LA VERA “GRANDE BUGIA”

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blankDI GIANFRANCO LA GRASSA

Ho recentemente letto l’unico intervento minimamente serio fatto sul libro di Pansa “La Grande Bugia”, su cui si sono scontrati destri e sinistri, fascisti e antifascisti, con tanta foga e poca verità da entrambe le parti. Non mi ha sorpreso constatare ancora una volta che il “pazzo” Cossiga è sempre il più lucido. Certo è un democristiano e quindi fondamentalmente anticomunista; certo quello che scrive è spesso paradossale e soprattutto “a doppio taglio”, sembra dire una cosa e ne sottintende (e suggerisce) altre. Tuttavia, mi permette di dire brevemente la mia povera opinione in questo can-can che è stato sollevato, facendo tutto sommato una bella pubblicità al giornalista “di sinistra” e anti-comunista.
Citiamo intanto Cossiga: il Pci ha “quasi monopolizzato il comando della lotta partigiana anche in forme violente” e ne ha “monopolizzato il ricordo, e anche giustamente, perché la resistenza è stata almeno per l’80% comunista, e senza il Pci non ci sarebbe stata resistenza [corsivi miei; e sottolineo pure che Cossiga usa resistenza con la minuscola]”. Cossiga ricorda, e a mio avviso correttamente, che senza la sconfitta delle truppe tedesche da parte di quelle “alleate”, la Resistenza sarebbe stata assai problematica, per non dire fallimentare. Una delle bugie, che raccontano certi anti-fascisti, è che il popolo italiano (solo nel Nord e fino alla Toscana, fra l’altro) si è riscattato dall’onta fascista e si è liberato da solo. Questo non è vero; e ho un’età più che sufficiente per ricordare alcune “cosette” (tanto più che sono assai vicino alla zona del Cansiglio dove agiva la Brigata Garibaldi).

Cossiga poi allarga molto il discorso oltre la semplice questione della Resistenza e ricorda – certo da anticomunista, ma che vede comunque la “realtà” con una disincantata lucidità – che “senza l’Unione Sovietica sotto Stalin” (pur con “tutte le purghe”, ecc.) “le Russie non si sarebbero affermate come una grande potenza, e senza il Partito comunista sovietico non si sarebbe avuto il grande movimento comunista internazionale, e neanche il grande Partito comunista di Palmiro Togliatti”. Ricorda ancora che, all’epoca della rivolta ungherese del ’56, “un comunista che non fosse filosovietico, non poteva considerarsi un vero comunista”. Egli sostiene poi sempre con sottile vena anti-comunista – tuttavia, mi dispiace dirlo, assai più realisticamente di tutti i comunisti (piciisti) ideologizzati e veramente con il cervello all’ammasso – che colui che, grazie anche a “Grandi Bugie è stato il vero fondatore del movimento comunista internazionale” (non di piccole pattuglie di rivoluzio-nari immaginari e sconfitti) “è stato Stalin”.

E infine conclude sul nostro “Risorgimento e l’Unificazione Nazionale Italiana, frutto non di un vasto movimento popolare né di una grande e unica cultura politica (Cattaneo ammirava più l’Austria-Ungheria che non il Regno di Carlo Alberto), ma di minoranze borghesi, della diplomazia ‘sarda’ e di un’accorta politica di alleanze politico-militari di un grande primo ministro… nonché di plebisciti truccati, e che quindi per lungo tempo si basarono su una ‘grande bugia’. Quel che Pansa dovrebbe accettare è che se le ‘Grandi Bugie’ producono grandi realtà, diventano o vengono considerate ‘Grandi Verità’, con i loro veneratori e sacerdoti”.

Può sembrare, lo ripeto, un linguaggio ambiguo, a doppio binario, ma lo preferisco a tanti truccati, fondamentalmente falsi, dibattiti in cui si raccontano balle. E la balla fondamentale, che ho sentito dire nella discussione sul libro di Pansa – ad esempio, fra gli altri, da un finto comunista quale Rizzo – è quella secondo cui la Resistenza era una lotta di liberazione nazionale; si è perfino fatto riferimento alla guerriglia vietnamita, etc. Innanzitutto, anche quest’ultima è stata, nel suo aspetto più decisivo, una guerra civile o, se si preferisce, “di classe”. I comunisti del Nord Vietnam non volevano solo liberarsi dall’occupazione USA, ma portare pure a compimento una rivoluzione sociale contro i dominanti (una classe “compradora”, etc), asserragliati nel Sud Vietnam e ormai soltanto sorretti dall’esercito statunitense.

