimane mortificato dal non sapere come fare. Può mettersi in moto un processo moltiplicatore con effetti significativi sulla decrescita del p.i.l. e, forse, anche sulla felicità individuale di molte persone. Non è forse questo il significato più profondo della politica?

Maurizio Pallante
Tratto da: www.carta.org
30.08.05

Visto su:http://www.promiseland.it
LInk:http://www.promiseland.it/view.php?id=1368

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