LA TURCHIA IN EUROPA ?

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È un paese europeo, la Turchia? È plausibile annetterla pertanto nel novero degli aderenti all’Unione Europea? La questione si organizza a tre differenti livelli: etnografico, storico e politico. Esaminiamoli brevemente…

DI FRANCO CARDINI

Le polemiche, nella vita politica di un paese libero, sono necessarie e salutari. A patto di mantenersi su un piano di correttezza e di dignità, di onestà e di rispetto dei dati di fatto. Altrimenti scadono nella mistificazione e nella demagogia.
È un paese europeo, la Turchia? È plausibile annetterla pertanto nel novero degli aderenti all’Unione Europea? La questione si organizza a tre differenti livelli: etnografico, storico e politico. Esaminiamoli brevemente, con una necessaria premessa.La premessa è questa: noi europei ci siamo incamminati sulla via della costruzione di un nuovo soggetto storico e giuridico. Tale soggetto è la costruzione, entro tempi che saranno forse anche molto lunghi, di una nuova Grande Patria Comune, che non annullerà le identità precedenti ma che dovrà anzi esaltarle e sintetizzarle. Non c’è dubbio che, nella storia del nostro continente, siano evidenti le linee di una «comunità di destino», ben visibili fin dalle profonde radici cristiane dell’Europa medievale e modernamente avvertita da Grotius a Kant, da Napoleone ad Adenauer e oltre. Ma è non meno indubbio che nella storia non esiste nessun cammino necessariamente, determinatamente segnato. L’Europa non si sta unendo e non si unirà perché così è scritto da qualche parte, ma perché lo hanno voluto e lo stanno volendo gli europei. E, lungo il suo processo di unificazione, riscriverà di continuo la storia della sua coscienza identitaria, ridiscuterà di continuo i suoi confini. Essa è frutto di volontà: non si è mai nazione, se non nella misura in cui si vuole esserlo.

Dopo tale premessa, ecco i tre livelli del discorso che ha come oggetto la Turchia.
A livello etnografico, i tradizionali confini d’Europa oscillano tra il Caucaso, come voleva Erodono, e il Bosforo, come li indicava la prevalente tradizione antica e medievale. Erano i confini di una delle tre parti del mondo, dette «continenti», in cui i greci e i romani vedevano distinto l’insieme delle terre emerse e abitate, l’ecumène. Era questa una visione culturale e convenzionale, non obiettiva. Altre culture –come l’araba e la cinese- consideravano l’ecumène distinta non già in «continenti», bensì in fasce climatiche: distinzione altrettanto plausibile. È evidente che noi europei non stiamo costruendo un processo politico di unificazione per verificare e attualizzare un’antica convenzione geografica. È non meno evidente tuttavia che fino al XIV secolo un popolo uvaloaltaico, i turchi appunto, si sono insediati nel margine di sudest del continente europeo, dai Balcani alla regione che gli antichi chiamavano Tracia, costituendo la cosiddetta Turchia europea. Del resto, in Europa sono già presenti altri gruppi uvaloaltaici linguisticamente e culturalmente parlando affini ai turchi: i finlandesi e gli ungheresi.

A livello storico, la nostra Europa si riconosceva sostanzialmente, fino a pochi mesi fa, nei confini tradizionali determinati storicamente dall’espansione medievale della Chiesa latina: erano –grosso modo, e con la quasi-eccezione della Grecia- i confini della «Cristianità europea» cattolica e riformata e del vecchio Sacro Romano Impero. Era ancora l’Europa di Kant e del Congresso di Vienna, che dal Quattro-Cinquecento conosceva un preciso limite orientale sudorientale costituito dai confini dei due imperi a diverso titolo successori ed eredi di quello bizantino: il turco ottomano e il russo czarista. Ma l’estensione dell’Europa «dei venticinque» ha definitivamente superato questi confini, obbligandoci a ridefinire in modo rivoluzionario la nostra coscienza identitaria: oggi, come giustamente ha osservato il Santo Padre, l’Europa ha «due polmoni»: uno occidentale, di radice religiosa controprotestante ed etnica latino-celto-germanica, e uno orientale, cioè di radice ortodossa e greco-illirico-slava, con in più una non trascurabile componente musulmana (già balcanica prima che turca: a parte che “l’Islam europeo” dei convertiti e dei neocittadini).

Oltre a ciò, la Turchia ha nella sua storia un profondo e articolato rapporto con l’Europa. Un rapporto fatto di guerra e d’inimicizia, certo. Mai però assoluto e totalizzante. Le guerre non sono mai state estranee al continente europeo: se la loro memoria storica fosse un fattore in grado di ostacolare il processo d’unificazione, tanto varrebbe non provarci neppure. Per secoli inglesi e francesi, spagnoli e inglesi, francesi e spagnoli, tedeschi e francesi si sono odiati e combattuti. Quanto alla Turchia, per circa quattro secoli (dal XV al XVIII) essa si è opposta non tanto all’Europa quanto al Sacro Romano Impero nei Balcani, a Venezia nell’Adriatico e nell’Egeo, alla Spagna sul Mediterraneo. Va da sé che, in tempi nei quali il «processo di laicizzazione» era già avviato ma non così perentorio come in seguito, questi episodi militari assumessero una forte connotazione religiosa. Tuttavia non divennero mai «guerre di religione» alla stregua di quelle combattute tra cattolici e ugonotti nella Francia del Cinquecento e fra cattolici e protestanti nell’Europa della «guerra dei Trent’anni». L’Europa cristiana non combatteva la Turchia per convertirla: né viceversa. E, del resto, la cristianissima Francia e Inghilterra furono costantemente alleate del sultano contro Spagna e impero.