La Resistenza italiana allargò la sua base certo anche per la lotta contro l’occupazione tedesca – tuttavia dopo l’ormai evidente sconfitta dell’Asse nella guerra contro gli Alleati – ma era rivolta soprattutto contro i fascisti arroccati nella “Repubblica di Salò”. E tuttavia, non è nemmeno questo l’aspetto fondamentale della Resistenza che, come ricorda perfino Cossiga, è stata condotta all’80% (almeno) dai comunisti; i quali manco per il cavolo si accontentavano di una semplice liberazione nazionale (altrimenti non avrebbero agito, nelle zone di confine, in strettissima, e per me giusta, alleanza con i partigiani jugoslavi, i comunisti guidati da Tito), e nemmeno si accontentavano della caduta del fascismo. I comunisti – e lo ribadisco: giustamente a mio avviso – perseguivano fini di rivoluzione sociale.

Non dirsi questo significa raccontar(si) balle, e restare esposti alle tesi di Pansa. Perché i cosiddetti “delitti”, successivi alla fine della guerra (nel sedicente “Triangolo della morte” e altrove), trovano giustificazione nell’intento di non farsi “derubare” – dopo essere stati per l’80% il nocciolo duro della Resistenza – dei risultati di tanta fatica (e morti e deportazioni e torture!) da una piena ricostruzione capitalistica come quella effettivamente verificatasi, con la messa ai margini dei veri resistenti, quelli comunisti (ci si ricorda ancora dei “reparti confino” alla Fiat, dei moti popolari, in situazione di autentica miseria come quella di allora, repressi nel sangue da Scelba, dei fatti di Portella della Ginestra, ecc?). Questi “fatterelli” Pansa non li ricorda; ma ciò che mi scandalizza è che non vogliono ricordarli nemmeno i resistenti (ormai pochi ovviamente) che non si batterono affatto per una pura liberazione nazionale o per il solo abbattimento del fascismo. E del resto, valeva forse la pena di sconfiggere il fascismo, una delle soluzioni del “dominio di classe”, solo per ripristinare l’altra soluzione, quella della “Repubblica democratica borghese”, che già Lenin, un effettivo comunista non falso e ipocrita come gli attuali, definiva la “migliore forma della dittatura della borghesia”? Questa la vergogna (e veramente grande bugia) dei finti “progressisti”, difensori d’ufficio della Resistenza di fronte alle smemoratezze di Pansa. Povera Resistenza (quella vera, quella di 60 anni fa): trovare difensori che alterano la realtà più ancora degli affossatori. Secondo me, chi si oppone alla “grande bugia”, con altrettanta capacità di menzogna, è il peggiore di tutti!

Continuiamo. E’ stato sensato non voler tentare di dare alla Resistenza uno sbocco nella rivoluzione sociale; i patti di Yalta erano molto precisi e tassativi e, se non li si fosse “rispettati”, i comunisti italiani avrebbero fatto indubbiamente la fine di quelli greci. La scelta di Togliatti, contrastata da un Secchia, è stata del tutto obbligata. L’opportunismo togliattiano nasce laddove ha voluto far passare tale necessità, e quindi una mossa tattica, per grande scelta strategica legata al principio secondo cui la “classe operaia” doveva dimostrarsi classe “nazionale”, ecc. Una scelta che comportò, ad es., la costrizione, imposta dalla CGIL (in quanto “cinghia di trasmissione” del partito) agli operai, di partecipare al “grande” (in realtà meschino e subordinato agli USA) piano di ricostruzione nazionale, che fu la completa restaurazione del capitalismo italiano; tanto “riconoscente” da imporre di troncare di netto i rapporti con il PCI – dopo il famoso 18 aprile 1948 – iniziando la brutale repressione di cui sopra detto.