D’altronde, l’impero turco ottomano aveva per l’Europa un forte interesse culturale, soprattutto teologico, che fece cominciare per tempo fra Balcani e Anatolia, e soprattutto a Istanbul, un processo di europeizzazione che si tradusse in un forte afflusso di tecnici, di diplomatici, di capitali.

Anche sotto il profilo giuridico l’impero, pur senza rinunziare al suo connotato islamico, guardava all’Europa. Il più grande sultano del Cinquecento, quel Solimano che noi conosciamo come «il Magnifico», è conosciuto nei paesi musulmani come «al-Kanuni», cioè come il restauratore di Kanun. Ch’altro non è se non il Canon, la legge imperiale giustinianea, sia pur con gli adattamenti musulmani del caso. È da queste radici profonde che ha preso l’avvio la riforma occidentalizzatrice ed europeizzatrice di Mustafà Kemel Atatürk, che ha espunto l’Islam dalla vita pubblica e istituzionale turca con una decisione e un rigore paragonabili a quelli che la Francia della Terza Repubblica o il Messico del primo Novecento hanno usato nei confronti della Chiesa cattolica.

Ma l’Islam, che manca d’istituzioni ecclesiali, ha potuto opporre un’ancor minore resistenza; per quanto non manchino oggi, com’era logico prevedere, forti contraccolpi fondamentalisti. Quanto abbiamo detto è, ci pare, sufficiente a permetterci di concludere che le preclusioni nei confronti dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea fondata su ragioni contrabbandate come storico-religiose o storico-culturali sono inconsistenti, ridicole e inammissibili. Il problema, come si vede, va ben al di là della più semplice e ovvia obiezione che l’Europa non è un «club cristiano» e che nell’Unione vi sono già in gran numero cittadini musulmani.

Resta il problema politico. Esso è da considerarsi a due livelli: i diritti umani e i rapporti della Turchia con potenze extraeuropee. Non si tratta di nodi inestricabili: certo però ci vorrà tempo per scioglierli. I diritti umani riguardano delicati problemi connessi con la legislazione penale e la prassi poliziesca e carceraria, ma anche il trattamento delle minoranze etniche: non si può far la politica dello struzzo nei confronti della questione curda. Esiste poi il problema relativo ai rapporti diplomatici, economico-finanziari e militari fra Turchia e Stati Uniti d’America. Essi sono, allo stato attuale delle cose, tanto stretti da far capire molto bene che le insistenze dell’attuale governo statunitense affinchè l’ingresso della Turchia nell’Unione sia facilitato e accelerato il più possibile sono motivate da una volontà di stringere al massimo il controllo statunitense sull’Unione. Ciò è del tutto comprensibile: in politica nessun altro, neppure al migliore alleato. È ovvio che gli U.S.A. non vedano di buon occhio la crescita politica dell’Unione Europea da essi davvero indipendente e cerchino di ostacolarla. Se hanno fatto e continuano a fare la guerra all’euro, figurarsi se non la faranno alle prospettive d’un’Europa che possa in futuro condurre una sua politica estera e pensare autonomamente da essi alla propria difesa. Ma, a questo livello e in quest’ordine di problemi, è non meno legittimo e comprensibile che gli europei si provvedano per quanto ciò è possibile di quelle garanzie atte a evitare che la Turchia funga da «cavallo di Troia» di Washington all’interno dell’Unione.

Precauzioni queste, peraltro, sacrosante ma che nascono già compromesse o addirittura velleitarie. In termini di autonomia, la vita dell’Unione è ohimè già compromessa sul nascere. Date un’occhiata al Progetto di trattato che istituisce una Costituzione per l’Europa adottato per consenso della Convenzione europea il 13 giugno e il 10 luglio 2003 e trasmesso al Presidente del Consiglio Europeo a Roma il 18 successivo. L’edizione italiana è curata a Lussemburgo nel medesimo 2003. si tratta del progetto del trattato per la Costituzione trasmesso alla riunione del Consiglio europeo a Salonicco il 20 giugno 2003. a prescindere dall’errata traduzione d’un passo di Tucidide (p. 5), che gli fa dire il contrario di quello che dice e della pietosa inconsistenza del Preambolo, se andate alla Parte I, Titolo V (Esercizio delle competenze dell’Unione), Capo II (Disposizioni particolari), Articolo 40 (Disposizioni particolari relative all’attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune) Comma 2, pagina 38, vi rendete conto che la politica di difesa comune dell’Unione viene collegata e subordinata ai rapporti con la NATO, cioè con un’organizzazione politico-militare in parte extraeuropea e gli Alti Comandi della quale sono gestiti da una potenza extraeuropea. Se ponete questo dato testuale di fatto con il parallelismo fra l’ingresso dei nuovi stati euro-orientali nell’Unione Europea e della NATO e con le dichiarazioni dei consiglieri politici del Presidente Bush, secondo i quali il ruolo che la NATO sarà chiamata ad assumere nel futuro sarà sempre più politico, nonché –per l’Italia- con il dettato del trattato di pace, che istituisce l’extraterritorialità delle basi statunitensi sul territorio metropolitano italiano, vi renderete conto che l’articolo 40 del Progetto di Trattato corrisponde a una vera e propria «Dichiarazione di Dipendenza».

Come vedete, ce n’è di lavoro da fare prima di veder nascere un’autentica Libera Patria Comune.

Franco Cardini
Fonte:www.identitaeuropea.org/
dicembre 2004

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