Quella fasulla vocazione nazionale, quella scelta opportunistica (in quanto tattica eretta a principio strategico), si è poi dipanata lungo l’arco del successivo mezzo secolo fino a condurre i “comunisti” – approfittando del crollo del “socialismo reale”, di un’operazione come “mani pulite” condotta con il pieno appoggio di settori dell’imperialismo americano in cerca di un regime in Italia ancora più prono ai loro voleri, di cui doveva essere parte integrante e asse portante il “partito dei rinnegati” – a mutare denominazione (Pds e poi Ds) divenendo il più infame ed enfatico sostenitore dei grandi centri del potere finanziario, e dell’industria assistita dallo Stato (caso tipico la Fiat), che si potesse immaginare. Venne così in evidenza che il “comunismo” era in fondo già finito poco dopo Lenin. Indubbiamente, non erano realmente comunisti quelli sovietici (pur creando comunque una grande potenza in grado di frapporre molti validi ostacoli alla vocazione imperiale degli USA); non erano per nulla comunisti quelli italiani dopo la scelta – obbligata, lo ripeto, ma attuata con piglio strategico e non solo tattico come sarebbe stato giusto – fatta da Togliatti e dal gruppo dirigente che prevalse nel Pci subito appena finita la guerra.

Si trattava di piciisti, non di comunisti. Solo che i piciisti non sono nemmeno i socialdemocratici che avevano vinto da lungo tempo negli altri paesi dell’occidente capitalistico avanzato. In particolare, i piciisti italiani sono via via divenuti un misto dell’italianità rappresentata da Alberto Sordi (meschina, piagnona, dedita alle piccole manovre truffaldine da magliari) e di arrogante e supponente aria di superiorità perché…. “noi si che siamo furbi e freghiamo tutti”. Il piciismo ha creato – non subito ma nel corso di 50 anni – un personale politico (e anche intellettuale) che è senz’altro il peggiore mai prodotto nel nostro paese dalla sua Unità; un tipo umano sordido, cattivo, falso, bugiardo, capace delle peggiori nefandezze. I piciisti non sono “antidemocratici”, secondo l’accusa di certi imbecilli di destra; sono totalmente privi di qualsiasi riferimento ad un qualche valore, soltanto “macchine” tese al potere, anche passando sopra ogni sentimento e ogni senso dell’onore. Per le “masse”, di cui si riempiono la bocca, non hanno alcun rispetto, sono per loro pure e semplici “masse di manovra”, parco buoi da portare in giro per supportare le loro sporchissime operazioni di un potere da servi; perché sono servi dei potentati finanziari e industriali di cui sopra, a loro volta asserviti ai poteri dei dominanti centrali (USA).

Ecco perché non è entusiasmante il dibattito intorno al libro di Pansa; da una parte e dall’altra ci sta il peggio del peggio: intellettual(oid)i e politici che non hanno a cuore alcuna verità, solo il loro miserabile potere di servi. Onore e rispetto ai caduti – e anche a coloro che hanno combattuto – nella Resistenza vera, quella d’allora; e che fu rappresentata, ripetiamolo con Cossiga, per almeno l’80% da comunisti (non semplici piciisti). Ma oggi….fanno tanta tristezza e “miseria” anche i “vecchi” d’allora, che sembrano fotocopie ingiallite e sfrangiate dei combattenti che furono; e si fanno turlupinare da questo abietto ceto politico e intellettual(oid)e di “sinistra”, detto “progressista”, composto da “uomini di mondo” che non credono in nulla se non nel loro narcisismo, che predicano il “politicamente corretto”, cioè il più totale dei nichilismi culturali e morali. Non prendiamoli sul serio, per favore, non seguiamo i loro finti dibattiti da salotto del “Basso Impero”. Sempre più rimpiango che non ci sia un Balzac delle “Illusioni perdute” o un Maupassant del “Bel Ami”. Li dipingerebbero per quello che sono; individui vuoti, superficiali, vanesi, dotati di una cultura adatta alle chiacchiere in TV. Sono marionette mosse da ambizioni meschine, non uomini veri come quelli che fecero la Resistenza; per l’80% comunisti, che sperarono invano (arrivando a dare per tale scopo la propria vita) di “fare come in Russia”, non semplicemente di “ridare l’onore alla Nazione”.

Chi non è ancora degradato moralmente al punto dei diessini, dei rifondaroli, dei pidicisti, non si scordi queste ovvie verità.

Gianfranco La Grassa

2 novembre (non a caso “giorno dei morti”) 2006

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